Pechino verso un nuovo 'soft power'?

Pechino verso un nuovo 'soft power'?

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di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it


La Cina “globale” ha prestato sempre più attenzione alla sua immagine, alla diffusione e alla promozione della propria cultura, ben consapevole del fatto che sul “soft power” i passi da compiere sono ancora molti. Ma anche sotto l’aspetto del cosiddetto “potere morbido” occorre ormai sganciarsi da una definizione consolidata – quella che notoriamente fa capo allo studioso statunitense  Joseph Nye - perché rischia di “universalizzare” un caso di studio particolare – gli Stati Uniti appunto – per elevarlo a metro di giudizio globale in base al quale la Cina è sistematicamente condannata come Paese privo di particolare fascino e per questo impossibilitata a mettere realmente in discussione l’egemonia dell’american way of life. Mai infatti come in questi tempi di crescente impatto cinese sugli affari internazionali, si è ricorsi a questo tipo di ragionamento, quasi si volesse riaffermare quotidianamente – possiamo chiamarla “ridotta del soft power” -  ad una centralità che nei fatti è sempre più in discussione.



Il fatto è che – ed in parte già lo abbiamo visto – che quando si parla di “Beijing consensus” e di capacità attrattiva esercitata dalla Cina popolare il riferimento va fatto ai successi ottenuti sul piano economico e sociale che hanno portato un ex Paese coloniale alla condizione di potenza economica nell’epoca della globalizzazione. È quindi normale che quella parte del mondo ancora impegnata nella lotta contro il sottosviluppo e la povertà guardi a Pechino come la prova dell’esistenza di una ricetta di successo che in qualche modo possa essere seguita evitando la condanna e l’ostracismo occidentali. Anche per la capacità cinese di presentarsi a questa parte di mondo come Paese che ha condiviso orrori e nefandezze di colonialismo e imperialismo. Lo studioso Barthélémy Courmont si sofferma sulla penetrazione cinese in Africa: “La Cina non è mai stato un Paese colonizzatore, e ha di contro combattuto ferocemente gli imperi coloniali fino al 1950, la sua immagine così agli occhi degli africani esce difficilmente intaccata. D’altronde essa è percepita come un Paese del sud del Mondo distinguendosi nettamente dalle potenze occidentali – anche non post-coloniali, come gli Stati Uniti”.


A darne testimonianza da alcuni anni sono le ricerche condotte dal Pew Research Center per il quale ormai Pechino contende a Washington il primato nella “popolarità globale”, perché in grado di ottenere sempre più consenso in Africa, America Latina e Medio Oriente ed eroderne all’altra anche in Occidente: nel complesso – si legge in un rapporto dell’estate 2017 -  “i cittadini globali tendono ad esprimere opinioni positive sulla Cina. Una media del 47% tra le 38 nazioni intervistate ha un'opinione favorevole della Cina, mentre il 37% ne ha uno sfavorevole. I rating globali per gli Stati Uniti, che sono diminuiti drasticamente nel primo anno dell'amministrazione Trump, sembrano molto simili: una media del 49% vede gli Stati Uniti sotto una luce positiva, mentre il 39% offre una visione sfavorevole. A livello regionale, la Cina riceve i suoi rating più positivi nell'Africa sub-sahariana, dove ha investito molto negli ultimi anni. Al 72%, la valutazione della Cina da parte dei nigeriani è la più positiva del sondaggio. L'unico altro paese in cui almeno sette su dieci esprimono un parere favorevole è la Russia (70%)”; in una Europa divisa sulla percezione della Cina viene  rilevato come la “la quota del pubblico con una visione positiva sia comunque aumentata in modo significativo in alcuni paesi, tra cui Spagna, Francia e Regno Unito” [Pew Research Center, 13 luglio 2017].


È tuttavia indubbio che la dirigenza cinese abbia compiuto importanti passi e investito  molto - si contano 10 miliardi di dollari l’anno – proprio per accompagnare e collegare la forza del successo economico con la promozione dell’immagine di un Paese responsabile che non costituisce alcuna minaccia. Questo in linea con una chiara indicazione politica espressa nel 2007 da Hu Jintao e rilanciata nel 2014 da Xi Jinping come esigenza di “produrre un bel racconto della Cina e spiegare meglio il messaggio della Cina al mondo”. Da una parte Pechino, rilanciando diversi aspetti della propria ricca cultura millenaria, tanto filosofica quanto linguistica, ha investito quindi molto nella diffusione a livello planetario degli Istituti Confucio, tanto che se ne contano ormai cinquecento in oltre 140 Paesi (135 in 51 Paesi interessati dalla Belt&Road Initiative) con oltre 7 milioni di studenti che li hanno frequentati a partire dal 2003, mentre dall’altra si è lanciata anche nella competizione globale informativa contro storici colossi per far conoscere il proprio pensiero e le proprie posizioni sui tanti dossier internazionali aperti: Xinhua, la principale agenzia di stampa governativa, ha raddoppiato il numero dei corrispondenti esteri e punta ad arrivare entro il 2020 a 200 uffici esteri dagli attuali 170, mentre il suo servizio di media internazionale China Global Television Network ha sei canali che competono apertamente con quelli di Bbc, Cnn e Al Jazeera; la televisione statale China Central Tv – aprì nel 2000 il primo canale in inglese -  trasmette ormai in sei lingue in tutto il mondo.


