La impossibile quadratura del cerchio sionista

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di Alfredo Tradardi. Torino, 25 marzo 2017

1. Sul sionismo
 
Dall’introduzione di Sposata a un altro uomo – Per uno Stato laico e democratico nella Palestina storica  (di Ghada Karmi[1]), DeriveApprodi 2010. A cura di Diana Carminati e Alfredo Tradardi. Per una scheda del libro vedi www.ism-italia.org/wp-content/uploads/sposata-a-un-altro-uomo-flyer-promozionale-4-pagine.pdf. Il saggio con il titolo Married to Another Man: Israel’s Dilemma in Palestine è stato pubblicato in inglese da Pluto Press nel 2007.

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Dopo il primo congresso sionista del 1897 a Basilea, durante il quale fu avanzata per la prima volta l'idea di costituire uno Stato in Palestina, i rabbini di Vienna inviarono due loro rappresentanti per verificare se il paese fosse adatto a questa impresa. Le due persone sintetizzarono il risultato delle loro esplorazioni in questo telegramma:
 
La sposa è bella, ma è sposata a un altro uomo.
 
Con disappunto avevano trovato che la Palestina, sebbene avesse tutti i requisiti per diventare lo Stato ebraico che i sionisti desideravano, non era, come lo scrittore Israel Zangwill ebbe più tardi ad affermare, «Una terra senza un popolo per un popolo senza terra». Una terra già abitata, rivendicata da una popolazione nativa arabo-palestinese della quale era già la madrepatria.

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Quando nel 1897 i sionisti decisero di fondare uno Stato ebraico in Palestina erano consapevoli che vi viveva una popolazione indigena non ebraica. Come creare e mantenere uno Stato per un altro popolo in una terra già abitata? La quadratura del cerchio è stata l’essenza del dilemma di Israele sin dalla sua fondazione e la causa della tragedia palestinese. Non poteva essere altrimenti, perché i sionisti avevano in mente un progetto stravagante e, a prima vista, irrealizzabile: costituire una collettività solo per gli ebrei su un territorio appartenente a un altro popolo che ne sarebbe stato espulso e, nonostante l’opposizione degli indigeni, la nuova creatura sarebbe dovuta durare per l’eternità. Inevitabilmente, un progetto che comporta l’appropriazione di un territorio già abitato da un’altra popolazione, definita etnicamente inaccettabile, può essere attuato soltanto con la forza e la coercizione. Per sperare in un successo di lungo periodo, il nuovo Stato poteva mantenersi in vita solo grazie a una costante superiorità militare e al forte sostegno dell’Occidente. Come corollario, gli arabi dovevano restare deboli e disuniti per opporre una resistenza minima che il potente esercito di Israele, era questo il calcolo, avrebbe facilmente sconfitto.

            Questo è, in sostanza, il progetto sionista i cui obiettivi principali vennero realizzati con la fondazione di Israele nel 1948. Un progetto che non è comunque mai riuscito a risolvere il problema dell’«altro». Dilemma che nessuno ha esposto meglio dello storico israeliano Benny Morris in una intervista al quotidiano «Haaretz», l’8 gennaio 2004. In una lucida esposizione del pensiero sionista classico che merita di essere citata per esteso, ne ha messo in evidenza tutti gli elementi principali, l’assurdità stessa del progetto, l’arroganza, il razzismo, la certezza di essere nel giusto e l’ostacolo insormontabile rappresentato dalla popolazione palestinese che rifiuta di andarsene. Le condizioni necessarie alla creazione e alla sopravvivenza dello Stato ebraico avrebbero richiesto l’espulsione della popolazione indigena e la necessità che Israele mantenesse la sua supremazia rispetto all’inevitabile ostilità araba.
 
Uno Stato ebraico non poteva nascere senza lo sradicamento di 700.000 palestinesi. Perciò era necessario farlo. Non vi era altra scelta che espellere quella popolazione. Se il desiderio di fondare qui uno Stato ebraico è legittimo, non c’era altra scelta […] la necessità di costituire questo Stato in questo posto metteva in secondo piano l’ingiustizia compiuta nei confronti dei palestinesi sradicandoli[2].
 
Ne segue che la futura sopravvivenza di Israele può rendere necessari altri «trasferimenti» di palestinesi. Morris ritiene che i sionisti abbiano sbagliato a permettere che restasse allora anche un solo palestinese:
 
Se per gli ebrei la storia finirà male, sarà perché Ben-Gurion, il primo capo del governo israeliano, non ha portato a termine il trasferimento nel 1948; perché ha lasciato, in Cisgiordania, a Gaza e all’interno di Israele, una consistente riserva demografica in crescita […] In altre condizioni, apocalittiche, che probabilmente si realizzeranno tra cinque o dieci anni, ritengo possibili altre espulsioni. Nell’eventualità di una guerra […] le espulsioni sarebbero del tutto plausibili. Potrebbero anche essere indispensabili […] Se la minaccia riguarderà l’esistenza di Israele, le espulsioni saranno giustificate.
 
