Anche per la Cina arriva il tempo delle lettere (mafiosamente anonime). E' la libera stampa, bellezza

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L'attacco senza precedenti dell'Economist contro il presidente cinese

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di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it
 
Si avvicina il cinquantesimo anniversario dell'avvio della “Rivoluzione culturale”, vale a dire di quel decennio (1966-1976), tanto celebrato da circoli di estrema sinistra europea, che ha sconvolto la Cina popolare, producendo disordini, un clima da guerra civile e una vera e propria caccia alla streghe le cui vittime sono stati milioni di comunisti fino da allora impegnati nella paziente ricostruzione del proprio Paese dopo un secolo di aggressioni imperialiste, guerre civili e disintegrazione della propria sovranità.

In questo contesto, probabilmente non a caso, il prestigioso The Economist ha dedicato la propria copertina al presidente cinese, nonché segretario del Partito comunista, Xi Jinping, vestendolo e parzialmente camuffandolo alla Mao Zedong. Con un chiaro intento, che non è certo quello di analizzare l'opera e l'azione di colui che ancora oggi – e giustamente – è considerato il padre della patria: denunciare il ritorno del culto della personalità e l'accentramento del potere in una sola persona. Insomma, il ritorno della tirannia.
 
Questo tipo di critica all'indirizzo di Xi Jinping non è certo nuova, anzi lo ha di fatto accompagnato dalla sua nomina, dopo una brevissima stagione di speranze “liberal”. Altro che riformatore – si è detto – il successore di Hu Jintao non ha tenuto fede alle sue promesse di riforma, non ha aperto il Paese con maggiore decisione al mercato e – crimine odioso perpetrato nei confronti dell'opinione pubblica alimentata dal capitale occidentale – non ha smantellato le aziende di Stato e, con queste, l'intervento pubblico nell'economia. È possibile che in Cina la parola “riforma” - parola d'ordine dalla fine degli anni '70 del secolo scorso – abbiamo ancora un senso e non nasconda, come dalle nostre parti, la devoluzione al privato di ogni aspetto della nostra vita.
 
Nell'editoriale “Attenzione al culto di Xi” [1] si evidenzia come la sua azione abbia mandato in soffitta un caposaldo – non sapevo che nella redazione socialista dell'Economist ci tenessero così tanto! - della svolta di Deng Xiaoping, vale a dire la gestione collettiva del potere ai vertici del Partito comunista: “In tre anni e mezzo da quando è in carica, ha accumulato titoli ad un ritmo sorprendente. Egli non è solo leader di partito, capo di stato e comandante in capo, ma è controlla la riforma, i servizi di sicurezza e l'economia. In effetti è stato gettato il concetto sacro del partito della leadership "collettiva”. Mr Xi è, sostiene un analista, presidente del tutto. Allo stesso tempo, egli ha disprezzato il divieto del partito sul culto della personalità, introdotto nel 1982 per impedire un altro episodio di follia maoista”.
 
Io non ricordo tutta questa difesa della leadership collettiva quando un onnipotente Eltsin nel 1993 prese a cannonate il parlamento russo, mettendo in pratica sul serio l'invito maoista a “bombardare il quartier generale”! Poi, bisognerebbe ricordare che nella presidenza statunitense sono riuniti il ruolo di capo di Stato, di comandante in capo e il controllo dell'apparato di sicurezza e, inoltre, negli ultimi anni si è realizzata, nella stessa persona, la commistione tra potere esecutivo e giudiziario: spetta al comandante in capo dare l'assenso alla “kill list” che designa i nemici degli Usa da eliminare nei quattro angoli del mondo! Quello che si sviluppa è un processo segreto, con al centro il presidente Obama, che coinvolge in videoconferenza funzionari dei dipartimenti della Giustizia, della Difesa e della Cia, nel quale, di settimana in settimana, vengono presentati i candidati per l'imminente esecuzione (che coinvolge spesso innocenti). La decisione finale spetta al presidente, tanto quanto spettava al sanguinario sovrano inglese Enrico VIII. Non è un caso che uno studioso non certo di simpatie bolsceviche come Arthur Schlesinger abbia parlato di “Presidenza imperiale” [2] proprio in riferimento al potere della Casa Bianca di intraprendere guerre senza il consenso parlamentare.
 
Ma restiamo ai giorni nostri: nella vicina Birmania, il partito di maggioranza ha dovuto trovare un escamotage per aggirare una Costituzione che vieta ad Aung San Suu Kyi di diventare presidente: per lei è stato creato il ruolo di “consigliere di Stato” per “cementare – recita un poco scandalizzato New York Times - la sua influenza sui rami esecutivo e legislativo, che sono già controllati dai suoi alleati. […] Le quattro posizioni ricoperte nell'esecutivo, tra le quali quella di ministro degli esteri, e la guida del partito di maggioranza, ne fanno la persona più potente del governo” [3].
 
