Alberto Negri - Trump e il dilemma iraniano (e noi)

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Ecco cosa significa il dilemma iraniano per gli Stati Uniti e l'Europa, Italia compresa. Chi è che sta violando l'accordo sul nucleare del 2015: Washington o Teheran? Dopo avere allineato la sua politica estera con il fronte saudita-sunnita e israeliano contro l'Iran, il presidente americano Donald Trump ha certificato al Congresso americano, obtorto collo, che la repubblica islamica degli ayatollah sta tecnicamente rispettando i termini dell'intesa voluta dall'amministrazione Obama. Anche se, ha aggiunto il documento presidenziale quell'accordo «sta venendo meno indiscutibilmente nello spirito» e così, come premio di consolazione, ha imposto nuove sanzioni a individui e gruppi associati al programma balistico di Teheran.
 

Che cosa significa questa manfrina di Trump? Lo spiega il New York Times. Trump è stato chiuso per un'ora in una riunione con il segretario di stato Tillerson, il ministro alla Difesa Mattis e il capo della sicurezza nazionale McMaster che hanno cercato di spiegargli alcune cose. La prima è che l'Iran sta effettivamente rispettando l'accordo, la seconda che l'Iran può colpire quando vuole le truppe americane in Iraq e in Siria con pasdaran, milizie sciite ed Hezbollah, la terza che sta per insediarsi il presidente Rohani il 5 agosto e che i moderati sono sotto pressione dell'ala più oltranzista del regime, al punto che domenica scorsa è stato arrestato per corruzione il fratello del presidente Fereidoun.
 

Non è noto se i consiglieri hanno spiegato a Trump anche il resto. Ovvero che gli Usa hanno perso la guerra in Siria contro Assad e che la Turchia, ormai ex bastione della Nato, ormai è in balìa dei russi e degli iraniani che possono dare il via libera a Erdogan per un'azione militare contro i curdi siriani. I curdi in Siria sono i maggiori alleati degli americani nell'assedio di Raqqa contro l'Isis e se la Turchia attacca saranno costretti risalire verso Nord per dare manforte ai confratelli impegnati contro l'esercito turco. Un assaggio di questo scenario si è avuto in questo ore quando al confine turco-siriano ci sono stati nuovi scontri a fuoco tra le truppe di Ankara e le milizie curde dell'Ypg. La Turchia considera l'Ypg un'organizzazione terroristica legata al Pkk mentre gli Usa lo appoggiano con forniture di armi. Lontani i tempi in cui la signora Clinton, da segretario di Stato, appoggiava Erdogan quando stava per aprire l'«autostrada della Jihad contro Assad». Ora il problema non è più l'autocrate di Damasco ma il presidente turco.
 

In poche parole i generali hanno dovuto rendere chiaro al presidente americano che la sua alleanza con i sauditi, oliata da miliardi di dollari, e gli israeliani gli può costare cara, almeno nell'immediato. Quindi è meglio lasciare stare per il momento gli iraniani che hanno raggiunto recentemente alcuni interessanti accordi commerciali con Ankara e condividono con la Turchia lo stesso obiettivo: contenere l'irredentismo curdo.
 

Ma c'è anche dell'altro. A violare l'accordo sul nucleare sono soprattutto gli Stati Uniti che esercitano pressioni indebite sulle banche e le istituzioni finanziarie europee per impedire di fare affari con l'Iran. Guarda caso la prima società europea a firmare un grande contratto con l'Iran - 5 miliardi di dollari - è stata proprio la francese Total in joint venture con i cinesi, ovvero il braccio energetico del presidente Macron con il quale Trump vorrebbe andare d'accordo visto che la Germania non è neppure membro del consiglio di Sicurezza Onu, non è una potenza nucleare e non fa missioni militari all'estero davvero significative.
 

Poi ci siamo anche noi, ovvero l'Italia, un Paese che ha 25 miliardi di contratti congelati con l'Iran, in buona parte proprio per le minacce di sanzioni finanziarie americane. Washington vorrebbe che mandassimo centinaia di carabinieri a Mosul o a Raqqa per addestrare la polizia locale: ebbene in cambio di che cosa? Del perdurare delle sanzioni all'Iran, dei disastri epocali avallati dagli Usa in Libia?
 

Ecco perché l'Iran è un banco di prova importante e sono gli iraniani stessi che avrebbero il diritto di recedere da un accordo, sottoscritto nel 2015 dal gruppo dei Cinque, che gli americani sono i primi a non rispettare. Il dilemma di Trump ci riguarda da vicino.

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