"Lavoriamo perché le cose non accadano": Gabrielli e la fine del conflitto sociale in Italia

 "Lavoriamo perché le cose non accadano": Gabrielli e la fine del conflitto sociale in Italia

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di Giacomo Marchetti - Contropiano


La lunga intervista di Carlo Bonini al capo della polizia Franco Gabrielli apparsa sulle prime pagine del quotidiano “La Repubblica” il 19 luglio è paradigmatica di un importante passaggio di fase che stiamo attraversando.
 

Questa è fase di transizione dai ritmi e dagli esiti incerti che si caratterizza per due aspetti complementari.
 

La prima è una più marcata tendenza alla guerra frutto dell’inasprirsi del conflitto inter-imperialistico nella competizione globale tra differenti poli al tempo di una crisi da cui non si intravede l’uscita dal tunnel, e specificatamente per la UE questo significa un profilo di intervento spiccatamente neo-coloniale come traspare tra l’altro per l’Italia dalle recenti dichiarazioni à la guerre comme à la guerre della Mogherini e della Pinotti.
 

La politica bellicista italiana che si prefigura implica una maggiore assunzione di responsabilità verso il baratro in cui le classi dirigenti ci stanno trascinando da tempo, con possibili effetti boomerang, come è avvenuto sempre più serialmente nelle cittadelle europee, e senz’altro sulla pelle di quelle popolazioni che vivono quei territori soggetti ai tentativi di destabilizzazione e/o di vera aggressione aventi strutturalmente come output l’immigrazione verso la Fortezza Europa.
 

La seconda è – sempre nel Vecchio Continente – un affondo decisivo alle garanzie politiche-sociali complessive delle classi popolari per subordinarne a tutti i livelli gli interessi dei ceti popolari ai progetti delle oligarchie ordo-liberali, abbassandone tra l’altro drasticamente il costo del lavoro, considerando la rappresentanza politico-sindacale uno scomodo retaggio da rimuovere di un quadro obsoleto di relazioni industriali.
 

In un paese alla periferia della UE come l’Italia, attraversata da una pesante ristrutturazione dettata dalla nuova divisione internazionale del lavoro secondo la regia UE, i costi di questa transizione di fase sembrano piuttosto onerosi e il corpo sociale potenzialmente insofferente nel vedere inasprita ulteriormente la propria già difficile condizione.
 

In questo contesto, in previsione di una finanziaria prossima ventura che si preannuncia una epocale macelleria sociale, di una difesa a spada tratta della rendita immobiliare-finanziaria da parte della classe politica dirigente, della privatizzazione di una serie di settori ancora parzialmente o totalmente pubblici (centrali nella gestione urbana) e non ultimo la svendita di importanti comparti del sistema produttivo nazionale, diviene prioritario l’impedire preventivamente il saldarsi di un blocco sociale antagonista con un orientamento ostile nei confronti della gerarchia di comando che va dai decision makers dell’Unione europea fino ai loro zelanti terminali politici nazionali e locali.
 

I media mainsteam, ma non solo, stanno infatti svolgendo un lavoro in profondità sul corpo sociale affinché gli effetti della “lotta di classe dall’alto” vengano tradotti non in un conflitto verticale tra il basso e l’alto, ma in una lotta dei penultimi contro gli ultimi.
 

Questi apparati stanno introducendo una cultura della de-solidarizzazione di massa che mina alle basi, in un contesto di spappolamento sociale, quel costruir pueplo che non si dà se non con edentro un processo politico organizzativo ed un indirizzo identitario in cui la solidarietà tra sfruttati, nelle varie forme che può assumere, è un perno imprescindibile.
 

La costruzione ideologica del “problema immigrazione” (e non della sua “cattiva” gestione) sta dentro questo tentativo di mutazione antropologica radicale della percezione delle classi subalterne; contrastare la creazione della peste emozionale contro il migrante diviene dunque una priorità politica.



 

La borghesia attraverso la sua trama di potere, tra cui i suoi organi di informazione e i suoi rappresentanti istituzionali, in primis Gentiloni, non fa altro che ripetere di essere sostanzialmente indifferente alle convulsioni del quadro partitico dato e aliena alle discussioni del ceto politico su possibili alleanze: chiede semplicemente stabilità, che tradotto vuol dire mantenere la barra ad ogni costo per applicare le formule decise tra Bruxelles e Strasburgo.
 

Questa esigenza, in assenza di una rappresentanza politica elettorale dotata di un sufficiente (anche se risicato) consenso, per applicarne i piani e di un evidente vuoto politico di rappresentanza per le classi subalterne – interna a una trasformazione complessiva della forma-stato – non può che produrre un salto di qualità nelle forme di controllo preventivo e repressione del conflitto sociale in Italia.
 

Questo si traduce in un accanimento nei confronti del corpo di attivisti maturati dentro l’orizzonte di questa crisi sistemica, dei vari soggetti organizzati che ne hanno fino ad ora incarnato la resistenza politico-sociale, nel tentativo di annichilire la creazione di una nuova generazione di “quadri” reali e potenziali formatisi nel magma sociale del mondo fluttuante all’interno della frantumazione di ogni ipotesi credibile di rappresentanza istituzionale.
 

La borghesia, in questo senso, agisce in prospettiva e ha ben chiaro il proprio nemico.
 

Infatti, la battaglia culturale su cui le élites stanno investendo punta alla legittimazione da un lato dell’ennesimo affondo al diritto di sciopero e dall’altro alla creazione di consenso verso il mix di pratiche che attingono dall’ingombrante bagaglio repressivo dello stato italiano nelle sue vari fasi di sviluppo (pre e “post-democratiche”); e ne crea di nuove come per esempio i decreti, ora leggi, Minniti Orlando.
 

