Riflessioni sulla crisi turca e sul fallimento della sinistra

Riflessioni sulla crisi turca e sul fallimento della sinistra

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di Maurizio Musolino*


A distanza di qualche giorno dal tentato colpo di stato in Turchia si può iniziare a fare qualche considerazione su quanto accaduto nella notte fra venerdì e sabato scorso. Innanzitutto occorre sgombrare il campo da un possibile errore al quale qualcuno può aver ceduto nelle ore in cui il golpe sembrava avere successo: in campo non c’è mai stata una ipotesi democratica contro un tiranno sanguinario come è Erdogan. Non serve quindi comportarsi come tifosi, occorre al contrario essere disposti a cogliere le complessità e le contraddizioni che la Turchia da sempre ci offre. Per questo motivo è utile prima di azzardare interpretazioni e commenti, provare a fare una rapida carrellata di fatti il più oggettivamente possibile.    

 

La Nato e la Turchia 

Con oltre mezzo milione di militari l'esercito turco è il secondo per numero tra i Paesi Nato, dopo quello Usa. Un esercito reputato tra i più addestrati al mondo, anche se decisamente ridimensionato dal fronte islamista negli ultimi 20 anni. Le Forze armate turche contano 402.000 uomini nelle Forze terrestri, oltre ai 48.600 uomini della Marina, e 60.100 dell’aeronautica. Queste cifre, fornite dal rapporto 2016 dell'Istituto londinese IISS, non comprendono i 102.200 membri delle forze paramilitari che compongono la Guardia Militare (dati 2015), i più fedeli al attuale governo. Inoltre, l'esercito della Turchia dispone di 378.700 riservisti nei tre corpi di armata. Erdogan ha orchestrato un'azione di costante “contenimento” dell'esercito, con svariate purghe ai vertici. Se i numeri degli uomini sono sensibilmente diminuiti, gli arsenali e i mezzi dell'esercito secondo l'istituto londinese IHS Janes sono stati gradualmente ammodernati dagli anni Novanta: l'aviazione dispone di un numero crescente di Falcon F-16 oltre ai vetusti Phantom F-4; la  Marina può contare su 13 sottomarini, 18 fregate, sei corvette.  Una componente dell’Alleanza Atlantica, quindi, imprescindibile, pedina strategicamente fondamentale sia nello scacchiere Mediorientale, che per la sua posizione geografica di confine fra occidente e oriente. Per questi motivi – difficilmente negabili – è impossibile ritenere che possa accadere – soprattutto in campo militare - qualcosa che metta in discussione questi dati di fatto senza che gli Stati Uniti ne siano informati e in un qualche modo consenzienti. Il fatto poi che sembra essere stata proprio la base militare di Incirlik (che venne negata alla Nato durante la campagna anti-Saddam del 2001), da dove in queste settimane sono partiti i raid americani aerei in Siria e in Iraq, ad ospitare alcuni graduati implicati nel tentativo di abbattere Erdogan sembra essere una conferma di quanto appena affermato. A questo si deve aggiungere il silenzio assordante dei vertici Nato nelle ore più calde della nottata di venerdì: l’Alleanza avrebbe potuto invocare l’art. 5 del suo Trattato, che richiama il mutuo soccorso di fronte ad un attacco armato contro una o più parti del Patto.   

 

