Napolitano e la lobby del “No Brexit”

Napolitano e la lobby del “No Brexit”

Il gioco sporco al servizio della dolce morte della democrazia

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di Michel Fonte 
 
C’è una definizione ricorrente nel linguaggio di Giorgio Napolitano, quel “populismo democratico” che cita in ogni concione con un disappunto malcelato e con il chiaro obiettivo di spaventare l’uditorio prefigurando scenari apocalittici, che sono oramai divenuti il verbo quotidiano dei difensori ad oltranza dell’UE, in tal senso, il referendum sull’uscita o la permanenza della Gran Bretagna è un esempio calzante del loro incessante gioco sporco. Il problema è che in quanto apostolo laico, e direi quasi blasfemo, dell’UE, il “migliorista” finge di non sapere che la catastrofe si è già abbattuta sui popoli d’Europa e sulle istituzioni democratiche che la governano. Il due volte presidente della repubblica, prima anomalia di un parlamentarismo malato, dovrebbe illuminarci sul concetto di populismo, se ci fosse stato Socrate facendo leva sul tradizionale ma mai vetusto metodo maieutico, lo avrebbe condotto verso un articolato ragionamento che avrebbe scardinato le sue interessate certezze, salvo che non ci si trovasse al cospetto di un politico intellettualmente disonesto. Il vocabolo “populismo”, fortemente stigmatizzato da coloro che ci tengono a conservare l’insegna di moderati, anche se in molti casi si dovrebbe parlare esclusivamente di mediocri, ha le sue radici in un orientamento politico che valorizza il popolo ponendo al centro le sue esigenze e aspirazioni, e fu coniato per la prima volta verso la fine dell’800 in Russia – la madre del comunismo che Napolitano dovrebbe conoscere molto bene dato che il PCUS finanziava i partiti fratelli d’occidente – con il nobile proposito di migliorare le condizioni di vita delle classi contadine e dei servitori della gleba, una visione condivisa nel 1891 addirittura nei liberali Stati Uniti d’America, altro paese che il nostro contemporaneo eroe dei due mondi ha frequentato con assiduità, in cui il Populist o People's Party, aveva come programma non l’imposizione di un modello autoritario, ma, al contrario, una più marcata democratizzazione delle istituzioni della confederazione attraverso la nazionalizzazione dei mezzi di comunicazione, l’adeguamento delle tasse di successione ad un livello congruo, l’elezione di presidente, vicepresidente e senatori con un voto popolare diretto e non di secondo grado. Napolitano alla pari di Monti, che in una recente intervista ha dichiarato la necessità di rassegnarsi alla perdita di diritti fondamentali, manifesta una certa allergia alla democrazia che rasenta l’idiosincrasia, e che esprime con tutti mezzi della comunicazione a sua disposizione, forse anche per sopperire al mutismo istituzionale di Mattarella, tacciando ogni forma dissenso dal pensiero unico di cui è portavoce come “populismo democratico.”  
 
L’ex presidente, quindi, ammette implicitamente che questo populismo non è né demagogico né autoritario, ma l’incarnazione delle legittime rivendicazioni della stragrande maggioranza del corpo sociale, nonché l’espressione dei suoi bisogni primari (diritto alla casa, al lavoro, all’assistenza sanitaria), eppure nonostante ciò fa spallucce e tira avanti per la sua strada, oramai al tramonto, svelando quella che è e che è sempre stata la sua cifra politica e la sua concezione di sovranità popolare. Per l’ex presidente la democrazia è un affare per pochi eletti, o meglio nominati, gli stessi che ha messo a sedere sullo scranno di presidente del consiglio, i vari Monti, Letta e Renzi (di cui solo il secondo eletto in parlamento, ma con una legge, il porcellum, dichiarata incostituzionale) e che ha promosso a salvatori della patria, solo che non si è capito bene se quella italiana o europea, perché le due realtà, come nel paradigma hegeliano, si incontrano in un’inconciliabile antitesi in cui se una vive l’altra muore con buona pace di euristi ed europeisti. Un politico andrebbe giudicato non per i libri che scrive, per cui nulla si dirà sull’ultima fatica letteraria di re Giorgio (“Europa politica e passione”) che onestamente non credo rimarrà tra le opere scientifiche degne di nota, ma per la carriera e il personale percorso istituzionale, ebbene, Napolitano, con il suo migliorismo, si inscrive con tutti i canoni al peggior “trasformismo” che questo paese ha dovuto sopportare nel corso della sua tormentata storia unitaria, è quello stesso trasformismo che Renzi spalleggiato proprio dall’ex presidente della repubblica ha più volte dichiarato di voler cancellare, peccato che il suo esecutivo abbia finito per esserne la sublimazione imbarcando di tutto e di più, dai centristi agli ex esponenti di Scelta Civica, passando per Alfano e Cicchitto e i transfughi del M5S fino ad arrivare ad ALA, gruppo politico di Verdini che si guadagna con merito la palma dei voltagabbana della legislatura. 
 