Il sionismo ha inevitabilmente provocato l’ostilità delle sue vittime; i profughi palestinesi non si sono mai riconciliati con il progetto sionista e «non possono tollerare l’esistenza dello Stato ebraico». Per questo, il sionismo è riuscito a raggiungere il suo obiettivo soltanto grazie alla superiorità militare. «Non ci sarà pace per la generazione attuale. Non ci sarà nessuna soluzione. Siamo destinati a vivere con la spada in mano». Così prosegue Morris ammettendo anche che il sionismo aveva aspettative irrealistiche:
 
L’intero progetto sionista è apocalittico. È circondato da vicini ostili e in un certo senso la sua esistenza è contro ragione. Non era ragionevole che riuscisse nel 1881 e non era ragionevole che si affermasse nel 1948 e non è ragionevole  che abbia successo oggi.
 
In ultima analisi, conclude Morris, il progetto sionista ha di fronte due opzioni: la costante repressione e crudeltà verso gli altri o la fine del sogno. Per i sionisti la seconda opzione è tragicamente impensabile.

            Dopo questa intervista, gli israeliani liberali hanno attaccato Morris per le sue opinioni di destra. Doveva invece essere elogiato per l’onestà e il candore con i quali aveva espresso quello che la maggior parte dei sionisti pensano, ma non dicono. Perché riflette le ansie e i sentimenti che assillano il sionismo nel momento in cui lo Stato ebraico compie il settimo decennio di esistenza. Il problema, già previsto dai due rabbini viennesi, era altrettanto chiaro ai primi leader del sionismo. Uno dei più importanti, Vladimir, in seguito Zeev, Jabotinsky[3], lo ha delineato in un articolo del 1923 intitolato «Il Muro di Ferro».

         «Qualsiasi popolazione indigena», scriveva a proposito della presumibile reazione degli arabi palestinesi di fronte al progetto sionista, «opporrà resistenza a coloni stranieri, non nutrendo nessuna speranza di scampare al pericolo di una colonizzazione». Un accordo con i palestinesi era dunque impossibile. Jabotinsky ridicolizza i sionisti secondo i quali un accordo è condizione necessaria del sionismo, sostenendo che ciò equivale semplicemente ad abbandonare il progetto. L’alternativa da lui sostenuta per la colonizzazione sionista era quella di ergere «con la protezione di una forza militare, indipendente dalla popolazione locale, un muro di ferro, che i nativi non potessero attraversare». Per muro di ferro intendeva un muro di baionette.
Moshe Dayan, per molti anni capo di Stato maggiore, esprime in modo diverso le stesse idee. In un discorso tenuto nel 1956 in occasione del funerale di un giovane israeliano ucciso vicino al confine egiziano da un arabo «infiltrato», disse[4]:
 
Non lanciamo oggi accuse agli assassini. Chi siamo noi per contestare il loro odio? Da otto anni vivono nei campi profughi di Gaza e noi, sotto i loro occhi, facciamo della terra e dei villaggi in cui loro e i loro antenati hanno vissuto la nostra patria. Siamo una generazione di coloni e senza l’elmetto e il cannone non possiamo piantare un albero e costruire una casa. Non arretriamo quando vediamo l’odio crescere e riempire la vita di centinaia di migliaia di arabi, che sono intorno a noi. Non distogliamo lo sguardo, affinché la nostra mano non sbagli. Questo è il destino della nostra generazione, la nostra scelta di vita: essere pronti e armati, forti e duri, altrimenti la spada ci sfuggirebbe di mano e la nostra vita avrebbe termine.
 