I media e il golpe

Da anni Erdogan vede come fumo negli occhi l’informazione turca. Molti giornalisti sono stati in questi mesi arrestati e la quasi totalità dei giornali e delle televisioni che si opponevano al Califfo sono stati chiusi o comunque pesantemente perseguitati. Proprio questo mondo però si è reso protagonista di quella che sembra essere stata una delle più ampie operazioni di disinformazione degli ultimi anni. Il racconto in diretta del tentativo di colpo di stato ha presentato infatti molte ambiguità. Il primo elemento contraddittorio è dato dai tempi del tentativo di putsch, annunciato intorno alle 22 del 15 luglio e dichiarato fallito poco più di quattro ore dopo. Una tempistica, che come ha sottolineato il giornalista del Corriere della Sera, Ferrari, è del tutto inedita e non presenta precedenti. Ferrari che azzarda l’ipotesi di un golpe “controllato” se non favorito dallo stesso Erdogan, è un profondo conoscitore della Turchia, paese nel quale ha vissuto a lungo. Cosa poi sia realmente accaduto in queste quattro ore è un altro elemento che fa discutere: tutti i telegiornali si sono esibiti in commenti e considerazioni raccontando un presidente Erdogan in volo prima verso la Germania, poi Londra e il Qatar, ricevendo, sempre secondo i commentatori e gli “esperti” di turno, rifiuti e silenzi. Un comportamento improbabile, visto che nelle stesse ore Erdogan rilasciava interviste nelle quali chiamava il popolo turco a scendere in piazza per respingere il tentativo di scalzarlo dal potere. Una contraddizione difficile da giustificare. Infine, ma questa volta a distanza di due giorni sono ancora molti i misteri, i silenzi delle principali cancellerie occidentali a partire proprio da quella americana e tedesca durante le quattro ore del putsch. Un atteggiamento di attesa che sembra aver irritato il redivivo presidente, tanto da averlo indotto una volta riconquistato il pieno potere ad avallare parole di fuoco contro l’inquilino della Casa Bianca, sia quello attuale che la possibile Presidente futura, accusati di aver in qualche modo coperto il tentativo di golpe e di proteggere il regista occulto, quel Gulen oggi acerrimo nemico di Erdogan, dopo esserne stato per anni il mentore.   

 

La  Turchia, l’esercito e i conflitti in corso 


L’esercito turco negli ultimi cinquanta anni si è sempre caratterizzato per il suo aspetto antidemocratico e fascista. Generali e colonnelli nei decenni passati si sono resi protagonisti di almeno tre efferati colpi di stato, che hanno privato il paese della democrazia. Ma nello stesso tempo – e questa è uno dei tanti aspetti della complessità Turca – un esercito che richiamandosi alla tradizione Kemalista (da Kemal Ataturk, padre della patria e della modernizzazione del Paese al inizio del secolo scorso dopo il tracollo dell’impero Ottomano) in questi anni ha contrastato il tentativo di islamizzazione messo in atto da Erdogan. Proprio ciò rappresenta un ulteriore aspetto che deve fare riflettere e che forse ci consegna una chiave di lettura per capire alcune ragioni del fallimento del colpo di stato. Se diamo per buona l’ipotesi che dietro i militari golpisti ci sia stato Fethullah Gulen, allora è probabile che i settori kemalisti dell’esercito, da sempre recalcitranti verso il tentativo di riforma della costituzione voluta da Erdogan si siano messi alla finestra senza accettare un coinvolgimento diretto. Infatti Gulen da sempre teorizza una riforma dello stato ben più radicale di quella auspicata da Erdogan che porti la Turchia a divenire un vero e proprio paese a costituzione islamica. Una considerazione che ci aiuta a comprendere le dichiarazioni nelle ore del golpe da parte del partito della destra kemalista, il Chp, che ha subito condannato e preso le distanze da quanto stava accadendo e in qualche modo anche la tempistica con la quale l’Iran ha immediatamente condannato il tentativo di golpe.    Fethullah Gulen è figlio – in senso religioso - di Said Nursi, e quindi anche della rivalità con l'altra confraternita dei Naksibendi che nel dopoguerra trova il suo rinnovatore nell'imam Mehmet Zahid Kotku. Anche lui è un sufi che trasforma il sonnolento Ordine dei Naksibendi nella vera scuola socio-politica: sono seguaci di Kotku il presidente Turgut Ozal, il primo ministro Necmettin Erbakan, lo stesso Erdogan. Ed ecco un altro tassello che ci collega all'Isis e alla crisi della regione mediorientale. Tra i seguaci della setta dei Naksibendi infatti c'era anche quel al Douri, ex vice di Saddam Hussein. Questo è forse l'aspetto meno conosciuto e più interessante dell'ex gerarca che apparteneva all'Ordine dei Naksibendi. Credenziali che in qualche modo lo devono avere reso affidabile anche gli occhi del Califfato: è stato Al Douri a forgiare l'alleanza con l'Isis tra baathisti iracheni (corrente politica da sempre ostile ai bahatisti siriani) ed ex Saddamiani che ha portato all'avanzata dello Stato Islamico in Iraq e in Siria. Oggi a Recep Tayyip Erdogan, grazie al tentativo di golpe, si presenta una occasione storica per ridimensionare il peso dei militari, tutti, normalizzando quello che resta – dopo le epurazioni di questi anni – dei recalcitranti vertici con le stellette. “Traditori” li chiama, in grado di organizzare un “attentato terroristico” al potere centrale detenuto dall’Akp, “democraticamente eletto dalla maggioranza del popolo”. 