Napolitano di fronte ad un esecutivo funzionante come un albergo a ore o ad un postribolo, non ha mai sentito la necessità di una verifica politica avallando dapprima un contratto privato e segreto tra due leader di partito, Renzi (non eletto) e Berlusconi, che è qualcosa che non solo va al di là della Costituzione ma contrario allo spirito della medesima, e successivamente, dal momento in cui il patto del Nazareno era già finito in frantumi, ha astutamente abbandonato il campo al suo successore ignorando con sfacciataggine tutte le manovre extraparlamentari e i cambiamenti di casacca con i quali si è data la stura all’ennesima compravendita di parlamentari e voti. Si può asserire senza alcun dubbio che il suo presunto ruolo di garante della Costituzione non è stato tale, non lo è stato quando con indifferenza ha lasciato che Berlusconi facesse adottare dal parlamento tutta una serie di legge ad personam restando in compunto silenzio; non lo è stato quando d’accordo con Angela Merkel, Barack Obama e un pugno di burocrati europei ha dato il suo appoggio per disarcionare lo stesso leader del Pdl con le nuove armi di distruzione di singoli e massa, vale a dire le speculazioni borsistiche, che hanno dapprima colpito i titoli di stato italiani (il famoso rialzo dello spread) e poi direttamente le quote azionarie dell’impero Mediaset; non lo è stato, infine, quando di fronte alle dimissioni dell’esecutivo Berlusconi (2011) anziché far tornare il pallone a centrocampo per una nuova partita elettorale, ha deciso, con la colpevole complicità dello stesso condottiero di Arcore, di prolungare la contesa ai tempi supplementari con la speranza, vana, di truccare l’esito del gioco “normalizzando” e “neutralizzando” il crescente populismo con un programma di controriforme demolitrici di diritti acquisiti e tutele guadagnati con anni di lotte proprio dal fronte socialista e comunista a cui, con molti dubbi per la verità, si suppone appartenga. In sostanza, durante l’esperienza Monti (2011-2013), si è elaborata una piattaforma di misure economiche non sottoposte e non concordate con il corpo elettorale, e portate a compimento dietro il paravento di un esecutivo tecnico ma nei fatti eminentemente politico, visto l’accordo internazionale siglato dal professore bocconiano che va sotto il nome di Fiscal Compact (Patto di bilancio firmato da 25 paesi dell’UE nel marzo 2012 ed in vigore dal 1° gennaio 2013 con l’avvenuta ratifica da parte di 24 degli stati aderenti) ed il beneplacito dato dallo stesso al MES, il Meccanismo europeo di stabilità detto anche Fondo salva-Stati, approvato dal Parlamento europeo e ratificato dal Consiglio Europeo nel marzo 2011, che ha assunto le connotazioni di un’organizzazione intergovernativa molto simile all’odiato e spesso contestato FMI, in particolare, nel luglio 2012 il professore ne richiese l’approvazione alle camere come punto qualificante e imprescindibile del suo mandato, ottenendo l’adesione di una larga maggioranza in parlamento (191 sì, 15 astenuti e 21 no al Senato, 380 sì, 36 astenuti e 59 no alla Camera). Con i due sopraccitati trattati si è sostanzialmente ceduta un’ulteriore e fondamentale quota di sovranità nazionale alla tecnocrazia europea ferendo a morte l’ispirazione keynesiana della carta costituzionale, lo si è fatto, con Napolitano in testa, rimestando la solita, infida sbobba de “L’Europa ce lo chiede” e relativo corollario di misure di rigore contabile, ovviamente, a spese dei soliti noti – pensionati, lavoratori, piccoli artigiani e professionisti – che hanno dovuto sopportare un coacervo di provvedimenti (legge Fornero, spending rewiew con tagli indiscriminati ad enti locali, spesa sociale e sanità, reintroduzione della tassa sulla prima casa detta Imu, aumento delle accise sui carburanti, aumento dell’Iva del 2% di tutte le aliquote, imposta fissa di bollo sui conti correnti) che hanno rimandato alle peggiori manovre di matrice democristiana.
 
