Rapimento di Hariri da parte di Riad. Il NYT svela il retroscena

Rapimento di Hariri da parte di Riad. Il NYT svela il retroscena

Anche questa volta i media mainstream per settimane vi avevano raccontato "fake news"

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PICCOLE NOTE


Il rapimento del primo ministro Saad Hariri da parte dell’Arabia Saudita
, uno dei capitoli più oscuri della guerra segreta che si sta combattendo in Medio oriente, è stato finalmente raccontato nei dettagli.


Un resoconto basato su fonti ben informate, che hanno parlato sotto il vincolo dell’anonimato, è stato pubblicato sul New York Times il 24 dicembre, a firma di un pool di giornalisti.
 

Alleato dei sauditi, al quale deve la sua fortuna politica, Saad Hariri aveva provato a smarcarsi da Ryad. Aveva infatti formato un governo con l’appoggio di hezbollah, il partito armato sciita che i sauditi (e Israele) ritengono un nemico esistenziale data la sua alleanza con Teheran.


Proprio questa impossibile alleanza, peraltro con un partito che il mondo accusa di avergli ammazzato il padre, il potente Rafiq, è causa di un crescente malcontento nella casa regnante saudita.


Un malcontento che Hariri aveva provato a placare a ottobre, nel corso di una visita a Ryad. Forse ci era riuscito, forse no. Di certo l’eccessiva libertà del primo ministro libanese non era consona al nuovo corso saudita.


Infatti agli inizi di novembre il principe Mohamed bin Salman (o Mbs) decide che è ora di prendere saldamente in mano le redini del Regno, sbattendo in galera l’élite saudita che aveva governato con il padre Salman. Ufficialmente un’operazione anti-corruzione, di fatto un colpo di Stato.


È in questa temperie che il 3 novembre Hariri incontra un influente emissario di Teheran, Ali Akbar Velayati, al termine del quale elogia «la cooperazione tra l’Iran e il Libano». Per Ryad è «l’ultima goccia» che fa traboccare il vaso.


La sera stessa Hariri viene convocato a Ryad, dove immagina l’aspetti l’usuale passeggiata nel deserto con il re. Prende «jeans e maglietta» e parte.


Al suo arrivo una sgradita sorpresa: viene «spogliato dei suoi cellulari, separato dal suo solito stuolo di guardie del corpo tranne una, e spinto e insultato dagli agenti della sicurezza saudita».


Quindi viene portato nella sua casa di Ryad dove gli viene «detto di aspettare – non più il re, ma il principe [Mohamed bin Salman ndr.]. Ha aspettato, dalle 6 del pomeriggio all’1 del mattino». Invano, «non si è presentato nessuno».


«La mattina dopo viene chiamato per un incontro con il principe. Non trova il consueto convoglio reale, così Hariri prende la sua macchina. E invece di incontrare il principe […] viene malmenato da funzionari sauditi».


Quindi l’ultima umiliazione: «gli viene consegnato un discorso di dimissioni prefabbricato che è costretto a leggere alla televisione saudita», come «se fosse un impiegato e non il capo di uno Stato sovrano. Prima di andare in TV, non gli è nemmeno concesso di andare a casa; deve chiedere alle guardie di portargli un vestito».


Il discorso viene letto alle «14:30 da una stanza che si trovava, come ha riferito un funzionario, in fondo al corridoio dall’ufficio del principe».


Le dimissioni di Hariri sono un durissima requisitoria contro hezbollah, accusata di aver ordito un attentato contro la sua persona, e all’Iran, al quale si imputano indebite ingerenze in Libano tramite appunto hezbollah.


Per il principe MbS, infatti, è arrivato il «momento di fermare l’alleato libanese dell’Iran, Hezbollah». Ma le dimissioni puntano anche ad altro. La durissima reprimenda di Hariri mira infatti a «fomentare disordini interni in Libano, o addirittura, a provocare una guerra».


Lo shock, nelle intenzione dell’ambizioso principe, intende «destabilizzare i volatili campi profughi palestinesi» situati nel Paese dei cedri.


A Beirut serpeggiano «persino preoccupazioni che l’Arabia Saudita o i suoi alleati libanesi stiano cercando di formare una milizia anti-Hezbollah nei campi [profughi ndr.] o altrove».


«Tale progetto non è andato a buon fine e un funzionario saudita ha dichiarato che ipotesi del genere non sono state neppure prese in considerazione» dai destinatari delle manovre di Ryad.


MbS immaginava infatti di creare una milizia di «”resistenza sunnita” per contrastare Hezbollah – un’idea così pericolosa che gli stessi jihadisti hanno rifiutato».


