Il vergognoso giubilo dei 'liberali' ucraini e russi per l'incidente aereo del Tu-154

Il vergognoso giubilo dei 'liberali' ucraini e russi per l'incidente aereo del Tu-154

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di Fabrizio Poggi - Contropiano
 

Giornata di lutto nazionale oggi in Russia, per le 92 vittime del Tu-154 precipitato ieri mattina nel mar Nero. Le fonti ufficiali russe continuano a considerare “non prioritaria” la pista dell'attentato terroristico, nonostante alcuni dettagli lascino perplessi, a partire dalla mancanza di segnali di pericolo lanciati dall'aereo – come se qualche fatto straordinario fosse accaduto a bordo, a impedire le comunicazioni radio – prima di scomparire dai radar, o l'esteso spazio di mare in cui sono stati avvistati i primi rottami, che contraddirebbe con una caduta verticale del velivolo integro.


Ma l'attenzione in Russia, oltre che concentrarsi sulla tragedia che ha sconvolto la popolazione, è attirata dalle esternazioni di giubilo che giungono dall'Ucraina e anche, è obbligatorio rimarcarlo, dagli esponenti di quella “opposizione democratica” russa che non ha mancato di rimarcare la propria “liberalità”. Se i massimi rappresentanti della junta golpista di Kiev si sono distinti dal resto del mondo per l'eloquente silenzio con cui hanno evitato di esprimere il pur minimo sentimento di cordoglio, incaricando i propri tirapiedi di inondare i social network di scherni macabri, anche persone apparentemente comuni non sono state da meno nei commenti euforici per “i nemici dell'Ucraina castigati da dio”.


La portavoce del Ministero degli esteri russo, Marija Zakharova, scriveva ieri che la “gioia” per l'avaria occorsa al Tu-154 è manifestata dai radicali e dai nazionalisti ucraini e invitava i “gli amici liberali” russi ad abbandonare “questo scannatoio che si dileggia del sangue”. Se a Kiev il consigliere presidenziale ucraino, Jurij Birjukov giudica su feisbuc “un paradosso paradossale” il fatto che i russi “davvero non comprendano le regioni per cui noi gioiamo per la morte di 80 militari” e scriveva di voler portare all'ambasciata russa a Kiev una bottiglia di “Bojaryšnik” (il riferimento è alla marca di vodka adulterata, venduta a buon mercato, che negli ultimissimi giorni ha causato la morte di oltre 80 persone nella regione di Irkutsk), ecco che a Mosca non poteva non  distinguersi la giornalista rosa Božena Rynska, non nuova a comparsate folkloristiche da guardarobiera dei profeti liberal della “Russia dopo Putin”: su feisbuc si dispiace per il fatto che i passeggeri dell'aereo precipitato non fossero tutti giornalisti di NTVche, a suoi dire, l'hanno ripetutamente insultata e ringraziava dio “per il bonus” consistente almeno “nella troupe televisiva di NTV”, riferendosi ai tre giornalisti della rete indipendente, periti insieme ai tre colleghi del Primo canale e ai tre del canale Zvezda. Al pari di Božena, altri liberal, di quelli che non hanno mai un mal di pancia senza che i nostri media non ne incolpino il virus postsovietico, hanno scritto che “le vittime si stavano recando a esibirsi davanti agli assassini, perciò se la sono meritata”. Sergej Aleksašenko (ex vice presidente della Banca centrale all'epoca di Eltsin; dal 2013 “profugo” in USA) su tuitter: “Il moloch della guerra in Siria esige nuove vittime. Che differenza c'è: attentato o no. Volevano andare a danzare sulle tombe di Aleppo”. Il telegiornalista Aleksandr Gorokhov, a proposito del coro “Aleksandrov” ha sentenziato: “Quel coro impressionava prima, e impressiona ora, soprattutto con "Guerra santa" – insieme a “Katjuša”, forse l'aria più celebrata della Guerra patriottica – “una delle canzoni più orribili e sanguinarie … non fatevi turbare dal fatto mettessero il loro talento al servizio del regime”. Altri personaggi più in vista del mondo liberal – Navalnyj, Khodorkovskij o Kasjanov – più intelligentemente, si sono limitati a fredde parole di cordoglio. E di fronte alle esternazioni di Božena, c'è stato chi ha proposto di toglierle la cittadinanza russa e mettere all'asta tutti i suoi beni, a favore del fondo “Doktor Liza” per i bambini del Donbass, o chi ha scritto “vien voglia di ripristinare la psichiatria punitiva”.