Altro che rivoluzione montiana, ancora risuonano le parole del professore: “Capisco il disagio dei cittadini, ma la catastrofe incombe e va evitata, anche se costa.” 
 
Purtroppo, com’era prevedibile, la catastrofe non è stata evitata, anzi, l’austerità di Monti non ha fatto che aggravare la crisi del sistema Italia conducendolo in piena recessione, tanto che allora si disse non senza ragione che se quelli erano i rimedi dei professori sarebbe stato meglio affidare la guida del paese ai bidelli. Soprattutto, non fu raggiunto quello che era stato il dichiarato ma falso obiettivo dell’esecutivo tecnico, cioè, la riduzione dell’enorme massa debitoria pubblica, infatti, stando ai numeri, all’inizio del mandato Monti (novembre 2011) il debito ammontava a 1.912,389 miliardi di euro, mentre al termine dell’esperienza governativa lo stesso aveva raggiunto la poco invidiabile cifra di 2.041,293 miliardi di euro (+128,904 miliardi), con un debito procapite passato da 32.154 a 34.250 euro (+2.163) e un aumento del debito medio mensile di 7,5 miliardi, in altre parole, basandoci solo su questo ultimo indicatore, e nonostante il professore bocconiano continui a vantare in tutte le trasmissioni televisive che inopinatamente gli permettono di mistificare la verità, l’operato del suo governo e di aver evitato il naufragio del paese, la realtà è che riuscito a fare perfino peggio del denigrato esecutivo Berlusconi, il cui debito mensile medio si attestava intorno ai 6,230 miliardi di euro. 
Il vero scopo di Monti, Draghi e Napolitano era ed è tutt’altro, in perfetta linea con la filosofia ordoliberista si tratta di piegare le ultime resistenze di vita democratica delle nazioni, drenando risorse dalle persone alle banche e alle corporation per il nuovo dogma del capitalismo selvaggio: il controllo dell’inflazione, dal lato di salari e stipendi, e, per il contrario, il sostegno senza limiti a profitti e rendite, così com’è successo con i vari programmi varati dalla BCE (QE  o allentamento quantitativo, LTRO o piano di rifinanziamento a lungo termine e TLTRO) nessuno dei quali ha iniettato liquidità nel sistema produttivo, al contrario, l’enorme quantità di miliardi è stata riversata nel circuito finanziario (borse) per pompare i corsi azionari e le quotazioni dei titoli di stato cosiddetti ad alto rischio, rivalutando le attività finanziarie e di conseguenza mantenendo inalterato lo stato di bassa inflazione, che è quello che gli operatori creditizi e borsistici (banche, sim, fondi) pretendono per non incorrere in perdite nel valore reale dei loro crediti, mentre, dall’altra parte, i debitori hanno subito una rivalutazione dell’onere delle passività espresso in termini reali, nel senso che la deflazione in un contesto di crisi della domanda determina una svalutazione di patrimoni e garanzie (beni immobili e relative ipoteche) e ciò che ieri valeva 100 (valore nominale) ora vale 80 (valore reale), mentre il debito conserva intatto il suo valore nominale (pari a 100). Le misure suddette, sono state le armi di una vera propria guerra planetaria, molto di più del famoso bazooka di Draghi, che ha acutizzato il divario tra ricchi e poveri, data l’assenza di un’adeguata politica fiscale per favorire la redistribuzione e concentrazione della ricchezza.   
 