Ma proprio nelle dimensioni delle epurazioni in atto e soprattutto nella tempestività con la quale sono scattati gli arresti c’è un ulteriore elemento sul quale riflettere. Poche ore dopo il golpe erano già scattati gli arresti che hanno decimato l’esercito, la polizia, l’università e la magistratura. Una tempistica che obbliga a pensare a liste già predisposte da tempo e tenute in un cassetto, pronte ad essere messe in atto. Magari – tornando all’ipotesi avanzata dall’inviato del Corriere - proprio dopo un tentativo pilotato per scalzare il presidente. Una cosa sembra però certa, al di là delle responsabilità oggettive dei vertici militari: ovvero che all’interno dell’esercito ci sia da tempo un diffuso malessere causato da più elementi. Certo è difficile accettare un ridimensionamento che metta in discussione antichi privilegi, Erdogan, dopo le ultime elezioni, che lo hanno visto vincitore, ha deciso di modificare l’impianto istituzionale del paese e la Costituzione, rimpiazzando quella risalente al golpe militare dell’80. Un processo che dovrebbe poggiare su due pilastri: l’eliminazione, almeno parziale, dell’eredità militarista e laicista della Repubblica e l’introduzione di una nuova architettura governativa imperniata sul presidenzialismo. Una via naturalmente poco gradita all’establishment militare. Ma non basta, quanto sta accadendo in Siria e in Iraq non sono elementi meno dirompenti. La politica verso questi due paesi del governo Erdogan appare agli occhi dei turchi come fallimentare, non solo Assad è ancora saldamente al potere, ma non passa giorno che non si registrino morti fra i soldati turchi impegnati nei territori di confine, inoltre i principali alleati, gli Stati Uniti, da tempo sostengono i curdi siriani, considerati un pericoloso alleato del Pkk dai turchi. C’è poi il terrorismo, che miete vittime nelle principali città turche colpendo oltre che fisicamente anche una delle principali voci del bilancio dello stato, ossia il turismo. 


Infine i rapporti con l’Europa, tesi come non mai (vedi la vicenda immigrati), nello stesso tempo la rottura con la  Russia che oltre a mettere in ginocchio l’economia del Paese non assicura al paese euroasiatico un adeguato retroterra orientale. Una fotografia della situazione certamente sfocata, che non offre un quadro del tutto chiaro, ma che evidenzia una complessità con la quale fare i conti.  Di tutto questo Erdogan era ha conoscenza da tempo e proprio nelle ultime settimane aveva cercato – con il cambio al vertice del governo – di raddrizzare il timone riallacciando i rapporti con Putin, intensificando i rapporti con Israele e cercando una uscita dalla crisi siriana.   

 

Le politiche dell’Akp 


Quanto accaduto nello scorso fine settimana conferma un aspetto che, seppur poco piacevole, non si può negare: Erdogan per quanto indebolito gode di un forte appoggio popolare. Un aspetto che del resto era proprio anche di un altro presidente, legato ad Erdogan per i rapporti stretti con la corrente dell’islam politico della Fratellanza mussulmana, il deposto presidente egiziano Morsi. In Egitto, come a Gaza anni fa, in Tunisia e in Turchia, l’islam politico ha raggiunto i vertici del potere per via democratica e grazie al sostegno di ampi settori popolari,, spesso proprio quei settori più poveri e penalizzati dalle politiche liberiste. Una contraddizione grossa come una casa, visto che la Fratellanza mussulmana non ha mai messo in discussione il liberismo, anzi ne è in un qualche modo strumento, e considerato che proprio con questa corrente parte dell’amministrazione della Casa Bianca ha cercato di aggirare la crisi dei regimi arabi loro alleati provando ad inventare un nuovo equilibrio basato su uno stretto rapporto fra Pentagono e Fratellanza.  