Eppoi, un poco di serietà cari analisti! Perché il paragonare la Cina di oggi, aperta al mondo, agli investimenti esteri, con una società civile abituata a viaggiare e studiare all'estero, con ampi e ramificati collegamenti con istituzioni straniere, che da decenni non mette in pratica una mobilitazione da campagna di massa, con quella isolata, povera e ostracizzata del 1966 mette solo in ridicolo! In un tale contesto – con tanto di maggiore libertà di accedere a fonti di informazione straniere – parlare di culto della personalità in stile maoista non ha senso alcuno.
 
Ma andiamo oltre, anche perché dobbiamo parlare di una lettera che, nella sostanza, condivide le critiche rivolte dal quotidiano economico a Xi Jinping. Comparsa online il 4 marzo scorso – giorno dell'apertura del parlamento cinese – e firmata da gruppo di “leali membri del partito” - si deve poi spiegare quale lealtà porta a scrivere una lettera anonima! - chiede le dimissioni proprio dell'attuale leader con accuse che per molti versi ricordano quelle riservate agli errori ufficialmente addebitati a Mao fin dal 1981, su tutti quello di aver accentrato troppo il potere: “In campo politico, il vostro abbandono di una importante tradizione del partito, in modo particolare l'abbandono del sistema democratico della leadership collettiva” che ha prodotto l'indebolimento del potere indipendente degli organi dello Stato e introdotto nuclei decisionali poco trasparenti. Ma non è tutto, perché questo “cahier de doleancés” tocca diversi nervi scoperti, economici e diplomatici. Le recenti turbolenze borsistiche lo vedono come diretto responsabile, in quanto a capo di diversi organismi economici, “dell'instabilità finanziaria che ha causato la perdita di ricchezza di molte persone”, mentre le riforme economiche stanno portando “a un gran numero di licenziamenti sia nel pubblico che nel privato”. Dal punto di vista della politica estera, dietro il rimprovero di aver smarrito la prudenza di Deng, c'è la totale messa in discussione della strategia della nuova Via della seta - “è stata indirizzata una enorme quantità di riserve valutarie in Paesi e regioni caotiche senza la certezza di un ritorno” - così come netta e liquidatoria è la valutazione dei risultati nella periferia: si è permesso alla Corea del Nord di completare i test nucleari, creando una minaccia diretta alla sicurezza del Paese, e agli Stati Uniti di impostare con successo “un fronte unito con Giappone, Corea del Sud e Filippine e ad altri Paesi del sudest per contenere la Cina”.
 
La lettera ha avuto ampia risonanza in Italia ed è stata subito interpretata come il segnale di divisioni e spaccature all'interno del partito comunista cinese e, al contempo, di una torsione sempre più autoritaria della leadership. Ma riflettiamo su altro e poniamoci qualche domanda. A chi può servire la denuncia di una leadership che sta traghettando il Paese in una delicata fase economica che lo vede impegnato in una lotta contro il tempo per superare il gap tecnologico che lo separa dalla più grande potenza militare mondiale e che nelle sue periferie strategiche è minacciato da movimenti terroristici? A chi può giovare questa denuncia, mentre attorno alla Cina si dispiegano provocazioni militari, si progettano scudi missilistici, si riattivano alleanze, insomma prende vita un accerchiamento militare a tutti gli effetti? Forse al popolo cinese che ha lasciato da poco alle spalle un secolo di umiliazioni? E poi, si rimprovera forse a Pechino di non praticare un controllo di tipo imperialistico sulla confinante Corea del Nord, tanto da orientarne la politica estera e di difesa? E – altra domanda – non conviene forse prima di tutto a Pechino gettare acqua sul fuoco in un contenzioso che rischia solo di giustificare un'ulteriore escalation della presenza militare ai propri confini? E che dire di un contenuto della lettera sul quale c'è stata un poco di disattenzione, vale a dire la messa in guardia per la salute e la vita del presidente e della sua famiglia? Beh, uno strano modo di chiedere democrazia. E, soprattutto, la via scelta sta ad indicare più la debolezza che la forza di una opposizione interna.
 
NOTE
 
1. The Economist, Bewere the cult of Xi, 2 aprile 2016
2. Arthur Schlesinger, La presidenza imperiale, Edizioni di Comunità, 1980
3. New York Times, Myanmar to Create New Post for Aung San Suu Kyi, Cementing Her Power, 31 marzo 2016.
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