Se Dayan fosse stato in grado di prevedere il futuro, avrebbe potuto aggiungere che non solo la sua ma anche le future generazioni di israeliani avrebbero dovuto mantenere la stessa durezza «la loro vita avrebbe avuto termine». Il problema centrale che Israele ha sempre dovuto affrontare è stato, infatti, come contrastare la marea della opposizione alla sua esistenza. Gli arabi lo considerano, inevitabilmente, un corpo estraneo inserito nel cuore della loro regione. Lo rigettano come il corpo rigetta un organo trapiantato. I medici, in casi simili, si battono per eliminare il rigetto al fine di salvare la vita del paziente e questo nobile scopo è generalmente invocato per giustificare gli sforzi dei sanitari e le spese necessarie per raggiungerlo. Il sionismo presenta la propria lotta in termini analoghi: conseguire un fine non meno nobile, quello di mantenere in vita uno Stato ebraico, l’unica soluzione alla lunghissima persecuzione degli ebrei. Per un progetto considerato senza alcun dubbio morale, diventano tollerabili, mano a mano che va avanti, misure solitamente giudicate inaccettabili, in quanto mezzi per un fine da tutti condiviso. Questo è l’elemento che fa del sionismo una ideologia pericolosa. La convinzione della giustezza che lo ispira ha conquistato molti ebrei e anche un numero significativo di non ebrei nell’Occidente progressista. Poco dopo aver reso pubblica la sua famosa dichiarazione, Arthur Balfour, il ministro degli Esteri inglese, definì il sionismo in questi termini:
 
Il sionismo, giusto o sbagliato, buono o cattivo che sia, è radicato in tradizioni risalenti a tempi lontani, in azioni odierne, in speranze future, di rilevanza assai più cospicua dei desideri e dei pregiudizi dei 700.000 arabi che adesso abitano quella terra antica.
 
Era il 1917. Nei tre decenni successivi, l’Olocausto nazista ha portato a termine il compito di convincere i fautori occidentali del sionismo che un rifugio per gli ebrei perseguitati fosse indispensabile. E da allora in Occidente pochi sono stati seriamente in disaccordo con questo progetto legato in modo inestricabile alla comune convinzione che la Palestina fosse la giusta e necessaria casa degli ebrei. Una opinione situata in profondità nel cuore e nella mente di quasi tutti gli ebrei, per quanto progressisti, e della maggioranza dei non ebrei in Occidente. Mettere in dubbio questa nozione, sostenere che gli ebrei, o qualsiasi altro gruppo straniero, non avevano alcun diritto alla Palestina come Stato e che non c’era ragione per l’espropriazione della popolazione locale, quali che fossero state le loro sofferenze, equivale a un sacrilegio. La campagna che equipara le critiche rivolte a Israele all’antisemitismo, promossa dai sionisti e oggi vigorosamente messa in atto, ha aggravato la situazione. Se si aggiunge che un nesso tra gli ebrei e la Terra Santa era già nella mente dei cristiani occidentali, praticanti o meno, la causa di Israele diventa inattaccabile.

            Per i palestinesi, principali vittime dell’impresa, è un compito immenso affrontare questa miscela di diffusi luoghi comuni, di psicologia, di emozioni e di credenze radicate. La loro causa è stata sussunta nella narrazione israeliana dominante, in modo così efficace che neppure ci si aspetta che facciano domande o che oppongano resistenza. Si dà per scontato che i palestinesi e il resto del mondo arabo condividano l’opinione che Israele è un progetto morale e non ne critichino la nascita. L’ostilità manifestata dagli arabi nei suoi confronti appare, quindi, misteriosa o malevola e, soltanto dall’inizio della seconda Intifada, nel 2000, quando si è resa manifesta tutta la brutalità dell’occupazione israeliana, si è ritenuto legittimo che i palestinesi potessero fare qualche obiezione. Tuttavia, queste obiezioni sono rigorosamente limitate da un implicito consenso su quello a cui i palestinesi possono legittimamente sperare: un allentamento dell’occupazione da parte di Israele e la costituzione alla fine di una sorta di Stato palestinese nei territori del dopo ’67; il massimo a cui i palestinesi possono aspirare secondo una equazione, dalla quale è del tutto esclusa qualsiasi rivendicazione sulla terra perduta prima di quell’anno, come se non non esistesse una storia palestinese precedente e come se Israele avesse sempre fatto parte del paesaggio.

            A prima vista, un tale scenario può anche essere convincente, persino confortante, per Israele e l’Occidente. I palestinesi cancellino il loro passato e le loro rivendicazioni e si accontentino di una piccola parte della patria originaria, i profughi attualmente ospitati in vari paesi rinuncino, altruisticamente e unilateralmente, alle loro speranze di rimpatrio. Questo può pensarlo solo chi non abbia a cuore i sentimenti e le reazioni della popolazione in mezzo alla quale lo Stato di Israele è sorto. Questo pensiero colonialista e razzista permea la Dichiarazione Balfour che ha messo in moto il processo. L’idea che un popolo straniero possa installarsi nel paese di un altro senza che la popolazione nativa ne sia messa al corrente o ne dia il permesso sarebbe oggi considerata scandalosa. Ma informa tuttora l’approccio occidentale verso gli arabi. Sotto il peso di questa opinione pervasiva molti arabi hanno cominciato a dubitare e a pensare che il rifiuto di Israele sia in qualche modo scortese e crudele.