Non è tutto, perché la Cina è di fatto anche un polo attrattivo anche dal punto di vista educativo e formativo: “Circa 300.000 studenti stranieri ora studiano nelle università cinesi (la stragrande maggioranza sta imparando la lingua cinese), con numeri maggiori nelle scuole professionali. Ogni anno, il China Scholarship Council offre circa 20.000 borse di studio a studenti stranieri. I ministeri del governo cinese, nel frattempo, amministrano una serie di corsi brevi per funzionari, diplomatici e ufficiali militari dei paesi in via di sviluppo. Queste classi insegnano agli studenti abilità tangibili, ma cercano anche di conquistare i cuori e le menti” [Shambaugh D., 2015].


Secondo i dati elaborati dall’ufficio statistico dell’Unesco, il numero degli studenti africani in Cina ha registrato un balzo considerevole passando dai 2.000 del 2003 ai circa 50.000 del 2015. Un aumento a dir poco impressionante che possiamo spiegare in parte con l’attenzione mirata del governo cinese allo sviluppo delle risorse umane e dell'istruzione in Africa, ma che in prospettiva assume valore anche per la capacità di influenza cinese: questi studenti che vedono nel Paese che li ospita un caso di successo economico e una terra di opportunità costituiranno una prossima generazione di studiosi e un’élite politico-economica africana, probabilmente ben disposte  a lavorare con la Cina e favorevoli nel giudizio della sua politica interna ed estera. È già stato infatti notato come il modello Cina – e anche quello del partito comunista -  faccia in effetti già scuola per diverse realtà anche attraverso attività di formazione dirette proprio alle forze di governo di Paesi in via di sviluppo. È il caso del partito filippino Pdp-Laban, al governo con il controverso Duterte, che nel 2016 ha stretto un accordo con il partito comunista cinese per permettere ai propri membri  di sottoporsi a un programma di "formazione politica" presso la scuola provinciale del partito comunista nel Fujian. In Africa – sottolinea una inchiesta dell’Economist – sarebbe in atto una vera e proprio offensiva di “potere morbido” come “contromossa” rispetto alla diffusione del modello liberale occidentale, proprio attraverso programmi di formazione politica in base ai quali “membri di partiti di governo, sindacati e ministeri vengono portati in Cina per incontrare i membri del partito comunista cinese". La prestigiosa rivista si sofferma nello specifico sui casi dell’Etiopia, dove il “partito di governo ha copiato molto di ciò che ha visto in Cina, controllando strettamente gli affari e gli investimenti, e imitando la Scuola centrale del Pcc cinese e il sistema dei quadri di partito”, e del Sud Africa che vede oltre la metà dei membri del comitato esecutivo dell’African National Congress (il partito di Nelson Mandela) “frequentare scuole di partito in Cina” [The Economist, luglio 2017].


Un’altra inchiesta si sofferma sul caso di un Paese di nuovissima indipendenza e impegnato a costruire le proprie strutture statali come il Sud Sudan, come esempio di influenza esercitata dalla Cina: “Centinaia di funzionari governativi sud sudanesi, uomini d'affari e studenti, frequentano corsi di formazione o scolarizzazione in Cina, ogni anno. Le delegazioni del Splm [Movimento di liberazione nazionale del popolo del Sudan] di Juba viaggiano in Cina più volte all'anno per studiare con il partito comunista. I burocrati dei ministeri della cultura, dei trasporti, della salute e di altri del governo partecipano ogni mese a corsi di formazione. Anche prima che il Sud Sudan diventasse uno Stato indipendente, i funzionari furono ospitati in Cina per partecipare a seminari sulla riduzione della povertà, gestire l'opinione pubblica e costruire un partito” [Kuo L., 2017].


È indubbio, l’immagine della Cina a livello globale sta profondamente cambiando, tanto da essere letta in luce positiva – principalmente dal punto di vista della collaborazione economica e del coinvolgimento nella risoluzione dei principali dossier – anche nei Paesi occidentali, tradizionalmente attenti allo scottante tema del rispetto dei diritti umani (in occasione della morte del Nobel Liu Xiaobo si è parlato di una sorta di “colpo mortale” inferto all’immagine di Pechino).


