"Cyber propaganda russa": il Washington Post ammette di aver scritto una mega bufala. I giornali italiani quando?

"Cyber propaganda russa": il Washington Post ammette di aver scritto una mega bufala. I giornali italiani quando?

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Hillary Clinton torna a parlare dopo la sconfitta elettorare e si scaglia contro le “fake news”, definendole “epidemie”.

Colei che ha armato i terroristi in Siria, ha forse in mente l'ultima clamorosa bufala del Washington Post, giornale di Amazon e del Pentagono, che ha generato un'ondata di neo maccartismo in tutto il mondo. E' stata una "fake" talmente grande -
 una vera e propria lista di “proscrizione” di 200 siti da parte di un gruppo di lavoro anonimo - sul sito “PropOrNot” (www.propornot.com) - che lo stesso giornale di Bezos è costretto a fare una marcia indietro clamorosa, ammettendo in sostanza di aver scritto una "mega bufala". 



«Nota dell’editore: il “Washington Post” del 24 novembre 2016 ha pubblicato un articolo sul lavoro svolto da quattro gruppi di ricercatori che hanno esaminato i risultati degli “sforzi propagandistici russi per minare la democrazia e gli interessi degli Stati Uniti”. Uno di questi gruppi di ricerca si è raccolto intorno al sito “PropOrNot”, che si fregia dell’anonimato pubblico, e che propone un elenco di 200 e più siti web che, a proprio parere, consapevolmente o inconsapevolmente, sarebbero colpevoli della pubblicazione di notizie “di propaganda russa”. Numerosi siti citati nella lista si sono opposti a questa “inclusione” e alcuni di essi, oltre ad altri non inclusi nella medesima lista, hanno pubblicamente contestato la metodologia e le conclusioni a cui è pervenuto il gruppo di lavoro. Il “Washington Post”, che non ha fatto menzione diretta di alcuno di questi siti, non si pronuncia sulla validità dei risultati a cui è giunto il gruppo di lavoro di “PropOrNot” in merito a qualsiasi mezzo di informazione personale, né l'articolo in questione pretende farlo. Dalla pubblicazione dell’articolo sul “Washington Post”, PropOrNot ha rimosso alcuni di questi siti dalla lista proposta”.

Questo il commento di Zero Hedge, uno dei siti, tirati in ballo nella “lista” del 24 novembre:

In questo modo, il “Washington Post” non solo prende le distanze dagli “esperti” citati nell’articolo di Timberg - il cui lavoro fa ovviamente da base ai contenuti dell’intero articolo (che è stato il più letto nella storia del “WaPo”), ma ammette anche di non poter garantire “la validità delle scoperte di ‘PropOrNot’ riguardo qualsiasi fonte di informazione individuale", ammettendo così che l’intera storia delle “fake news” potrebbe essere nulla, coinvolgendo però centinaia di realtà informative in una polemica alquanto infondata.
La descrizione nell’articolo dei fruitori e divulgatori di queste presunte “notizie fasulle” come di “utili idioti” potrebbe "
includere teoricamente chiunque - su qualsiasi piattaforma di social-media - condivida notizie basate sulclick-baiting’ [la ricerca delclick facilebasata sulla redazione di titoli accattivanti, ndt]", ha notato poi Mathew Ingram su “Fortune” (“No, Russian Agents Are Not Behind Every Piece of Fake News You See” - “No, non ci sono ‘agenti russi’ dietro ogni articolo di ‘fake news’ che leggiamo”).
Il problema più grande però lo pone lo stesso sito “PropOrNot”.
Come ha scritto Adrian Chen per il New Yorker, i metodi di indagine del sito sono essi stessi sospetti e accennano ad una “propaganda contro-russa” - apparentemente di origine ucraina - con l’impossibilità di verificare la stessa fondatezza del lavoro svolto. Chen ha scritto che "la prospettiva che voci legittimamente dissenzienti vengano etichettate come portatrici di ‘notizie false’ o di ‘propaganda russa’ ad opera di misteriosi gruppi di ex-dipendenti del governo Usa, con l'aiuto di un quotidiano nazionale, è ancor più spaventosa".

 

Il "Washington Post" ha avuto almeno la dignità di ammettere di non aver "valutato correttamente quanto riportato" e quindi di aver scritto una “bufala”.

Le “fake news”, in ultima analisi, sono il canto del cigno delle corporazioni mediatiche, disperate letteralmente perché non riescono più a manipolare l'opinione pubblica come in passato. Le scuse del giornale di Amazon non bastano, non solo perché si è diffamato il lavoro di decine di siti di informazione, ma perché quello che la sua bufala del WP ha generato è una serie di atti normativi che negli Usa significano già censura e in Europa - risoluzione folle del Parlamento europeo insegna - ci si prova.


Dopo la precisazione del WP, la domanda da porre ai giornali italiani - noti divulgatori di “fake news” da milioni di morti (dalle armi di distruzione di massa in Iraq, alle bambine stuprate dai soldati di Gheddafi per arrivare alle armi chimiche usate da Assad) -  è semplice: avrete almeno la dignità di fare la stessa precisazione e fermare questa ondata di odio in rete? Al momento nessun segnale, anzi.

La Redazione

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