Egitto, Al Sisi verso il secondo mandato. Quali prospettive per il Mediterraneo?

Egitto, Al Sisi verso il secondo mandato. Quali prospettive per il Mediterraneo?

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Ha ufficializzato la propria candidatura ad un secondo mandato il capo di Stato uscente egiziano Abd al-Fattah Al Sisi, in carica dal 2014. 

Lo ha annunciato durante una conferenza di tre giorni tenutasi dal 17 al 19 gennaio scorsi al Cairo, nella quale ha presentato i risultati del suo mandato davanti ad autorità civili, militari e religiose del Paese.  Al Sisi è salito al potere dopo la stagione delle cosiddette “primavere arabe”, che hanno visto l’ascesa, a partire dal 2011, di fazioni politiche legate al cosiddetto “radicalismo islamico” - in Egitto rappresentate dai “Fratelli musulmani” - tramite una rivolta armata che ha interessato tutti i Paesi della zona nordafricana e in parte del Medioriente, portando alla disgregazione della vicina Libia, con la fine del regime di Gheddafi e l’inizio di un’implosione che ha fatto dell’allora ricco Paese nordafricano un ricettacolo di radicalismo islamico e terrorismi di ogni specie, con l’ascesa dappertutto, temporanea o ancora in corso, di fazioni politiche legate all’Islam radicale.

La prima stagione si è conclusa con l’inizio della guerra in Siria, tuttora in corso, secondo il modello dell’appoggio a fazioni politiche che si opponevano al presidente in carica, in questo caso il siriano Bashar Al Assad, per rovesciarne il governo, mirando poi ad occupare il Paese per prenderne le ricchezze, com’è accaduto in Libia, come si voleva che accadesse in Siria o come si temeva che accadesse in Egitto.  In questa fase delle cosiddette “primavere arabe” non è stato secondario, anzi è stato preponderante, il ruolo di potenze straniere interessate alla destabilizzazione per motivi geopolitici ed economico-finanziari, parte delle quali ha subito un contraccolpo. E’ il caso dell’Italia, che era presente massicciamente in Libia, dove gestiva - tramite l’Eni - numerosi giacimenti di gas e petrolio, dovendo poi subire la perdita di contatto nella zona per via della concorrenza di Paesi come la Francia, dovendosi accollare poi ‘fenomeni di ritorno’ come l’emigrazione di massa, gestita in parte dalle fazioni che sono salite al potere a seguito della ‘primavera araba’, destabilizzando così a loro volta l’Italia stessa. 

A questo proposito, l’Italia potrebbe riprendere il proprio ruolo geostrategico nella zona, un po’ più a est e segnatamente in Egitto, tramite la gestione dei giacimenti gasiferi da poco scoperti di fronte alla costa mediterranea, riprendendo la tradizione di una politica estera che vedeva il Paese, nel secondo dopoguerra, guardare con favore alle realtà arabe sia sotto i governi democristiani che socialisti, anche con l’appoggio dell’opposizione comunista, in contrasto con le direttive ufficiali all’epoca emanate dagli Stati Uniti.

In Egitto la parabola delle “primavere arabe” ha visto prima la detronizzazione del presidente Mubarak sul modello del disarcionamento di Gheddafi, poi l’ascesa della fazione legata ai  “Fratelli musulmani”, poi una parziale e breve presidenza di Mohammed Morsi e la sostituzione definitiva operata da Al Sisi, che è intervenuto per far fronte allo sfacelo in cui si trovava il Paese, che stava precipitando in una grave crisi economica e sociale con il blocco soprattutto del settore vitale dell’economia egiziana, il turismo.

Le elezioni del prossimo marzo segneranno dunque la conferma della scelta iniziale fatta da Al Sisi, ribadendo la volontà di voler uscire dalla sfera di influenza degli Stati Uniti, che hanno alimentato sostanzialmente le proteste sfociate poi nelle cosiddette “primavere arabe”, e rimettere il Paese sulla strada dell’indipendenza nazionale, nel quadro del cosiddetto “panarabismo”, una macro-identità che accomuna i Paesi arabi (non necessariamente di fede musulmana), dal Marocco ai confini dell’India, per consolidare l’economia e rafforzare le istituzioni nel quadro di una politica interna ispirata a valori laici e costituzionali, non necessariamente religiosi, un movimento che ha caratterizzato le democrazie nordafricane dopo il processo di de-colonizzazione che le ha interessate negli anni ‘50 e ‘60 del Novecento. 