Ma, naturalmente, è in Ucraina che ci si è davvero, per dirla con Zakharava, scherniti con il sangue: “i compagni d'arme di Bin Laden, che appoggiano i suoi metodi sanguinari, vengono eliminati a bordo degli aerei”; “in guerra si calcola in modo semplice: quanti più soldati nemici muoiono, tanti meno ne muoiono dei nostri”; “l'unica emozione: sono morti i nostri nemici. Punto”; “né gioia, né compassione; semplicemente, lo 0,01% di lavoro in meno” e via di questo passo.


“Il banchetto al tempo della peste”, potrebbe ripetere anche oggi Aleksandr Puškin, a proposito di tutti quegli ucraini che, mentre continua la tragedia del Donbass, mentre il paese vien considerato il più corrotto d'Europa e la capitale la più pericolosa, mentre l'80% della popolazione non può permettersi di accendere il riscaldamento, se vuol risparmiare per il cibo, non si rendono conto di come il paese stia scivolando verso una molto probabile disintegrazione. Accanto alle pretese più o meno dirette su parti del suo territorio che vengono da Polonia, Romania, Ungheria, ecc., ecco che rischia di aprirsi anche un fronte interno: la comunità polacca della regione di L'vov (“la città più polacca di tutta la Polonia”, la definiscono a Varsavia) chiede l'autonomia economica da Kiev, per integrarsi alla Polonia. Secondo il presidente dell'Unione dei polacchi di L'vov, Sergej Lukjanenko, l'arretratezza economica della Galizia ucraina è di almeno 50 anni rispetto alla Polonia odierna; per questo, il forum della comunità polacca della regione di L'vov intende richiedere a Kiev l'autonomia economica. Ha fatto da sponda a Lukjanenko, il deputato al Sejm polacco per il partito governativo “Diritto e giustizia”, Jan Zharin, secondo cui Varsavia deve venire incontro ai propri compatrioti della Galizia orientale. “I processi di decentralizzazione in Ucraina” ha detto Zharin, “sono un fatto naturale e inevitabile e costituiscono una smentita del mito sull'antica grande Ukra”; L'vov è sempre stata fedele alla Polonia, ha detto, ribadendo che “senza L'vov non esiste una nazione polacca” e l'autonomia economica da Kiev sarebbe un “primo passo di contatto con i compatrioti”. Quella stessa autonomia (ma politica) già richiesta dalla comunità ungherese della Transcarpazia ucraina e appoggiata dal partito ultradestro ungherese “Jobbik”. E Jurij Gorodnenko, su svpressa.ru, nota come i massimi esponenti del potere golpista, originari proprio dell'Ucraina occidentale e in particolare della regione di L'vov, dietro le insegne nazionalistiche e di grandezza, stiano portando il paese alla disgregazione territoriale. Sono gli stessi che, da majdan in poi, hanno iniziato la guerra nel Donbass e la fascistizzazione dell'Ucraina: l'attuale speaker della Rada, Andrej Parubij, che si sgola per l'introduzione del visto con la Russia (anche per quei 3 o 4 milioni di ucraini che sono costretti a lavorare in Russia), oppure il leader di “Svoboda” Oleg Tjagnibok, che voleva la segregazione per i russi di Crimea e del Donbass e che, con molti suoi colleghi, si è già procurato il passaporto britannico; o l'ex primo ministro Arsenij Jatsenjuk. Viene dalla regione occidentale di Ivano-Frank un altro “eroe” di majdan, Evgenij Niš?uk, che accusava di “inferiorità genetica” tutti gli abitanti del Donbass. Altro galiziano è Vladimir Parasjuk che, secondo lo stesso SBU ucraino, sarebbe stato l'organizzatore delle sparatorie dei cecchini a majdan il 20 febbraio 2014. Sono essi i fautori della “grande Ucraina”.


Eppure, scrive Gorodnenko, ogni straniero giunto da padrone in Galizia, Bucovina, Volynia prima del 1939, fossero gli austriaci, i polacchi o i rumeni, ha sempre considerato gli abitanti inferiori socialmente, culturalmente ed etnicamente, senza che questi ultimi si rivoltassero contro tale atteggiamento. Solo nel 1918, al crollo dell'impero austro-ungarico, fu proclamata la “Repubblica popolare dell'Ucraina occidentale”, che si liquefece di fronte ai nuovi padroni polacchi, cecoslovacchi e rumeni, cui i galiziani si offersero di buon grado come sudditi. E nessun ruolo di “Piemonte ucraino”, scrive Gorodnenko, cui ambivano nella “rinascita” dell'Ucraina moderna, riuscirono a giocare i galiziani; tantomeno lo hanno fatto nel 1991 e ancor meno in questi ultimi tre anni di potere dei golpisti provenienti dall'Ucraina occidentale.


Sono questi gli “eroi” dell'Ucraina europeista, stretti “compagni d'arme” dei liberali a est del Dnepr della Russia postsovietica.

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