Da parte sua Erdogan, accusato da più parti di voler islamizzare il paese, non dimentica la sua base elettorale, meno diffusa nelle grandi città di Istanbul e Ankara, ma forte nella zone centrali della Turchia, dove l’economia è decollata anche grazie a grandi investimenti nell’edilizia voluti proprio dall’Akp. È non è un caso che in questi giorni di tensione e crisi Erdogan si rivolga proprio al popolo: la mattina di sabato, a golpe fallito, farà recitare alla folla che lo attende il motto “una Nazione, una Patria, uno Stato, una bandiera”.    

 

Considerazioni 


Questi elementi rendono chiaro che in Turchia in questi giorni più che un conflitto fra bene e male sia in atto uno scontro di potere all’interno di uno schieramento ieri alleato. Uno scontro durissimo che potrebbe cambiare parte delle carte in tavola imprimendo fin dalle prossime settimane un corso diverso ad alcune vicende della regione. Da non sottovalutare ad esempio l’attacco che settori influenti del Qatar abbiano apertamente attaccato il ministro degli esteri dell’Arabia Saudita, indicandolo come complice della corrente gulenista e quindi in un qualche modo non estraneo ai militari golpisti. Ma proprio perché gli interessi in campo sono enormi dobbiamo anche avere la consapevolezza che sarà difficile un radicale cambiamento, più probabili invece aggiustamenti importanti ma non eclatanti.  


Intanto in queste ore si registra un vero e proprio braccio di ferro fra Erdogan e l’amministrazione Obama. Difficile credere che dietro a questo scontro ci sia solo la richiesta di estradizione per Gulen, più realistico credere che a movimentare le acque fra gli alleati Nato ci sia la crisi siriana-irachena. In molti sono convinti che fra Obama e Putin ci sia una sorta di accordo per dividere la regione in nuove aree di influenza, una sorta di Sykes-Picot del XXI secolo. Una intesa che al momento sembra non soddisfare del tutto sia la Turchia che la Germania.  Altra partita in campo è quella dei rapporti fra Turchia e Unione Europea. La Turchia da tempo aspira ad entrare dalla porta principale nel mercato del Vecchio Continente. L’impetuosa crescita economica di Ankara in questi ultimi anni è sicuramente un biglietto da visita appetitoso per le asfittiche economie europee, ma immettere in un momento di estrema crisi come è quello attuale 80 milioni di mussulmani all’Ue rappresenta un problema non da poco per le cancellerie del Vecchio Continente sotto attacco dei partiti xenofobi che fanno della lotta al immigrato, meglio se islamico, il cavallo di Troia per scardinare gli attuali equilibri. Anche in questo caso però non si tratta di una lotta fra capitalismo, imperialismo rappresentati dall’Ue e voglia di una Europa diversa, dei diritti e dei popoli. Il rischio che di fronte a queste contraddizioni il popolo curdo diventi il nemico sul quale accanirsi per recuperare una sorta di unità nazionale, in chiave tutta nazionalista, è più che una ipotesi e gli attacchi di questi mesi contro le organizzazioni curde ne è una dimostrazione evidente Siamo di fronte quindi ad una serie di conflitti, purtroppo, tutti interni allo schieramento liberista e conservatore (in questa categoria voglio comprendere anche quelli interni al mondo islamico-sunnita) e la sinistra – duole a dirlo - non riesce a proporre una propria via di uscita credibile. Si fa sempre più urgente riannodare i fili per mettere in campo una ipotesi di sviluppo alternativo a quello liberista-imperialista, superando egoismi e visioni manichee.    

 

*giornalista, studioso del Medio Oriente

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