L'opposizione venezuelana (MUD): «Faremo come in Brasile»

L'opposizione venezuelana (MUD): «Faremo come in Brasile»

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di Geraldina Colotti*, il Manifesto 15 maggio 2016
 
«Lorenzo Mendoza non toglierci l’arepa». Così, ieri, in Venezuela i lavoratori hanno sfilato dietro le bandiere del sindacato per denunciare la natura politica del sabotaggio portato avanti dall’imprenditore Mendoza – uno dei più ricchi del mondo, secondo la rivista Forbes – proprietario della Polar. Mendoza – ha dichiarato il leader del sindacato, Frank Quijada – dopo aver intascato miliardi dal governo non ha investito nel paese. E ora cerca di aggirare le leggi del lavoro appellandosi all’articolo 72 della Ley organica del Trabajo, che consente di abbassare la produzione solo in caso di
situazioni eccezionali e catastrofiche.
 
«Mendoza vuole far cadere il governo – ha detto – Quijada – Ha diminuito drasticamente e in modo immotivato la produzione durante la malattia di Chavez, durante le proteste violente del 2014 e in prossimità delle elezioni parlamentari del 6 dicembre scorso». E in questi anni di attacchi al governo di Maduro, la Harina Pan – un tipo di farina di mais precotta prediletta dai venezuelani per fare l’arepa – si trovava al mercato nero a prezzi esorbitanti, si vendeva in
Colombia,  ma scompariva come altri prodotti del paniere di cui ha il monopolio la Polar dai supermercati sussidiati dal governo. Insieme al sindacato del settore privato alimentare, hanno sfilato 45.000 consigli comunali, 1.500 comunas, 300 movimenti del Potere popolare, ossatura di uno dei 15 «motori» per riattivare l’economia dal basso, proposti dal governo, il Motore economico comunale. Per uscire dalla difficile situazione economica – dovuta soprattutto alla drastica caduta del prezzo del petrolio, al sabotaggio interno e alle difficoltà di «reinventare» una direzione di marcia in una società
ancora troppo dipendente dalle importazioni – Maduro ha rinnovato per altri 60 giorni il decreto di emergenza economica.
 
Ma anche la crisi politica incalza. Forte del capovolgimento di fronte, prima in Argentina e ora in Brasile, l’opposizione spera di liberarsi di Maduro e per questo ieri ha manifestato contro il governo, mentre il Consejo Nacional Electoral (Cne) sta verificando la raccolta di firme che consentono di mettere in moto il referendum contro il presidente, previsto dalla costituzione a metà mandato. Il controllo inizierà il 2 giugno, ma l’opposizione preme.
 
Julio Borges – politico di lungo corso a capo del gruppo parlamentare della Mud e coordinatore del partito Primero Justicia (il partito di Henrique Capriles) – ha invitato Maduro «a riflettersi nello specchio di Dilma Rousseff» perché sta arrivando il suo turno. L’arrivo di Michel Temer al governo del Brasile, dopo l’impeachment alla presidente eletta, riattizza le aspettative dell’opposizione venezuelana, che cerca di seguire lo stesso iter. I piani delle destre si assomigliano in America latina, cambiano i nomi ma gli interessi che rappresentano e i terminali che li guidano sono gli stessi.
 
Anche la corruzione contro cui tuonano, li lega. Come Macri, Julio Borges figura nei Panama Papers come intestatario di società offshore insieme ad altri esponenti dell’opposizione. In Brasile, Temer non è solamente inquisito per corruzione e frode ma, come rivela un cable di Wikileaks, è sempre stato al soldo di Washington e della Cia. La Ong Mision Verdad ha diffuso un documento intitolato Venezuela Freedom 2proveniente dal Comando Sud e firmato dal suo comandante, l’ammiraglio Usa Kurt Tidd. Vi si illustrano 12 obiettivi tattici e strategici per creare le condizioni politiche, economiche e militari per avviare la Carta democratica dell’Organizzazione degli stati americani (Osa) e legittimare così l’intervento militare statunitense: a partire dalla base di Palmerola, in Honduras, che ha la pista d’atterraggio più larga del Centroamerica. Lì, il 28 giugno del 2009,  fece sosta, per 15 minuti, l’aereo che stava portando in Costa Rica il presidente Manuel Zelaya, sequestrato dai militari perché avrebbe voluto indire un referendum per aderire all’Alba, l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America, ideata da Cuba e Venezuela.
 
Nel documento si spiega chiaramente quali sono stati e sono i passi compiuti per addestrare agli obiettivi la litigiosa coalizione di opposizione e quali sono le aspettative. Il modello è sempre quello delle «rivoluzioni arancioni» descritto dal manuale di Gene Sharp, e già visto all’opera durante le violenze di piazza del 2014, che hanno
provocato 43 morti e oltre 800 feriti. La maggior parte delle vittime apparteneva alle forze dell’ordine ed è stata uccisa con armi da fuoco. A morire sono stati anche alcuni lavoratori che rientravano a casa in moto, sgozzati dai fili di ferro tesi sulle barricate per far cadere le moto della polizia e quelle dei collettivi di quartiere. La versione mediatica proiettata in occidente, è stata invece quella di «pacifici manifestanti» repressi da un «regime dittatoriale».
 