Pechino, consapevole del fatto che il “fascino” esercitato sia legato soprattutto al proprio successo economico, ha sapientemente sfruttato a livello di immagine alcuni eventi che l’hanno interessata per mostrare a livello di opinione pubblica mondiale come ci si trovasse di fronte ad un Paese rinato, proiettato al futuro e pronto ad entrare nell’esclusivo  - lo si pensava tale – club dello sviluppo. Le Olimpiadi andate in scena ad agosto del 2008, con la sontuosa cerimonia di apertura curata nell’avveniristico stadio a “nido di uccello” dal regista di fama internazionale Zhang Yimou, se da una parte hanno elevato la Cina al rango di superpotenza sportiva, dall’altro hanno confermato il suo ingresso nel novero delle potenze mondiali, coinvolgendo l’intero Paese in una vasta operazione di “rimessa a nuovo” con la ricostruzione di interi quartieri, l’edificazione di edifici lussuosi e la realizzazione di progetti architettonici grandiosi. Un ruolo da protagonista – rivelatrice in questo senso è stata proprio la cerimonia di apertura – hanno avuto una storia e una cultura millenarie, segnando il “definitivo inserimento nella globalizzazione” delle proprie tradizioni [Courmont B., 2011, 23]. Non a caso si è parlato subito dopo di una sapiente capacità cinese nella realizzazione di una “strategia dei grandi eventi” [Denaro L., 2010] visto che l’onda dei successi di immagine è proseguita negli anni immediatamente successivi con i Giochi asiatici ospitati a Guangzhou (Canton) nel 2010 e la successiva Esposizione universale di Shanghai (2011) - il primo evento del genere organizzato da un Paese in via sviluppo in oltre un secolo e mezzo - con la “Parigi d’Oriente” diventata vera e propria vetrina della modernità, dello sviluppo economico e del progresso tecnologico raggiunti della Cina.


D’altronde va ricordato che i giochi olimpici, come tutti i grandi eventi sportivi in generale, offrono da sempre ai paesi organizzatori un’occasione fondamentale per mostrare le proprie ambizioni di forza sul piano internazionale. Tanto che Loïc Ravenel, ricercatore presso il Centro internazionale di studi di sport (CIES) di Neuchâtel, ne parla come di una continuazione della guerra con mezzi pacifici. Esagerazioni a parte, di certo non ci troviamo di fronte ad un esclusivo fatto sportivo, perché manifestazioni così rilevanti costituiscono anche un “messaggio geopolitico: siamo una grande potenza perché riusciamo a preparare una grande manifestazione sportiva. Questo rientra nella sfera del cosiddetto soft power, la capacità di ostentare la propria potenza con mezzi diversi da quelli militari” [Burnand F., 2012]. E Pechino ospiterà nel 2022 anche i Giochi olimpici invernali, diventando l’unica città al mondo sede di entrambe le olimpiadi.


C’è però il rovescio della medaglia. L’attenzione alla propria immagine all’estero e la promozione della propria agenda politica hanno recentemente destato allarme in diversi Paesi: grazie alla pioggia di finanziamenti, alla presenza di aziende (soprattutto statali), alla collaborazione tra istituzioni culturali e alla attività delle comunità cinesi Pechino sarebbe ormai in grado di indirizzare il dibattito politico a suo favore. Allarme che ora non è più solo legato alla crescente presenza degli Istituti Confucio in tutto il mondo, con le difficoltà e i dubbi che ruotano intorno alla loro emanazione da un organo governativo e di partito come lo Hanban, ma che si è fatto più generale (e a volte pericolosamente generico).


L’accusa rivolta può essere così riassunta: l’agibilità democratica rende ormai i Paesi occidentali vulnerabili alla sofisticata e proteiforme influenza cinese. Si arriva fino al punto di puntare la lente del dubbio su ogni tipo di collaborazione, come fatto dalla rivista Foreign Policy che lo scorso novembre ha lanciato un nuovo allarme alla capacità del partito comunista cinese di “modellare l’opinione pubblica” a suo vantaggio: il riferimento specifico è ai finanziamenti provenienti in parte dalla cinese e filo-governativa China-United States Exchange Foundation (fondata nel 2008) alla Johns Hopkins University’s School of Advanced International Studies, uno dei migliori istituti di relazioni internazionali estera statunitensi e responsabile della formazione di funzionari governativi. Non è tutto, perché la “longa manus” comunista si manifesterebbe attraverso tutta una pletora di programmi di studio, professionali e accademici che coinvolgono studiosi, giornalisti, leader politici e vertici militari e realtà quali la Brookings Institution, il Center for Strategic and International Studies, l’Atlantic Council, il Center for American Progress, l’East-West Institute, il Carter Center e il Carnegie Endowment for Peace [Bethany A., 2017].