Napolitano, sotto questo punto di vista, è ed è stato il principale sostenitore di una politica, quella del consesso di Washington e della scuola di Chicago, in cui tutti i sacrifici gravano su i percettori di reddito fisso, e questo perché si è scelto deliberatamente che la vittoria del capitale dovesse essere totale, definitiva e senza prigionieri, spostando il welfare dai cittadini alla finanza e ai monopoli, in una competizione tra paesi e megaimprese giocata con tagli al costo e ai diritti del lavoro e all’assistenza pubblica universale, detto in altre parole, ci troviamo dinanzi ad un’oligarchia tecnocratica, in cui burocrati non eletti decidono in assenza e contro la volontà sovrana ciò che è giusto o non è giusto fare. Il ventunesimo secolo ha così partorito un grande mostro che nemmeno la pirotecnica fantasia di Philip Dick avrebbe potuto concepire, il suo potere economico è solo il riverbero di una dottrina illuminata da un pensiero di superiorità spirituale e razziale, che rifiuta categoricamente gli strumenti tipici delle masse, vale a dire, tanto la democrazia quanto il totalitarismo, inteso quest’ultimo come fondato su una sola autorità di tipo temporale. Nei fatti, questa lobby che si sente depositaria del verbo, non necessita più del consenso popolare ma converte l’ideologia di una ristretta élite in una religione laica incontestabile, utilizzando l’eristica come tecnica per distruggere qualsiasi opposizione ai suoi dogmi. 
 
I vari Napolitano, Monti, Letta, Renzi, Schäuble, Merkel, Hollande, Cameron, Rajoy, e prima di loro Zapatero, Blair, Sarkozy e tanti altri uomini di governo, si sono fatti portatori sani di questo credo, che, però, per il corpo sociale che è fuori dalla casta sacerdotale del capitalismo magico, non è nient’altro che ciò di cui spesso lo si accusa quando esterna segni di ribellione, vale a dire, una forma di populismo moderno che si può definire come “neo-populismo autoritario mediatico.” Il principale strumento di cui si serve per narcotizzare sussulti democratici è il ripristino di una partitocrazia senza partiti (scomparsa dei tradizionali partiti di massa), governati da direttivi in cui si ha una commistione tra il centralismo democratico del Politburo, fatto di commissari e nomenklatura, e una casta di superuomini, di concezione evoliana, che utilizza la “demagogia mass-mediale” per orientare i processi politici facendo leva su sentimenti irrazionali (false paure, falsi sentimenti di fratellanza e accoglienza, capri espiatori e finti miti, come l’aumento della produttività, elogio della precarietà lavorativa, la necessità dei sacrifici economici, l’insostenibilità delle spese sociali e previdenziali, l’induzione di bisogni artificiali, l’istigazione alla protesta per le inefficienze dei pubblici servizi con contemporanea, ma per nulla provata, esaltazione dell’ottimale gestione privatistica) anziché su argomenti razionali.
 