Al Sisi, criticato per le sue violeazioni di diritti umani, ha prima combattuto gli estremisti islamici e poi ha stabilizzato l’economia. Per questo oggi gode di un vasto appoggio popolare all'interno e di una progressiva riconquista del ruolo internazionale del Paese, fatti che gli permettono di guardare con ottimismo al prossimo turno elettorale, che si terrà dal 26 al 28 marzo prossimi, con eventuale turno di ballottaggio tra 24 e 26 aprile. 

Il primo diretto sfidante di Al Sisi sembra essere Hafez Anan, ben visto a Washington (è di fatto il candidato del generale Mattis), in continuità con i gruppi filo-americani che hanno alimentato le “rivoluzioni colorate”. 

La vittoria di Al Sisi sembra scontata, poggiando su risultati economici consolidati e un forte appoggio popolare. Va sottolineato, oltre ai numerosi contratti firmati con Pechino per partnership industriali e commerciali per un totale finora di 15 miliardi di dollari, anche il risultato del raddoppio del “canale di Suez”, lo stretto - in parte naturale - che collega il Mar Rosso e il Mar Mediterraneo, che il presidente ha voluto fortemente non appena insediato e che è stato realizzato in un solo anno e inaugurato nel 2015.
Vanno tenute in considerazione inoltre, sul fronte interno, le importanti dichiarazioni che lo stesso Al Sisi ha fatto nel 2015 rivolte alle autorità religiose del Paese, in gran parte di religione musulmana sunnita con una buona minoranza di cristiani copti (15% della popolazione), rivolgendosi al gran “shaikh” o imam supremo dell’Egitto, il rettore dell’”Università Al Ahzar”, il più grande ateneo di formazione sunnita dell’area africana e mediorientale, Al Tayyib, noto per essere figura di riferimento dell’Islam mondiale (l’Islam non ha “capi ufficiali” o formali come avviene nel cristianesimo), per chiedere una tregua sul fronte religioso interno spingendo per un accordo che ponesse fine al processo di radicalizzazione della popolazione di religione islamica, che aveva già prodotto la nascita di numerosi gruppi di guerra civile, e per porre termine, almeno formalmente, alla concorrenza tra autorità religiose e autorità civili e politiche, per spostare l’Egitto - o per riportarlo - su un modello di convivenza in cui è il governo a mediare tra i vari conflitti, non le autorità religiose, secondo uno schema che è tipico dei Paesi a costituzione laica, non come avviene in altri Paesi sunniti in cui il capo di governo ricopre un incarico di fatto anche religioso, o in Paesi a maggioranza sciita (una corrente minoritaria dell’Islam) in cui l’incarico politico e il ruolo religioso coincidono, come accade in Iran, dove il regime teocratico sembra risalire però più all’Impero persiano che alla più recente identità islamica. 

La ricostruzione egiziana, e le modalità in cui si è svolta, potrebbero essere un punto di riferimento per altri Paesi dell’area, soprattutto quelli della zona sub-sahariana, che sono funestati dall’integralismo islamico, che si nutre anche della presenza di quadri politici instabili o poco chiari. 

Ad aiutare Al Sisi nel dare al Paese una prospettiva di lungo respiro sono arrivati la collaborazione con la Russia, che ha fornito tecnologie militari di difesa, e l’ingresso del Paese nel progetto di “Nuova via della seta” voluto dal governo cinese, un programma di  infrastrutturazione globale che trova nell’Egitto il proprio principale partner nella zona nordafricana e grazie al suo affaccio sul Mar Mediterraneo. 

Ciò permette già - dopo il raddoppio del canale di Suez - alle merci di Pechino di evitare la circumnavigazione dell’Africa e trovare un più conveniente sbocco sulle sponde mediterranee. 