E i grandi media parlano ora di «catastrofe incombente» e di un possibile golpe dall’interno del chavismo. Di certo, i volti e le firme del referendum indicano quanto la «destra endogena» del chavismo abbia sabotato dall’interno indossando la maglietta rossa. «Adesso vengono per noi, ma qui non siamo in Brasile», ha detto Maduro denunciando il «golpe istituzionale» contro Dilma. E ha richiamato a Caracas il suo ambasciatore in Brasile. «L’obiettivo delle destre
guidate dagli Usa – ha detto Maduro – è quello di farla finita con le alleanze solidali e di colpire i Brics togliendo di mezzo la presidente Dilma».
 
Ma cosa resta delle alleanze alternative sud-sud? Quale potrà essere il ruolo della Unasur o della Celac nei “golpe suave” che avanzano in America latina? Dopo la messa fra parentesi della socialdemocrazia brasiliana, la sconfitta del kirchnerismo alle presidenziali argentine, quella parlamentare del socialismo chavista in Venezuela e
l’attacco delle destre che si avverte in Ecuador e in Bolivia, in molti hanno registrato una mancanza di protagonismo da parte degli organismi regionali. Solo l’Alba – l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America ideata da Cuba e Venezuela e di cui il Brasile non fa parte – si è fatta sentire subito per denunciare la rottura democratica che si fa strada in Brasile. E i paesi socialisti dell’America latina, a cominciare da Cuba, lo hanno fatto anche in ordine sparso.
 
Dopo il voto del Senato sull’impeachment, il colombiano Ernesto Samper, che presiede la Unasur ha definito quello del Brasile un “golpe passivo” e ha detto che per parlare di rottura istituzionale bisogna attendere la fine del procedimento (che durerà sei mesi). Ben altra attitudine aveva assunto la Unasur durante il tentativo di colpo di stato in Bolivia compiuto dai “separatisti” con il massacro del Pando nel 2008, e poi durante il tentativo di colpo di stato della polizia contro Rafael Correa, nel 2010. Una ferma presa di posizione si era avuta anche in occasione del golpe in Honduras contro Zelaya,
nel 2009 e poi contro Fernando Lugo in Paraguay, nel 2012. Non siamo più ai tempi di Chavez, insomma, ai tempi della sconfitta dell’Alca, del nuovo che avanza e che trascina nella sfida anche i più moderati.
 
Oggi è in campo il gran ritorno dell’Accordo Transpacifico (Tpp), realizzato dagli Usa. Ad appoggiarlo, nel continente latinoamericano, sono i principali vassalli, Messico, Colombia e Perù, con il Cile a fare da grosso centro. Molti altri paesi sono però in coda per aderire al Tpp. Nel frattempo, anche alcuni di quelli proiettati nelle alleanze sud-sud, hanno concluso Trattati di libero commercio con l’Europa, dove il Ttip fa da ampio contraltare neoliberista al Tpp.

Per altro lato, a dirigere l’Organizzazione degli Stati americani (Osa) c’è l’uruguayano Luis Almagro, che ha già avuto modo di mostrare con il Venezuela chi gli tiri il guinzaglio: tanto da farsi riprendere dall’ex presidente Pepe Mujica. Ma oggi, a dirigere l’Uruguay c’è il moderato Tabaré Vazquez che, già a Mar del Plata, nel 2005, quando Nestor Kirchner decise di votare contro l’Alca insieme a Fidel Castro e a Hugo Chavez, preferì uscire dalla sala.
 
Nel Mercosur, dopo il viraggio a destra dell’Argentina, restava il gigante brasiliano, grande partner commerciale dell’Argentina e asse importante dei Brics. Ora , nel Mercosur, si tratta di far fuori il Venezuela di Nicolas Maduro, il cui paese – che custodisce le prime riserve al mondo di petrolio, le seconde in oro e in coltan -, insieme alla Bolivia di Morales, non ha firmato il Tlc. Il Venezuela è di turno alla presidenza della Unasur e sta per assumere quella del Mercosur, ma è difficile combattere con armi impari su tutti i fronti.

Contro Maduro, il “golpe blando” si è provato a metterlo in marcia subito dopo la morte di Chavez, il 5 marzo del 2013: sabotaggi, accaparramento, violente proteste delle classi agiate, e poderose campagne di discredito internazionale. “Ma qui non siamo in Brasile”, ha detto Maduro. Vero è che, pur con tutti i limiti, le alleanze messe in campo dalla “democrazia
partecipata e protagonista” del chavismo sono di carattere diverso da quelle su cui ha contato Rousseff: sicuramente più ancorate al consenso popolare e non alle alchimie istituzionali, come dimostrano le manifestazioni di sostegno anche in questi giorni. 

E il Psuv resta il partito più votato di tutti nel paese. Basterà questo a preservare il “laboratorio bolivariano” dall’onda scura che incombe sull’America latina? Da una parte all’altra del continente, i movimenti popolari fanno quadrato. E chiamano a conseguenza chi è disposto a rinnovare la scommessa di futuro anche sulle sponde disilluse del Primo mondo. In una conferenza stampa, organizzata alla Camera dalla deputata di Sinistra italiana, Giovanna Martelli, il gruppo di attivisti, avvocati e personalità politiche che sostiene la parlamentare indigena Milagro Sala è intervenuto via skype dall’Argentina. “Per sostenere la liberazione di Milagro – hanno detto i militanti del partito Tupac Amaru – occorre comprendere l’attacco in corso contro il Venezuela di Nicolas Maduro come contro il Brasile di Dilma Rousseff. Per questo, chiediamo a chi sta in Europa di far sentire la propria solidarietà”.

*Pubblichiamo su gentile concessione dell'Autrice

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