Questo formato di democrazia è tanto caro a Napolitano che non vuole correre il pericolo di lasciare aperti spiragli di vita politica libera nel paese, per cui durante la sua presidenza si è convertito dapprima in ambasciatore della cessione illegale di pezzi di sovranità nazionale all’UE (governo Monti 2011-2013), successivamente in un massimalista della riforma elettorale e di quella costituzionale in nome di un altro finto totem che va sotto l’etichetta di “governabilità”, che però sarebbe più opportuno definire come “governabilità antidemocratica.” Volendoci soffermare solo sulle questioni procedurali, la riforma del Senato e del titolo V della Costituzione non poteva avvenire, così com’è accaduto, con il voto di parlamentari privi di una reale rappresentanza del corpo elettorale. La Corte Costituzionale, con sentenza 1/2014, ha rilevato la concreta violazione dell’esercizio del diritto di voto così come configurato dalla legge n. 270 del 2005 (“porcellum”), in quanto le norme in essa contenute risultano contrarie ai principi costituzionali del voto “personale ed eguale, libero e segreto” (art. 48, comma 2, Cost.) e della “rappresentanza democratica” (art. 1, comma 2, e art. 67 della Costituzione), nello specifico, dalle motivazioni si apprende che “il voto espresso dall’elettore, destinato a determinare per intero la composizione della Camera e del Senato, è un voto per la scelta della lista, ed escludono ogni facoltà dell’elettore di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti, la quale dipende, oltre che, ovviamente, dal numero dei seggi ottenuti dalla lista di appartenenza, dall’ordine di presentazione dei candidati nella stessa, ordine di presentazione che è sostanzialmente deciso dai partiti. La scelta dell’elettore, in altri termini, si traduce in un voto di preferenza esclusivamente per la lista, che – in quanto presentata in circoscrizioni elettorali molto ampie, come si è rilevato – contiene un numero assai elevato di candidati, che può corrispondere all’intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione, e li rende, di conseguenza, difficilmente conoscibili dall’elettore stesso. Una simile disciplina priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti. A tal proposito, questa Corte ha chiarito che «le funzioni attribuite ai partiti politici dalla legge ordinaria al fine di eleggere le assemblee – quali la presentazione di alternative elettorali e la selezione dei candidati alle cariche elettive pubbliche – non consentono di desumere l’esistenza di attribuzioni costituzionali, ma costituiscono il modo in cui il legislatore ordinario ha ritenuto di raccordare il diritto, costituzionalmente riconosciuto ai cittadini, di associarsi in una pluralità di partiti con la rappresentanza politica, necessaria per concorrere nell’ambito del procedimento elettorale, e trovano solo un fondamento nello stesso art. 49 Cost.» (ordinanza n. 79 del 2006). Simili funzioni devono, quindi, essere preordinate ad agevolare la partecipazione alla vita politica dei cittadini ed alla realizzazione di linee programmatiche che le formazioni politiche sottopongono al corpo elettorale, al fine di consentire una scelta più chiara e consapevole anche in riferimento ai candidati. In definitiva, è la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione. Simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali).
 
Come si precisa successivamente con estrema chiarezza: “Le condizioni stabilite dalle norme censurate sono, viceversa, tali da alterare per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti. Anzi, impedendo che esso si costituisca correttamente e direttamente, coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare, e pertanto contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto di cui all’art. 48 Cost. (sentenza n. 16 del 1978).”
 
Se è vero che la Corte Costituzionale nelle stesse motivazioni della sentenza sottolineava che l’annullamento delle norme censurate (art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.p.r. 30 marzo 1957 n. 361, art. 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 e artt. 4, comma 2, e 59 del d.p.r. n. 361 del 1957, nonché dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993) avrebbe prodotto i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale – da tenersi secondo le regole contenute nella normativa residua in vigore a seguito della medesima sentenza, ovvero secondo la nuova normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camere – e che non andava a ledere in alcun modo gli atti posti in essere dal Parlamento, riferendosi sia agli esiti delle elezioni svoltesi sia alle misure adottate dalle Camere così come elette (ribadendo il principio fondamentale della continuità dello Stato), altrettanto vero che il rispetto dei principi di rappresentanza, sovranità e democraticità, avrebbero dovuto spingere verso una breve legislatura che avesse avuto come unico e prioritario obiettivo la riforma elettorale, per poi far ritornare rapidamente al voto i cittadini. 
Napolitano, invece, nell’immediatezza della sua seconda elezione a presidente della repubblica, pur rappresentando questo scenario alla pubblica opinione, approfittò dell’incapacità di Pier Luigi Bersani a formare un esecutivo (come capo della coalizione di centrosinistra vincitrice alle elezioni del febbraio 2013, ma priva della maggioranza al Senato), per mettere in piedi un altro governo fantoccio, avente lo stesso leitmotiv dell’antecedente gabinetto. Accantonata ogni velleità di modifica della legge elettorale, Enrico Letta si dedicò a prolungare l’austerità con gli stessi pessimi risultati del suo predecessore: il debito pubblico al termine del mandato (gennaio 2014) raggiunse i 2089,462 miliardi, con una crescita di 48,169 miliardi e un incremento medio mensile di 5,4 miliardi. 
 
