“La Russia nella frana”. Solženicyn e le sfide dell’Ucraina indipendente

“La Russia nella frana”. Solženicyn e le sfide dell’Ucraina indipendente

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di Martina Napolitano - East Journal 

Spesso gli scrittori la vedono più lunga di storici, economisti e statisti e sanno prevedere in linea più o meno precisa il futuro della propria nazione. Dieci anni prima della morte, nel 1998, il Premio Nobel per la Letteratura (1970), rientrato dopo vent’anni di esilio in Russia solo nel 1994, Aleksandr Solženicyn scrive il saggio “Rossija v obvale” (“La Russia nella frana”, non ancora tradotto in italiano). Con sguardo critico guarda alla nuova Federazione Russa e all’Ucraina, da poco costituitasi, e acutamente coglie quelli che potranno essere i problemi da affrontare nel futuro prossimo.
 
I regali avvelenati di Lenin e Chruščëv all’Ucraina
 
Particolarmente interessante ad oggi è la sua analisi della questione della Crimea, e delle due regioni di Donetsk e della Novorossija (intesa in senso storico, ndr.). Solženicyn non è un politico, tanto meno un economista, inoltre da sempre si è detto avversario della concezione panslavista (“per la Russia questa è sempre stata un onere oltre le sue reali forze”); la sua attenzione è rivolta al futuro della popolazione, della cultura, della lingua russa e ucraina, che egli vede minacciosamente in pericolo. “L’errore più grave dell’Ucraina è stato l’ampiamento non calibrato del suo territorio su aree che mai, prima di Lenin, erano state sue: le due regioni di Donetsk, tutta l’area meridionale della Novorossija (città di Melitopol’, Cherson, Odessa) e la Crimea”. In effetti dopo la sanguinosa guerra civile tra eserciti bianchi e rossi, Lenin decise di affidare alla nuova repubblica ucraina le regioni di Donetsk, Lugansk e la Novorossija. Quindi queste aree, da sempre sotto il controllo diretto di Pietroburgo (o Mosca) si sono ritrovate nel 1922 improvvisamente, per scelta dall’alto, a rispondere a Kiev, pur sempre però all’interno della stessa Unione Sovietica.
 
Per quanto riguarda la Crimea, Solženicyn fa suo il concetto del “regalo di Chruščëv“: nel 1954 l’allora presidente dell’Unione Sovietica sceglie di annettere la Crimea, e con essa lo strategico “diamante del valore militare russo” Sebastopoli, alla repubblica sovietica ucraina. Le motivazioni della scelta, secondo la versione ufficiale, risultano essere: “l’economia comune, la vicinanza territoriale e gli stretti legami tradizionali e culturali tra la regione della Crimea e la Repubblica Sovietica Ucraina”. Il contrario insomma di come la pensavano e la pensano tuttora la maggioranza dei russi. “Quanti russi – continua Solženicyn – con sorpresa e orrore hanno vissuto questa donazione della Crimea, involuta e non discussa dalla fiacca diplomazia russa di allora, questo vero e proprio tradimento, con tutte i conseguenti conflitti nell’area che porterà, avvenuto senza obiezioni, senza il minimo intervento politico di opposizione. [...] A questa crudeltà da parte dei rappresentanti russi al potere tuttavia noi stessi cittadini non ci siamo opposti in tempo. Ed ora alle generazioni prossime toccherà provvedere alla situazione..
 
