I pericoli della flexicurity: cronaca di un disastro annunciato

I pericoli della flexicurity: cronaca di un disastro annunciato

La precarizzazione del lavoro in Spagna prodotto della riforma normativa 'flessibilizzatrice' ha ridotto in maniera importante la qualità del lavoro

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di Adoración Guamán - teleSUR
 

Già da diverse decadi le norme che regolano i rapporti di lavoro retribuito, il Diritto del Lavoro, stanno subendo una profonda mutazione genetica e non precisamente verso un miglioramento delle condizioni di vita delle masse. La distruzione dei diritti in ambito lavorativo viene camuffata dietro un discorso che ha un nome ben preciso: flexicurity.

 

Questa mutazione verso la precarietà è stata particolarmente marcata negli ultimi anni e si è prodotta in particolare nei paesi europei caratterizzati dall’avere norme in materia di lavoro orientate a proteggere la classe lavoratrice ed a garantire i diritti collettivi delle organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici. Al fine di distruggere questa volontà di protezione, e con un terreno di coltura perfetto (disoccupazione di massa e crisi economiche ricorrenti) nei paesi dell’antico Stato del benessere (Welfare State), è stato promosso il discorso suicida dove si afferma che la riduzione dei diritti dei lavoratori salariati è l’unico modo per raggiungere un maggiore livello di benessere economico. Il diritto del lavoro sarebbe, secondo il discorso proveniente dai settori imprenditoriali e dalle istituzioni finanziarie, il colpevole dell’elevato tasso di disoccupazione. Le norme lavorative sono, secondo il parere di questi settori economici, antiche e rigide, un ostacolo per le «esigenze della flessibilità delle imprese».

 

Flessibilità, ecco la grande parola d’ordine di moda tra le organizzazioni imprenditoriali che esigono il lavoratore si converta in una merce flessibile, adattabile alle esigenze dell’infallibile mercato, che tutto può. Si esige che i lavoratori assumano i rischi economici dell’imprenditore sul mercato e a questo scopo pretendono che l’impresa possa disfarsi della forza lavoro come se fosse del mobilio inservibile. 

 

Questo discorso si è inserito rapidamente nelle agende politiche statali con il patrocinio fondamentale delle istituzioni dell’Unione Europea. Evidentemente, è stato necessario truccare il termine flessibilità e per questo hanno inventato un nuovo circolo virtuoso: la flexicurity. In apparenza, questo concetto contiene la volontà di creare un equilibrio nel mercato del lavoro per ottenere una combinazione tra le misure di flessibilità e quelle orientate a dare sicurezza ai lavoratori, non sul posto di lavoro, ma nel mondo del lavoro. I documenti relativi alla politica europea per l'occupazione hanno presto integrato questo discorso, che giustifica la flessibilizzazione del mercato del lavoro in cambio di strategie che proteggono il lavoratore nelle transizioni tra posti di lavoro. Tuttavia, oltre le dichiarazioni d’intenti, questo termine rappresenta fondamentalmente il volto ‘amichevole’ della flessibilità, e il suo utilizzo da parte della Commissione Europea e dei governi di numerosi Stati membri (in particolare quello spagnolo) si vincola alla precarizzazione, cioè, alla riduzione dei diritti delle persone che lavorano e delle organizzazioni che le rappresentano, con la conversione della forza lavoro in merce.

 

Questa percezione si consolida analizzando la ricezione del concetto nella normativa spagnola, attraverso le grandi riforme del lavoro tra il 2010 e il 2014, molte delle quali già utilizzavano come asse centrale il termine flexicurity. Questa parola si costituisce come concetto guida delle modifiche normative orientate ad aumentare la tripla faccia della flessibilità: precarizzazione all’ingresso (contratti di lavoro temporanei, di durata molto breve e con figure atipiche come un periodo di prova di un anno); precarizzazione delle condizioni di lavoro (possibilità per l’imprenditore di ridurre i salari e modificare le condizioni di lavoro con facilità) e precarizzazione in uscita, cioè, libertà di licenziamento con indennizzo ridotto e senza autorizzazione. In maniera parallela, è stata spezzata la schiena ai sindacati, distruggendo la struttura della negoziazione collettiva, favorendo la contrattazione aziendale in luogo di quella settoriale. Questo ha provocato una svalutazione generalizzata dei salari in Spagna. Adesso hanno ottenuto quello che volevano, hanno flessibilizzato non solo il lavoro, anche la vita. La questione sicurezza si è persa lungo il cammino. La flexicurity in salsa spagnola si è così trasformata in un chiaro esempio di ‘flexi-insicurezza’.

 

Quali sono stati i risultati di questo esperimento di flexi-insicurezza instaurato in Spagna con le riforme realizzate tra il 2010 e il 2014? Per cominciare bisogna ricordare che dagli inizi del 2008 fino alla fine dell’anno 2013 si è verificata in Spagna una perdita netta di quasi 3.700.000 posti di lavoro, che rappresentano il 17,8% dell’occupazione totale del paese. La disoccupazione è salita quasi al 27% della forza lavoro e trai giovani fino al 57%. L’economia spagnola è, in seno alla UE, sulla che crea maggiori posti di lavoro in fasi di espansione economica e quella che distrugge più lavoro durante le recessioni, per questo sorprende che qualcuno possa affermare che il mercato del lavoro spagnolo è rigido, quando in realtà è il contrario. 

 

Ma le politiche di precarizzazione (flessibilizzazione) sono state ‘efficaci’ almeno per gli obiettivi di un governo preoccupato unicamente a truccare le cifre della disoccupazione. Dal 2014 sta aumentando il volume degli occupati in Spagna, la disoccupazione è passata dal già menzionato 27% al 18,75%. Le ragioni di questa crescita hanno a che vedere principalmente con fattori esterni come la ripresa economica europea che tira la domanda spagnola, e il calo del prezzo del petrolio, ma anche, naturalmente, la svalutazione salariale e la precarizzazione provocata dalle riforme normative ‘flessibilizzatrici’, che hanno ridotto drasticamente la qualità del lavoro e hanno plasmato la crescita dell’occupazione in Spagna. 

 

Vale la pena sacrificare il diritto a un lavoro dignitoso e stabile, a un salario adeguato, in cambio della creazione di posti di lavoro precari? La risposta è NO, la precarizzazione è un fenomeno che si radica nel mondo del lavoro, lo corrode, impedisce l’evoluzione professionale dei giovani, la loro emancipazione, la dignità della vita delle famiglie e che provoca povertà, scoraggiamento, disillusione, e che termina con generazioni intere che emigrano da un sistema che cancella i diritti per i quali hanno lottato intere generazioni. 

 

Quanto accaduto in Spagna dimostra che dietro i discorsi e i termini in apparenza ‘gentili’ si nascondono dinamiche di distruzione dei diritti riconosciuti nella Costituzione ecuadoriana del 2008, dove si riconosce con chiarezza il diritto a un lavoro dignitoso e stabile e il divieto di applicazione di politiche recessive dei diritti lavorativi. L’esperienza comparata, non solo spagnola, anche italiana, portoghese, greca o francese ci dimostra il percorso non passa attraverso una ricetta magica fallita, la flexicurity, ma da politiche consolidino il buen vivir e il lavoro dignitoso. 

 

(Traduzione dallo spagnolo per l’AntiDiplomatico di Fabrizio Verde)  

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