La partnership economica potrebbe consolidarsi inoltre ‘agganciando’ gli sviluppi della “Via della seta” più a sud, nella zona del Corno d’Africa, dove la Cina ha costruito la sua prima base militare fuori dai confini patrii, nello Stato di Gibuti, e soprattutto col primo tratto della ferrovia trans-subsahariana, che collega la città di Gibuti alla capitale dell’Etiopia, Addis Abeba, che Pechino ha immaginato essere il grande hub per il commercio di tutta la zona del Corno d’Africa. 

L’Etiopia è un altro grande Paese, con la sua numerosa popolazione e le caratteristiche culturali più semitiche che africane, separata però dall’Egitto dal problematico Sudan, che è sotto il controllo di fazioni filo-islamiste, rappresentando in ciò un fattore di destabilizzazione per i Paesi vicini. 

Finora Pechino ha pensato di “dividere i due fronti”, utilizzando il porto di Gibuti per l’accesso alla zona sub-sahariana ed il Mar Rosso per accedere al Mediterraneo.
Al governo cinese probabilmente interesserebbe individuare “percorsi alternativi” per la “Via della seta”, tenendo conto che le resistenze potrebbero manifestarsi sia da parte dei governi che dei gruppi islamisti, come accade ad esempio in Sudan, impedendo di fatto una saldatura tra Etiopia ed Egitto, oppure nella penisola araba, dove è in costruzione o ancora in progetto una ferrovia che collegherebbe Giordania ed Arabia Saudita costituendo in ciò una ‘concorrenza’ per la “Via della seta”, che si svolge invece per via marittima lungo il Mar Rosso. 

La società egiziana potrebbe fare da modello anche ad altri Paesi sunniti, come ad esempio la Turchia, il cui modello di governo sembra invece ispirato a quello dei “rais” islamici più che a quelli tradizionalmente laici ispirati alla stessa tradizione turca di Ataturk. 

In questo, la stagione delle democrazie arabe di stampo socialista, di cui ha fatto parte la stessa Siria della famiglia Assad, ha rappresentato un modello di sintesi per gestire la varietà delle posizioni politiche e religiose espresse nei vari Paesi, prevedendo ad esempio il ‘diritto di tribuna’ per le minoranze religiose, e per poter direzionare comunque lo sviluppo dei Paesi lungo una direttrice condivisa, che era all’epoca quella del nazionalismo panarabo. 

Con il problema dell’identità islamica Pechino si sta già cimentando, allergica com’è ad identificare il fattore religioso come elemento di identità in sé, considerando invece lo sviluppo come un modo per sintetizzare e in parte bypassare i conflitti di natura culturale ed etnica.
 
In ciò, la presenza cinese in Medioriente ha avuto finora un profilo basso, avendo ad esempio la Cina solo parzialmente lambito lo scenario siriano, cercando invece nell’Iran, sciita e addirittura “teocratico”, un consolidato partner nella zona, caratterizzata invece da Paesi a forte polarizzazione interna con diverse fazioni dell’Islam che si contrappongono o con Paesi formalmente sovrani ma di fatto punti di riferimento dell’Occidente in loco. 

Si pensi inoltre che il “laboratorio Islam” interessa la Cina stessa, sia perché essa è coinvolta nella partnership commerciale con il Pakistan lungo il corridoio del sud-ovest asiatico, Pakistan che è un Paese a forte presenza islamica con numerose fazioni radicali che si contendono il potere, sia per la questione dello Xinjiang, una regione cinese al confine con India e Pakistan, in cui la popolazione di religione musulmana è tentata dal forte radicalismo islamico, con la partecipazione a numerosi gruppi di guerriglia all’estero. 

A Pechino interessa probabilmente sperimentare modelli di crescita che riguardino anche popolazioni molto differenti per identità o visione religiosa ma che si sentano accomunate dall’interesse allo sviluppo di buone relazioni di tipo commerciale ed economico.

Giuseppe Dibello

Fonti: Egypt today - CGTN - Gli occhi della guerra - Nigrizia

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