Ma Napolitano ha fatto anche di più, com’è consono alla sua doppiezza d’azione dai tempi del comunista ben accetto agli Stati Uniti, ha agito in palese violazione del proprio ruolo di garante della Costituzione (art.87 Cost.)  avallando e personalmente imponendo la nascita di un terzo governo, quello Renzi, che ha spinto e continua a spingere tutt’oggi verso un programma di modifiche legislative in campo economico amministrativo e costituzionale in assenza di un chiaro mandato elettorale. In particolare, ritornando alla sostanza della revisione costituzionale, cioè agli aspetti giuridici e non solo procedurali, si può dire che il vero focus della riforma é come espropriare i cittadini del diritto di voto e smorzare le pressioni autonomiste dei territori. Il nuovo Senato della repubblica, la legge elettorale, le modifiche al Titolo V e il riordino delle amministrazioni provinciali, sono i capisaldi di un progetto che vuole riportare il potere nella grande madre romana consacrando l’assolutismo di partiti e potentati elitari. C’e un filo che lega tutti i mutamenti legislativi fin qui adottati, innanzitutto, con il riassetto degli enti provinciali non si è prodotto alcun significativo risparmio di spesa, ma solo costruito un sistema d’elezione di secondo grado con sindaci e consiglieri in carica nei comuni delle provincie che hanno diritto di elettorato attivo e passivo, in altre parole, presidente dell’amministrazione provinciale diventa un consigliere o un primo cittadino nominato dai propri colleghi, e dato che i candidati a consigliere e sindaco nei vari comuni sono selezionati direttamente dai direttivi provinciali dei partiti, che quasi sempre rispondono  alle “pressioni” dei parlamentari locali, si comprende come anche questa scelta è una scelta verticistica e romana. 
 
La logica che ha ispirato la legge di modifica della composizione ed elezione del Senato della repubblica è la medesima. Il senato non elettivo porterà nell’aula di Palazzo Madama 100 rappresentanti: 5 nominati dal presidente della repubblica, 74 nominati tra i delegati dei consigli regionali e 21 tra i sindaci da parte degli stessi Consigli Regionali. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un’elezione di secondo grado, con dei membri soggetti all’approvazione dei direttivi provinciali e regionali dei partiti, e quindi in ultima istanza al benestare di notabili (si legga ancora una volta parlamentari romani) che esercitano il loro potere nei territori regionali e provinciali di provenienza. Come se non bastasse, questa camera non avrà più la prerogativa di votare la fiducia al governo, in questo modo le direzioni partitiche si pongono al riparo da eventuali ribaltoni e ribellioni nei territori di esponenti partitici locali, offrendogli in cambio un mandato di lunga durata (7 anni) e l’immunità parlamentare, il cui funzionamento resta a tutt’oggi un’incognita. Non è affatto chiaro che cosa succederà se un sindaco o un consigliere regionale che ricopre la carica di senatore, venga indagato per atti concernenti l’attività amministrativa (Regione, Comune), allo stato attuale, sorge il sospetto che possa servirsi dell’immunità parlamentare per sfuggire a reati che non hanno nulla a che fare con la carica di senatore della repubblica, garantendosi un ottimo lasciapassare per fenomeni corruttivi e concussivi nella gestione degli enti locali.
La legge elettorale, ribattezzata Italicum, completa il quadro, dando conferma sulle intenzioni di una classe politica che mira alla gestione oligarchica del potere, e lo fa laddove sancisce la presenza di 100 collegi plurinominali con capilista bloccati, che potranno arrivare a candidarsi fino a 10 collegi e che verranno automaticamente eletti nel caso scatti un seggio per la lista. Questo sistema permette di nuovo ai comitati ristretti dei partiti di nominare almeno il 65% dei deputati, e lasciare al corpo elettorale la scelta di un’influente minoranza (35%) rappresentativa della sovranità popolare. La dottrina ha  evidenziato come tale compromesso rischi di non essere sufficiente ad ottemperare ai rilievi sanciti dalla sent. 1/2014 Corte Cost., in quanto “il principio affermato dalla Corte costituzionale non è soddisfatto dalla sola predisposizione di un sistema che presenti liste corte” ma esige che “l’elettore, nell’esprimere il voto, sia posto nella condizione di conoscere gli effetti che il suo voto determinerà nella distribuzione dei seggi e nella individuazione dei candidati.”
 