La lingua russa in Ucraina
 
Da letterato e uomo di cultura, Solženicyn ovviamente tratta molto il tema legato alla lingua russa in Ucraina. Nel momento in cui l’Ucraina divenne stato indipendente una delle sue prime attenzioni fu rivolta alla questione linguistica, che venne risolta, nella Costituzione, con l’elezione dell’ucraino a unica lingua ufficiale. In realtà la percentuale di popolazione di madrelingua russa – alla quale venne comunque riconosciuta la cittadinanza ucraina, in quanto residente sul territorio al momento dello scioglimento dell’URSS (non in tutti i paesi ex-sovietici si adottò questa soluzione, si vedano il caso dei paesi baltici) -, soprattutto negli anni subito successivi al crollo dell’Unione Sovietica era tanto alta (Solženicyn sostiene addirittura oltre il 60%) che riconoscere solo l’ucraino si rivelò chiaramente essere una scelta non abbastanza soppesata, presa sull’onda dell’isteria antisovietica. Lo scrittore non accusa la nazione ucraina per il suo eccessivo nazionalismo, comprensibile all’alba della neo-indipendenza, ma sottolinea la modalità brutali e controproducenti in cui questa imposizione dell’ucraino è stata portata avanti. “Non è stata scelta la via della valorizzazione della cultura ucraina, ma quella della repressione di quella russa. [...] La persecuzione e repressione fanatica della lingua russa è semplicemente una misura brutale e controproducente nella prospettiva futura della cultura della stessa Ucraina”. Lo scrittore ha a cuore le nuove generazioni ucraine di madrelingua russa (secondo i dati del censimento del 2001, circa il 30% della popolazione). “Cosa dovranno fare i giovani russi in Ucraina? Sottomettersi, accettando una lingua e una nazionalità a loro estranee? Pensando a loro mi duole il cuore”. Riconoscere quindi anche il russo come lingua ufficiale (come ha fatto la Bielorussia in seguito al referendum del 2005), sarebbe stata una scelta meno azzardata e avrebbe conservato e arricchito il bagaglio linguistico e culturale dell’intera nazione, invece che sopprimerne una parte e imporne una per gran parte della popolazione estranea.
 
Lo stesso vale per la forzata struttura accentrata della repubblica ucraina che non previde accuratamente le pretese e necessità specifiche delle varie regioni al suo interno. Solo la Crimea venne riconosciuta nel 1992 regione autonoma: la popolazione quell’anno aveva votato per l’indipendenza, ma le autorità locali decisero di restare sotto Kiev, purchè questa riconoscesse uno statuto speciale per la penisola. Con più autonomia forse le tensioni con i separatisti del Dombass sarebbero state prevenute; o al contrario, l’autonomia avrebbe portato più velocemente ad autoannessioni alla Russia. Chi può dirlo.
 
Lo zampino americano nella politica antirussa ucraina, secondo Solženicyn
 
Infine Solženicyn, che per quasi due decenni visse in esilio negli Stati Uniti (rifiutando, al contrario della moglie e i figli, la cittadinanza), è deciso nell’associare la politica antirussa ucraina agli interessi statunitensi. In particolare lo scrittore ricorda le politiche filostatunitensi dei presidenti Kravčuk e Kučma, il partenariato con la NATO iniziato nel 1997 e la presenza della flotta americana nel Mar Nero come segnali indicatori (in riferimento agli anni in cui scrive) della sfera in cui la nuova Ucraina ha deciso di ruotare. La stessa NATO non nasconde il suo interesse verso una più stretta integrazione con l’Ucraina e verso una sua futura adesione.
 
È chiara e comprensibile la reazione russa a queste mire di ampliamento dell’alleanza atlantica; un’eventuale membership ucraina non vorrebbe dire solo aver spiritualmente perso un partner culturale e storico, ma darla vinta all’avversario di sempre che, per quanto riguarda i paesi dell’ex blocco sovietico, ha già “conquistato” (in seguito al “quarto” (1999), “quinto” (2004) e “sesto” allargamento (2009)) Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia, Albania e Croazia.
 
Lungimirante quindi lo sguardo di Solženicyn ci appare a distanza di quasi vent’anni; lo scrittore aveva colto diversi aspetti critici sui quali si andava a edificare la nuova repubblica ucraina, e le instabilità interne al Paese a cui questi avrebbero inevitabilmente portato, a prescindere dagli eventuali interessamenti e interventi stranieri nel suo territorio e nella sua politica. Quello che però il premio Nobel alla fine degli anni ’90 non aveva probabilmente immaginato era il risvolto tragico che la situazione avrebbe preso oggi.

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