Una messa in guardia – l’ennesima ormai di una lunga serie – che fa seguito alle denunce e alle inchieste provenienti dall’Australia che hanno prodotto maggior scalpore a livello mondiale. Anche perché si tratta di una potenza regionale che vive quello che è stato definito un “dilemma strategico” determinato, da una parte, dalle opportunità economiche di una Cina in espansione e, dall’altro, dal suo ruolo di primo piano nel dispositivo di sicurezza militare degli Stati Uniti in Asia orientale. Una sorta di “doppia anima”: se, da una parte, governo e mondo politico in generale sottolineano l’importanza di una alleanza strategica consolidata e che risale ai tempi della guerra fredda, dall’altra c’è una comunità imprenditoriale che spinge perché il Paese accolga la realtà di un potere economico schiacciante in Asia come quello cinese. Di fatto la realtà del “dilemma” è questa: per la prima volta il principale partner economico (la Cina) non coincide con il principale alleato militare (gli Usa). Sul finire dell’estate del 2016  l’ambasciatore statunitense John Berry ha pubblicamente denunciato un intenso “coinvolgimento” di Pechino nella vita politica del Paese, attraverso il sostegno a politici dell’opposizione. Il riferimento è ai finanziamenti di piccola entità (si parla di cifre intorno al 1.600 dollari) che un uomo d’affari cinese ha indirizzato a un senatore del partito laburista, poi accusato di aver posizioni troppo concilianti sul Mar cinese meridionale. Un vero e proprio manifesto di questa campagna – che per certi versi richiama alla memoria i tempi della “red scare” e della caccia alle streghe del senatore McCarty – è l’editoriale a firma di Peter Hartcher, editor internazionale del Sydney Morning Herald, pubblicato sul quotidiano il 6 settembre: a suo dire il programma della “comunità di destino condiviso” di Xi Jinping altro non è che una copertura del progetto di dominio cinese in Asia. Un progetto che si alimenta grazie ai “figli e alle figlie” della Cina che il partito comunista, attraverso il dipartimento del Fronte unito, mobilita in ogni parte del mondo, sfruttando a suo vantaggio le libertà delle democrazie occidentali proprio per sconfiggerle. Per far fronte a questa infiltrazione il giornalista ha chiesto al governo australiano di avviare una “campagna di vigilanza contro la manipolazione straniera della propria democrazia”, indirizzata soprattutto verso quelle che definisce – rifacendosi ad una campagna di Mao – i “quattro parassiti”: ratti, mosche, zanzare e passeri. L’anno successivo una inchiesta giornalistica congiunta a firma Fairfax Media – Abc ha puntato il dito contro “l’infiltrazione segreta” condotta dal partito comunista cinese in Australia attraverso le donazioni di uomini di affari ai principali partiti politici, e il controllo esercito sulle attività delle comunità cinesi residenti (circa un milione di persone) e degli studenti (circa 150mila) impegnati nei diversi campus universitari. Si sarebbe dispiegata una capacità di infiltrazione – su “di una scala senza precedenti” - tale da compromettere la stessa sovranità australiana nell’elaborazione della propria politica estera.


Che tale capacità sia reale o meno – altri studiosi ne dubitano proprio in riferimento alle effettive prese di posizione del governo di Canberra– ci troviamo di fronte a denunce e richiami all’ordine che ci riportano in parte all’epoca della “red scare” e poi della guerra fredda culturale, quando ad essere accusata di allungare i propri tentacoli in Occidente, utilizzando movimenti e formazioni politiche ad essa vicine, era l’Unione Sovietica. Per Pechino si tratta, invece, di un nuovo fronte che si apre nella già difficoltosa promozione della propria politica a livello internazionale, soprattutto tra i Paesi alleati o legati a Washington e che dovrà essere affrontato con cautela per assicurare il successo ad un’iniziativa strategica come quella della nuova via della seta. Anche perché – è il caso dell’Unione Europa – sempre più diffuso è il timore che gli investimenti provenienti da Pechino, a suggellare più stretti rapporti bilaterali, si traducano in prese di posizione favorevoli a quest’ultima.


Riferimenti:


Bethany E. (2017), Funding Policy Research at Washington’s Most Influential Institutions, Foreign Policy, 28 novembre;
Burnand F. (2012), Mega eventi sportivi, strumento del soft power, Swissinfo.ch, 6 agosto;
Courmont B. (2014), Cina, la grande seduttrice, Fuoco Edizioni, Roma;
Denaro L. (2010), Giochi asiatici di Canton, vince il soft power cinese, Limes, 14 dicembre;
Kuo L., (2017), Beijing is cultivating the next generation of African elites by training them in China, Quartz, 14 dicembre;
Shambaugh D. (2015), China's Soft-Power Push, Foreign Affairs, luglio-agosto;

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