            Oggi che Israele esiste come nazione da più di sessanta anni, grazie alla superiorità militare e al costante sostegno occidentale, è chiaramente percepibile un cambiamento nella posizione degli arabi nei confronti di Israele. Rispetto al tempo di Nasser, Presidente dell’Egitto sino al 1970, e all’epoca in cui gli Stati arabi rifiutavano di riconoscere o di trattare con Israele, le cose sono cambiate in modo significativo. Esistono piani di pace in cui Israele è riconosciuto e pienamente accettato come una parte normale della regione, l’ultimo dei quali è il piano di pace dell’Arabia Saudita del 2002. La normalizzazione delle relazioni con Israele procede contemporaneamente a livello formale e informale. Una cosa assolutamente straordinaria rispetto a quello che viene richiesto agli arabi: accogliere un popolo straniero che ritaglia per sé uno Stato in terra araba, per di più con l’aiuto dell’Occidente, del tutto insensibile agli effetti dell’operazione sui residenti. E, per di più, agli arabi viene chiesto di non  mettere in dubbio il principio fondamentale: che in Palestina deve esserci «di diritto» uno Stato ebraico. Questo imperativo ebraico-occidentale deve servire a giustificare agli occhi degli «arabi» ogni eccesso e ogni abuso compiuto da Israele nei loro confronti negli ultimi sette decenni. Il fatto che nonostante questa mostruosa imposizione gli arabi abbiano permesso al progetto sionista di mettere radici, potrebbe suggerire a molti che in definitiva abbia avuto successo.

            Ma lo è davvero? I palestinesi sono ancora lì, sia pure in una situazione di grave pregiudizio, in un territorio spezzettato, occupati e oppressi, ma comunque ci sono, fisicamente e politicamente, di fatto ancora più di prima. Decenni di sforzi israeliani per distruggerli e risolvere il problema sionista originario non sono serviti. Costituiscono ancora un ostacolo al sionismo, ostacolo che rifiuta di scomparire. Manca ancora un accordo di pace che ponga fine al conflitto; la supremazia di Israele in armamenti e tecnologie e i suoi potenti e zelanti amici e sostenitori non gli hanno procurato una esistenza normale e pacifica. Lo Stato ebraico non ha niente da offrire agli ebrei in cerca di un rifugio. È più pericoloso e instabile di qualsiasi altro posto dove gli ebrei ora risiedono, costantemente minacciato e incerto circa un futuro di lungo periodo. Alzare barricate contro il «terrorismo» e la «minaccia demografica» araba non può arginare per sempre la marea; ma averlo tentato ha fatto di Israele uno Stato poco meno che fascista, imbarazzante per i suoi sostenitori e poco amato da quasi tutti gli altri. Man mano che gli abitanti di Israele elaborano una nuova identità «israeliana», perdono sempre più il collegamento con gli ebrei dell’esterno, per i quali molti di loro sono già degli alieni4.

L’immigrazione in Israele diventa sempre più difficile con l’esaurirsi delle fonti di ebrei «adatti». Il disperato tentativo di evitare l’inevitabile è evidente nella caccia agli «ebrei», molti dei quali convertiti, in Africa, Perù, India e da altre parti5, e nella quantità di  immigrati non ebrei ammessi in Israele come se lo fossero; si dice, ad esempio, che migliaia di immigrati sovietici siano cristiani.

            I danni, i trasferimenti e le sofferenze che palestinesi e arabi della regione sono stati costretti a sopportare perché l’esperimento sionista avesse successo – come soluzione del problema della persecuzione ebraica in Europa – sono del tutto sproporzionati rispetto a quanto possa essere ragionevolmente richiesto a un qualsiasi gruppo umano. Il periodo più negativo per gli arabi è stato la prima metà del XX secolo, quando il sionismo metteva radici, perché sono passati quasi subito dalla lunga dominazione ottomana a quella delle potenze occidentali. Per questo erano particolarmente male attrezzati per difendersi con efficacia dall’intrusione sionista. Sotto molti aspetti e in una misura non trascurabile, restano in questa condizione a causa della presenza di Israele tra loro. Il conflitto che ne è derivato era inevitabile e del tutto prevedibile. Sinora, tutti i tentativi di risolverlo sono falliti.

