Le menzogne del Fatto Quotidiano per screditare Putin e la Russia

Le menzogne del Fatto Quotidiano per screditare Putin e la Russia

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di Eugenio Cipolla

Nell’epoca delle fake-news, della post-verità e di chi più ne ha e più ne metta per screditare chi non è allineato all’estabilishment, spunta Il Fatto Quotidiano. Il giornale diretto da Marco Travaglio dovrebbe essere una realtà disallineata rispetto alla schiera dei media benpensanti e invece, spesso e soprattutto in politica estera, segue la stessa linea di Corriere, Stampa e Repubblica, prendendo posizioni banali e diffondendo notizie distorte. L’ultima puntata di quella che ormai possiamo definire una saga delle falsità è andata “in onda” ieri, con un articolo dal titolo emblematico (“Arroganza e diritti schiacciati: è la democratura”) sulla Russia di Vladimir Putin, firmato da Roberta Zunini. Ora, nessuno, nemmeno tra i maggiori sostenitori del leader del Cremlino, ha mai parlato di Russia come modello di democrazia da esportare, ma l’esasperazione della figura di Putin, descritto come un dittatore spietato e cinico, sembra davvero un’esagerazione tesa a giustificare e minimizzare le azioni dei mediocri leader occidentali allineati al sistema.

Il pezzo firmato dalla Zunini, con tutto il rispetto per il tempo che ha impiegato a scriverlo e il lavoro che ha svolto, è un concentrato di luoghi comuni e banalità su un paese, la Russia, che all’interno dei confini italiani è conosciuta in maniera superficiale dalla stragrande maggioranza della popolazione. Vediamo quali sono i punti sui quali sono cascati la Zunini e Il Fatto.

“Se i dati ufficiali sottolineano che il presidente Vladimir Putin gode ancora di un alto indice di popolarità, nonostante le crescenti difficoltà economiche affrontate dai 146 milioni di abitanti della Federazione causate dalle spese militari in continuo aumento, oltre alle sanzioni impostate dall’occidente per la questionieucraina assieme a ulteriori restrizioni dei diritti civili, è altresì vero che le stime vengono fatte da istituti e media controllati dal Cremlino”.

Messa così la situazione descritta sembra simile a quella di un paese africano in guerrra: la Russia è un paese dove la gente muore di fame perché al posto del cibo per la popolazione il governo compra armi. La realtà è un’altra. L’economia russa, dopo un periodo difficile, ammesso dallo stesso governo di Mosca, è in fase di stabilizzazione. Cosa confermata sia dal ministero delle Finanze russo, dal FMI e da diverse agenzie di rating. Precisato ciò, va anche detto che la crisi russa non è dipesa dalle sanzioni occidentali per la crisi ucraina (che hanno in realtà penalizzato l’occidente, più che la Russia), quanto dal calo del prezzo del petrolio (materia prima di cui la Russia è uno dei maggiori produttori ed esportatori al mondo), che ha messo in difficoltà il governo (il quale aveva fatto i bilanci con una stima diversa). Riguardo ai sondaggi fatti “da istituti e media controllati dal Cremlino”, non bisogna nemmeno scovare l’ultimo e meno sconosciuto istituto demoscopico russo per dimostrare che non è così. L’ultimo rilevamento di Levada Center, uno dei maggiori e più importanti in Russia, conosciuto anche a livello internazionale, dice che nel primo mese del 2017 il gradimento di Putin è arrivato all’85%, un punto in più rispetto a dicembre, cinque rispetto a sei mesi fa. Le ragioni di questo aumento sono profonde e non certo sintetizzabili con l’assenza “di una stampa libera” o con “un’opinione pubblica alla mercé della propaganda di stato”. Il punto è che i russi preferiscono essere più poveri e con meno diritti che soggiogati da un popolo straniero. Lo dimostra il cattivo ricordo che i russi conservano di Eltsin e Gaidar, delle loro riforme economiche che negli anni ‘90 hanno consegnato il paese nelle mani di pochi oligarchi turbocapitalisti. Lo dimostra un sondaggio dello scorso anno, sempre di Levada, secondo il quale il 34% dei russi vede ancora Stalin di buon occhio, nonostante gli errori e i crimini che gli vengono attribuiti, perché “la cosa importante è che sotto la sua leadership la Russia è uscita vittoriosa dalla seconda guerra mondiale”. Ad ogni modo, il Levada Center, come sicuramente pensa la Zunini, non è un istituto demoscopico controllato dal Cremlino, con il quale negli scorsi mesi ha avuto più di qualche frizione. Da sempre sospettato di legami con gli Stati Uniti, il Levada è stato pesantemente multato dal Ministero della Giustizia russo e invitato a registrarsi come “agente straniero” a causa delle donazioni ricevute dall’estero. La legge russa che riguarda le ONG, infatti, prevede che tutte le organizzazioni non-profit o che svolgano attività politica e ricevono fondi esteri, si iscrivano in un apposito registro. Cosa che il Levada si rifiuta di fare e che ha spinto Lev Gudkov, direttore del centro, a parlare di “censura politica”, costringendolo peraltro a sospendere la raccolta fondi all’estero. La Russia ha sempre giustificato la legge sollevando l’esigenza di difendersi da influenze esterne a casa propria. Dunque, nonostante i numerosi scontri con il Cremlino, Levada continua a rilevare il gradimento di Putin all’85%. E’ la semplice realtà o anche questa è una fake-news?