La Kulturkampf condotta dagli apparati di potere politico-culturali tende a negare tra l’altro qualsiasi riconoscimento alla pluricentenaria storia del movimento operaio, in particolare alle sue espressioni non social-democratiche o cristiano-sociali, alle esperienze delle rivoluzioni comuniste ed anti-coloniali, nonché alle attuali esperienze di riscatto politico sociale statuali “in contro-tendenza”: questo sforzo punta ad impedire una presa di coscienza che si articoli in un progetto di trasformazione nel solco delle conquiste epocali dell’umanità sofferente.
 

Alla luce di questo quadro le parole di Gabrielli appaiono sotto tutt’altra luce.
 

Non le si devono interpretare come “coraggiosa autocritica” dell’operato passato delle forze dell’ordine attraverso la voce del suo massimo esponente, tesa soltanto a recuperare il consenso nel gap creatosi tra una residuale coscienza democratica del “variegato popolo della sinistra” e l’azione della polizia, ma come legittimazione di una diversa governance; non solo nella gestione di piazza, ma soprattutto a comprimere i margini di azione politica delle classi subalterne, nonché a una difesa tout court del corpo di polizia.
 

E’ il tentativo di creare un frame concettuale e una dignità intellettuale, in forma volgarizzata, alla giustificazione dello stato di eccezione permanente, alla perenne logica dell’emergenza, alla demolizione dello stato di diritto attraverso la sua trasformazione di un ordine post-democratico, in cui la rappresentanza dei singoli organi dello stato deriva non da una evaporata sovranità popolare, ma dalle esigenze delle oligarchie al di là e al di sopra della compagine governativa temporaneamente al timone, alla trasfigurazione di un corpo repressivo il cui l’operato è sempre più visibile a fette crescenti della classe.
 

Gabrielli, cerca di smarcarsi dall’immagine ideal-tipica del capo della polizia resa celebre da Gian Maria Volonté, in Un cittadino al di sopra di ogni sospetto, quello che conclude la sua visione del proprio ruolo con le parole: “il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere. La repressione è il nostro vaccino. Repressione è civiltà”. Ma il contenuto del suo dire non è meno preoccupante, anzi…
 

Riprendiamo l’ultima parte dell’intervista quando dice che “non ci sarà una nuova Genova”.
 

Il giornalista gli domanda se sia una promessa e lui risponde:
 

“È un fatto. Perché questi sedici anni non sono passati inutilmente. Prima dicevo che la polizia del 2001 era una polizia democratica esattamente come lo è quella di oggi. Ma sono cambiate molte cose nelle nostre routine, nella formazione delle nostre donne e dei nostri uomini, nella gestione dell’ordine pubblico. Guardiamo cosa è accaduto ad Amburgo. E guardiamo cosa invece è accaduto a Roma, in occasione dei 60 anni della firma dei trattati di Roma, e a Taormina con il G7. Il nostro sistema di prevenzione e sicurezza è oggi quello che conosciamo anche perché c’è stata Genova. E da lì è cominciata la nostra traversata nel deserto. Oggi, il nostro baricentro è spostato sulla prevenzione prima che sulla repressione. Sul prima, piuttosto che sul poi. Lavoriamo perché le cose non accadano. O quantomeno per ridurre la possibilità che accadano. Non per mettere una toppa quando il danno è fatto. Ecco perché dico che dobbiamo liberarci dalla maledizione di camminare in avanti con lo sguardo rivolto all’indietro. Consegniamo quel G8 di Genova alla Storia. Perché questo ci renderà tutti più liberi. E quando dico tutti, penso al Paese e alla Polizia che di questo Paese è figlia”.
 

Bene, in quelle parole centrali: lavoriamo perché le cose non accadano. O quanto meno per ridurre la possibilità che accadano sta il senso dell’intervista. Il conflitto sociale non deve esprimersi ed i recenti avvenimenti sembrano corroborare questa tesi, in cui non si rinuncia all’azione repressiva tout court (le cariche a Torino, Bologna e Padova) e all’uso dei fascisti, anche come vettori della mobilitazione reazionaria di massa oltre che in funzione squadristica, si inaspriscono le misure restrittive comminate come pena senza processo (fogli di via, sanzioni pecuniarie, ecc.), si crea un clima giustizialista e xenofobo teso a legittimare l’inasprimento delle condizioni detentive del circuito penitenziario e delle detenzioni amministrative nei lager per migranti, si negano forme di aggregazione che non siano all’interno e dentro il circuito commerciale del consumo del tempo libero, si elimina il concetto di scuola ed università come luogo di incontro, scambio e occasione di coltivare forme relazionali sganciate dagli input di performance imposti dall’istituzione scolastica e dai suoi ormai organici circuiti commerciali, ecc.
 

Appare quindi centrale lavorare su questo terreno con uno spirito unitario che travalichi i confini con cui si è affrontato il tema comunque centrale del controllo sociale e della repressione e con un approccio teso a investire un ampio spettro di forze politiche, ma soprattutto di soggetti sociali coinvolti. Un lavoro che raccordi le spinte spontanee che si sono espresse in questi mesi in opposizione alle leggi Minniti-Orlando ed il prezioso lavoro svolto dai compagni su questo tema da anni, in grado di dare vita ad una campagna nazionale che comprenda il rilancio della proposta di amnistia politico-sociale che rivendichi la legittimità, rifiutando la criminalizzazione, delle varie forme che la lotta di classe ha assunto e assume in questo Paese, contro la consegna di una generazione di attivisti politico-sociali alle strette maglie della repressione e ai ristretti orizzonti del carcere.
 

Una delle quattro campagne indicate dalla piattaforma politico-sociale Eurostop va in questa direzione ed ha intenzione di aprire un ampio confronto perché centrale nella propria agenda politica.

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