            In questo saggio si sostiene che la causa principale di tale fallimento è l’imperativo sionista di creare e mantenere una maggioranza ebraica in un paese abitato da non ebrei. L’adesione ossessiva a questo imperativo ha portato a varie iniziative israeliane, tutte miranti a ridurre al minimo la presenza palestinese nel paese e a garantire che non si riproducesse. Sono stati predisposti diversi piani nei quali le espulsioni, come accadde nel 1948 e nel 1967, andavano di pari passo con la divisione della terra, pesantemente a favore di Israele. Compito difficile in un paese delle dimensioni del Galles, le cui risorse naturali sono sparse un po’ dappertutto. Il tentativo di distribuire queste ultime in base a una partizione iniqua in un territorio frammentato si è rivelato difficile e impraticabile se non attraverso un vero e proprio furto. Sinora non si è trovata nessuna formula capace di soddisfare le richieste di Israele e di assicurare l’acquiescenza dei palestinesi.

            Né ve ne sarà mai una, poiché le proposte di «pace» sono tutte vanificate dall’ingiustizia e da una sperequazione macroscopica. Accordi del genere possono essere imposti dalla parte più forte a quella più debole e possono reggere per qualche tempo, ma non possono durare. Una soluzione duratura deve affrontare la questione della giustizia e questo significa offrire ai palestinesi così umiliati nel conflitto – quelli all’interno e quelli all’esterno della Palestina - una vita futura nella loro patria con garanzie di dignità e di uguaglianza. In quanto palestinese dell’«esterno» considero fondamentale il problema della giustizia.
 
            La soluzione due-Stati è stata pubblicizzata per anni come la risposta al problema anche da molti palestinesi, per loro interessi. Ma come può essere giusto per i nativi della Palestina, la maggior parte dei quali sono stati trasferiti in campi profughi o in paesi stranieri, che il loro paese sia spezzettato in maniera ineguale, con l’occupante che fa la parte del leone?  Perché ci si aspettava che accettassero soluzioni nelle quali la realtà della loro situazione non era tenuta in alcun conto? È chiaro che se si fosse realizzata la soluzione due-Stati come era stata proposta, la maggioranza dei palestinesi che vivono nella diaspora ne sarebbe stata esclusa. Che ne sarebbe stato di loro? Per risolvere il problema, Israele e i suoi alleati occidentali hanno presentato un guazzabuglio di proposte - il rimpatrio per alcuni, l’emigrazione per altri, la compensazione per altri ancora - soluzioni pasticciate che possono solo causare ulteriori trasferimenti e ulteriori sofferenze aggravando l’ingiustizia iniziale. Non c’è accordo di pace che possa durare in queste condizioni.

            Giustizia vuole che anche la comunità ebraica israeliana, che ora si trova in quella nuova patria, abbia a sua volta diritto alla dignità e all’uguaglianza a prescindere da come c’è arrivata. La sola soluzione capace di realizzare i due imperativi è quella di uno Stato unico in una terra indivisa dove entrambi i popoli possano vivere insieme. Non c’è un altro modo sensato di conciliare le loro esigenze e se Israele non avesse perseguito, in modo distruttivo e assurdo, la creazione di uno Stato etnico per soli ebrei, la soluzione dello Stato unico sarebbe stata attuata da tempo.

             Non esiste, per quanto riguarda questo terribile conflitto, un modo ideale di procedere. Un problema complesso come quello di Israele, perpetuato da interessi esogeni e da una irriducibile ideologia di Stato, non può essere risolto se restano immutati i parametri di riferimento. Ma se si vuole porre fine all’acuta crisi in Medio Oriente occorre trovare una via d’uscita.
 
[1] Ghada Karmi, palestinese,  è una profuga del 1948, rifugiata prima in Libano e poi in Inghilterra. Medico, scrittrice e docente universitaria, scrive spesso sul «The Guardian», su «The Nation» e sul «The Journal of Palestinian Studies». Ha insegnato all’Istituto di Studi Arabi e Islamici dell’Università di Exeter. Oltre a Sposata a un altro uomo, ha scritto due testi autobiografici,  Alla ricerca di Fatima – Una storia palestinese, Atmoshere Libri, 2013 e Return: A Palestinian memoire, Versobooks, 2015.
[2] Haaretz20040109 Survival of the Fittest? An Interview with Benny Morris By Ari Shavit, www.haaretz.com/survival-of-the-fittest-1.61345.
[3] Z. Jabotinsky, Writings On the Road to Jerusalem, Ari Jabotinsky, Jerusalem 1959.
[4] M. Dayan, Milestones. An Autobiography (in ebraico), Edanim Publishers, Jerusalem 1976, citato in A. Shlaim, The Iron Wall,p. 101.

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