“Ci sono poi le modifiche alla legislazione anti-estremismo (il “pacchetto Jarovaja”) del 7 luglio scorso, che obbligano per esempio i fornitori di tecnologie informatiche a conservare le registrazioni di tutte le conversazioni per 6 mesi e i meta-dati per 3 anni”.

Il pacchetto Jarovaja non è altro che una serie di norme sul controllo di internet che in Russia ha generato molte critiche e polemiche. Lo scontro in atto è tra l’amministrazione presidenziale e il parlamento, con la prima convinta che la memorizzazione dei dati non serva a nulla. Al centro dellos contro c’è il sistema di decrittografia DPI (Deep Packet Inspection) che verrà usato per controllare potenziali minacce. Il DPI consente la gestione avanzata della rete, funzioni di sicurezza, ma anche intercettazioni e censura. E’ un sistema non introdotto solo in Russia, ma anche in Cina (non certo una grande democrazia) e negli Stati Uniti (dove evidentemente non fa così scandalo). Peraltro il DPI è a forte rischio incostituzionalità.

“Sono le 22 repubbliche e 63 i distretti amministrativi che fanno parte della Federazione presieduta da Putin, tra queste le più note sono la Crimea, annessa unilateralmente da Mosca nel 2014 …”

La storia della Russia che “annette” la Crimea è sempre viva e presente sui media occidentali. E nonostante sia recente, forse la pena fare un ripasso. Sergio Romano nel suo ultimo libro, “Putin e la ricostruzione della Russia”, ha ripercorso i fatti che hanno portato la Crimea a unirsi alla Russia. Eccoli qui:

 “Non appena costituito, il nuovo governo ucraino, presieduto da Arsenij Yatsenyuk, abrogò una legge sulle minoranze linguistiche voluta da Yanukovich nel 2012. La legge prevedeva che la lingua parlata in una regione da una percentuale della popolazione superiore al 10% divenisse, in quella regione, lingua ufficiale. Grazie a quella norma il russo era diventato una lingua ufficiale della Crimea: dopo l’abolizione, il russo sarebbe stato soltanto una parlata locale. E’ molto probabile che altri piani per l’annessione della Crimea alla Russai esistessero da tempo. Ma la nuova legge sulla lingua, per coloro che volevano la operazione il più rapidamente possibile, fu una giustificazione perfetta. Il Parlamento della penisola anticipò al 16 marzo 2014 il referendum previsto per una data più lontana e gli abitanti furono chiamati alle urne per rispondere a due domande:«Sei a favore del ricongiungimento della Crimea con la Russia come soggetto federale della Federazione russa?» «Sei a favore del ripristino della Costituzione del 1992 e dello status della Crimea come parte dell’Ucraina»? I votanti furono 1.536.290. Alla prima domanda risposero Sì 1.495.043 (97,32%), alla seconda 41.247 (2,68%)»”.

C’è un enorme differenza tra “annettere unilateralmente” e organizzare un referendum per chiedere di unirsi a un’altra nazione.

“Il blog di Alexej Navalny, il più famoso oppositore di Putin, si può leggere sul sito della piattaforma LiveJournal. Dopo l’assassinio del politico Boris Nemtsov sotto le mura del Cremlino all’inizio del 2015, l’avvocato quarantenne è praticamente l’unica voce di spicco rimasta in patria ad alzarsi contro la corruzione della nomenklatura e i metodi antidemoratici dello “zar” che ha deciso di sfidare nelle elezioni presidenziali previste l’anno prossimo”.
 

Navalny è sicuramente famoso per essere uno dei maggiori oppositori di Putin. All’estero e non in patria. L’ultima rilevazione di Levada (istituto che come abbiamo visto poco fa non è certo controllato dal Cremlino) dice che in patria i politici di opposizione più conosciuti sono nell’ordine Vladimir Zhirinovsky (68%), Gennady Zyuganov (62%), Mikhail Kodorkovsky (45), Grigory Yavlinsky (42%), con Navalny che raccoglie una percentuale pare al 32%. Dunque, solo un terzo dei russi conosce Navalny e non è detto che tutti votino per lui. Anche perché in termini di fiducia il blogger-avvocato raccoglie solo il 3% dell’apprezzamento, superato dal decano Zhirinovsky (12%) e dal comunista Zyuganov (17%). La verità, dunque, è che Navalny piace, ma a quelli che non abitano in Russia, probabilmente perché è giovane, filo-occidentale e sicuramente spinto dai media internazionali nemici di Putin.

 La morale è che i russi vogliono ancora Putin, che piaccia o meno all’occidente e ai suoi detrattori. A novembre Levada aveva condotto un sondaggio sul dopo Putin in vista delle presidenziali del 2018. Il presidente russo non ha ancora sciolto la riserva su una sua eventuale ricandidatura, ma i sondaggi sono dalla sua parte. Il 63% degli intervistati lo vuole presidente anche dopo il 2018, mentre il 49% non si immagina una leadership capace di sostituire Putin alla scadenza del suo attuale mandato. Autocrate o meno è così. I numeri dicono molto più di quattro semplici parole.

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