Detto in altre parole, il rapporto elettore-eletto si configura come puramente virtuale e l’espressione della preferenza nella maggioranza dei casi palesemente inutile, dato che il candidato in corsa per le preferenze per poter essere eletto nel collegio non solo dovrà raccogliere il voto individuale, ma dovrà auspicarsi che nel suo collegio siano assegnati almeno due seggi (in caso contrario risulterebbe eletto per legge il capolista indipendentemente dai rapporti di forza espressi dal voto ai componenti della lista) o che il capolista scelga, su indicazione del partito, di essere proclamato eletto in un altro collegio.
 
Bisogna aggiungere che senza eliminare i piccoli partiti, poiché la soglia di sbarramento resta intorno al 3%, si offre un premio di maggioranza spropositato, il 54%, corrispondente a 340 seggi, alla lista vincente che raggiunga al primo turno il 40% non degli aventi diritto al voto ma dei voti validi, questo significa che prendendo come base le elezioni politiche alla Camera del 2013, in cui su un totale di 46.905.154 elettori i voti validi furono il 72,50% pari a 34.005.755  (che sono il risultato che si ottiene, al netto dell’astensionismo [11.634.228]  decurtando dal totale dei voti espressi [35.270.926 pari al 75,20%] le schede nulle e bianche [1.265.171]), la lista che trionfasse al primo turno raggiungendo la suddetta soglia, guadagnerebbe un premio di maggioranza con il consenso di solo il 29% del corpo elettorale.
 
I disegni legislativi approntati in questo quinquennio da governi di nominati, e questo Napolitano lo sa molto bene, hanno avuto un precipuo scopo, riportare allo Stato centrale tutti i poteri e relativi capitoli di spesa che in questi anni sotto la pressione di  movimenti dal basso e per l’azione di uno specifico partito politico (Lega Nord) erano stati trasferiti ai cosiddetti enti locali territoriali. 
 
L’eliminazione del principio di competenza legislativa concorrente delle regioni con il ritorno in capo allo stato di tutta una serie di competenze esclusive , e il declassamento delle province a semplici enti territoriali non più previsti dalla costituzione, così com’e stato formulato e licenziato dal governo Renzi il nuovo Titolo V (ex art.117 Cost.), risponde perfettamente alla volontà della lobby europeista che ha come obiettivo dichiarato impadronirsi delle istituzioni democratiche per svuotarle e procedere all’implementazione di uno Stato “guardiano notturno” o  “ultra-minimo”, secondo la concezione di Noozky e Von Hayek, che sia deputato a poche attività e compiti, quali garantire il diritto di proprietà, assicurare il funzionamento di un mercato deregolamentato, delegare i servizi sociali gratuiti a istituzioni umanitarie religiose e laiche, funzionanti però sempre secondo i principi del laissez fare, e soprattutto affermare il valore intrinseco delle libertà negative (fuori dallo Stato) che trovano la loro sublimazione nel libero scambio, perché tutto deve avvenire nel mercato, niente fuori dal mercato e nulla contro il mercato. È in virtù di questa teorizzazione anarco-capitalista che si possono e si devono salvare i principali attori economici (vedi le operazioni LTRO e TLTRO della BCE di Draghi a favore delle istituzioni creditizie, il decreto salva-banche del governo Renzi e il “Big too fail”  previsto dal “Piano Paulson” durante la presidenza di George W. Bush) mentre si devono lasciare alla povertà, alla fame e all’assenza di cure sanitarie milioni di cittadini ed esseri umani. 
 
La credenza nel mercato è non solo laicamente religiosa e assiomatica ma anche anticonsequenzialistica, cioè non valutabile in termini pratici con riferimento alle conseguenze sul benessere o l’efficienza della collettività, né in termini etici, perché è causa incausata e principio indiscutibile, è  l’unico Dio coerente con la tutela dell’eguale libertà negativa degli individui. Si intuisce quale sia il pericolo imminente, il prodursi della dolce morte della democrazia senza guerre né bombe, ma come un batterio nel suo organismo che dall’interno la sta conducendo alla morte.

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