I giorni successivi sono intensi. In Libano nessuno crede alle dimissioni. Né il presidente Aoun le accetta: perché siano valide, spiega, Hariri deve prima tornare in patria. Una richiesta che viene avanzata anche dal partito del primo ministro libanese, che pure da sempre è filo-saudita.


Nel mondo la vicenda è seguita con apprensione. C’è il rischio che la situazione degeneri, che scoppi una guerra. Hariri viene ristretto nella sua dimora saudita, e gli viene «vietato di vedere la moglie e i figli».


Si intrecciano trattative segrete per sbrogliare l’intricata matassa. All’opera anche la diplomazia occidentale. Stati Uniti, Germania e Francia dicono pubblicamente che Hariri è libero di muoversi, ma nel segreto inviano i loro diplomatici a vagliare la situazione.


Quando questi si recano a trovare Hariri egli non è mai solo. Nella stanza in cui li riceve ci sono infatti «due guardie saudite». E quando chiedono di poter parlare con lui in privato, senza la sorveglianza, Hariri risponde che non è possibile.


Il pericoloso progetto del principe MbS preoccupa anche il Dipartimento di Stato americano, retto dalla “colomba” Rex Tillerson.


Il ministro saudita per gli affari del Golfo, Tamer Sabhan, riceve infatti «un’accoglienza fulminante» da parte di David Satterfield, segretario aggiunto del Dipartimento di Stato per gli Affari del Vicino Oriente. Questi infatti «chiede a Sabhan di spiegare perché Riyadh stia destabilizzando il Libano».


Come si sa, la pressione internazionale riesce a ottenere la libertà del prigioniero. Hariri può tornare in Libano dove ritira le dimissioni. Prima di andare, però, pare che il principe gli abbia chiesto di contrastare hezbollah e soprattutto un aiuto per venire a capo della complicata guerra yemenita, dove Ryad si trova a combattere le milizie sciite degli Houti, sostenute da Teheran.


Hariri avrebbe infatti dovuto chiedere a hezbollah di mollare gli houti. Ma a quanto pare il giovane principe saudita ha «sbagliato casella postale»: non è al Libano che avrebbe dovuto rivolgersi, stante che in Yemen ci sono solo «50 combattenti» di hezbollah…


Fin qui la ricostruzione del NYT, che ricalca nella sostanza quanto abbiamo scritto sul nostro sito. Manca un pezzo, che val la pena ricordare. Hariri dà le dimissioni il 4 novembre. La tensione internazionale da quel momento va in crescendo e tocca il suo acme il 10 novembre, quando Ryad ordina ai suoi cittadini di tornare immediatamente in patria.


Un appello che sembra preannunciare una dichiarazione di guerra da parte saudita (come si accenna anche nella ricostruzione del NYT). È il giorno che precede l’incontro, a lungo preparato, tra Putin e Trump a margine del vertice dell’Apec.


Un incontro nel quale i due presidenti avrebbero dovuto annunciare, come da indiscrezioni, di aver raggiunto un accordo sulla guerra siriana (e uno parallelo sulla crisi coreana). Il vertice salta, così come l’accordo sulla Siria (sul punto vedi Piccolenote).


Così, seppure non abbia conseguito lo scopo di destabilizzare il Libano o di ribaltare le sorti della guerra yemenita, la crisi innescata dal principe saudita e dai suoi sponsor internazionali (immaginare che abbia da solo tenuto in scacco il mondo è alquanto sciocco) ha raggiunto comunque un fine di alto profilo: quello di rimandare la fine delle ostilità in Siria.


Un’eventualità alla quale tanti ambiti internazionali non si rassegnano, nonostante i rovesci subiti dai tagliagole jihadisti inviati in loco per defenestrare Assad.

 

Ps. Quando Hariri diede le dimissioni i media mainstream si limitarono a dare la notizia, dando credito al complotto di hezbollah denunciato dal primo ministro libanese e sottolineando il pericolo che la milizia sciita rappresentava per tutto il Medio oriente. Hariri era “libero”, come affermavano pubblicamente Stati Uniti, Francia e Germania.

Chi scriveva altro, dunque, poteva essere tacciato di complottismo o di propalare Fake News, come accade troppo spesso in casi del genere.

Non ne scriviamo per rilanciare le nostre ragioni di allora, esercizio del tutto inutile, ma perché aiuta a comprendere il pericolo insito nella campagna contro le Fake News che tali media, e non solo, stanno conducendo.
 

PPs. In altra nota abbiamo accennato a come il rapimento di Hariri ricordi il sequestro Moro. Ci torneremo.

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