UNA LUCE IN AFRICA: Eritrea, nozze d'argento con la libertà

UNA LUCE IN AFRICA: Eritrea, nozze d'argento con la libertà

"In Eritrea tutti vivono in dignità e nessuno muore di fame. L’ONU, che pure allestisce cosiddette commissioni per i diritti umani (e stavolta li ha affidati alla presidenza dell’Arabia Saudita, paese in mano alla nota eccellenza democratica e dei diritti umani garantiti da scudisciate e mannaie) incaricate di fare le pulci a tutti i paesi la cui orbita non gira attorno al sole statunitense, ha dovuto classificare istruzione, sanità e distribuzione della ricchezza tra le migliori del Sud Globale".

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di Fulvio Grimaldi*

Il 22 maggio in Italia, nelle varie città dove è concentrata la diaspora eritrea, e il 24 maggio in Eritrea, 5 milioni e passa di cittadini di quel paese celebrano trent’anni di lotta armata di liberazione, una strepitosa vittoria contro i colonialismi congiunti etiopico, statunitense, italiano e britannico, un quarto di secolo di libertà di una nazione pacifica, coesa, multietnica, multireligiosa e di resistenza vittoriosa ad aggressioni e ingerenze neocolonialiste e imperialiste.

Una luce per i popoli dell’Africa sottoposti ad aggressioni militari o economiche, devastati dai predatori multinazionali, oppressi da fantocci asserviti al controllo e allo sfruttamento neocoloniali, incaprettati militarmente da basi e forze d’occupazione euro-atlantiche, strangolati da debiti-capestro inflitti dagli organismi finanziari e commerciali internazionali. Tutte catene di cui l’Eritrea si è liberata e resta libera.
 
 
Una luce in Africa, un’isola di giustizia nel Corno
 
E’ un piccolo paese di montagne, vulcani, bassopiani e altopiani, coste, isole, deserti e semideserti. Un pezzo di Africa come l’immaginario collettivo dipinge il continente quando riflette sul “mal d’Africa”: capanne, foresta tropicale, dune di sabbia, milioni di acacie, sicomori possenti, spiagge sconfinate, oasi, etnie dai costumi e dalle confessioni variegate che vanno dall’animismo al monoteismo, antichissime testimonianze archeologiche tra incisioni rupestri e templi raffinati. Ma anche città moderne, urbanistica sapiente, agricoltura avanzata, industria adolescente in maturazione. Investimenti stranieri dei pochi che sfidano le sanzioni e le rappresaglie Usa. Ambiente naturale affascinante come pochi, ma duro e a volte ostico, scarsezza di risorse naturali delle quali negli ultimi tempi si è però scoperto una nuova potenzialità. Povertà contenuta e combattuta, aggravata dalle solite criminali sanzioni di cannibali che si sono visti sfuggire la preda, ma affrontata attraverso un’equa distribuzione del disponibile, senza gli abissali divari di classe che lacerano le società occidentali. E quelle africane dove l’Occidente sta nella cabina di comando, cioè tutte le altre.
 

ONU, origine controllata USA

In Eritrea tutti vivono in dignità e nessuno muore di fame. L’ONU, che pure allestisce cosiddette commissioni per i diritti umani (e stavolta li ha affidati alla presidenza dell’Arabia Saudita, paese in mano alla nota eccellenza democratica e dei diritti umani garantiti da scudisciate e mannaie) incaricate di fare le pulci a tutti i paesi la cui orbita non gira attorno al sole statunitense, ha dovuto classificare istruzione, sanità e distribuzione della ricchezza tra le migliori del Sud Globale.

Nessuno dei paesi confinanti può vantare dati analoghi. Le siccità che imperversano periodicamente nella regione e che, con particolare virulenza negli ultimi anni, hanno decimato le popolazioni delle altre due componenti del Corno, Somalia ed Etiopia, quelle sopravvissute, nel primo caso, alla disintegrazione voluta da Usa, Nato e Stati clienti africani e, nel secondo, a predazioni e corruzione di una classe dirigente che ha messo all’asta le vaste risorse del paese. Classe dirigente che ha collocato  l’Etiopia al 173° posto su 178 paesi per Indice di sviluppo umano.
 

La vittoria dell’acqua e dei campi
 
In Eritrea, priva di corsi d’acqua che non siano essenzialmente stagionali e torrentizi, una serie di dighe ha permesso di raccogliere e conservare l’acqua piovana e così di realizzare sistemi diffusi di irrigazione. Ne è nata un’agricoltura che, in questo caso, ha davvero fatto fiorire il deserto. Non c’è gita “fuori porta” dalle luminose ed eleganti città eritree, Asmara, Massaua, Keren, Agordat, Barentu, che non ti faccia incrociare montagne alte fino a 3000 metri, terrazzate da valle a vetta, rigogliose di colture e verdeggianti di rimboschimenti. Un’opera di trasformazione dell’ambiente naturale cui, accanto ai quadri usciti dai nuovi istituti agrari o rientrati da quelli stranieri, dà un contributo volontario la comunità locale e lavorano i giovani impegnati nella parte civile del servizio militare. Se da noi militari-robocop ci puntano i mitragliatori a ogni angolo di strada e a ogni stazione di metro o treno, lì i 18 mesi di servizio obbligatorio diventano in massima parte contributo alla società.  

 
Soldati del popolo

Nel Grand Guignol con il quale i media del mai rassegnato colonialismo occidentale rappresentano questo fiero e indipendente paese (sul modello Iraq, Libia, Siria, Venezuela, Egitto…) che, nonostante tutte le difficoltà e le malevolenze, ha il difetto, imperdonabile nell’era del neoliberismo, di camminare sulle proprie gambe senza chiedere niente a nessuno e senza indebitarsi con gli antropofaghi, la leggenda di un servizio militare senza fine, praticamente una forma di lavoro forzato a vita, riveste il ruolo del cattivo più cattivo di tutti. Oggi nessuno deve fare più di quei 18 mesi.

Ma dovrà essere pronto a difendere la patria nel caso che gli Usa, l’Occidente, decidano di rilanciare per l’ennesima volta il vassallo etiopico all’assalto dell’ex-colonia.

Le ripetute aggressioni belliche di Addis Abeba sul finire del secolo scorso, la continuata occupazione di territorio riconosciuto dalla normativa internazionale all’Eritrea, le ricorrenti minacce del regime etiopico di rinnovare l’attacco, hanno costretto alcuni della  generazione passata di prolungare la ferma. Gli eritrei sono attorno ai 5 milioni, gli etiopi rasentano i 100. I primi dispongono delle armi strappate al nemico nei trent’annidi lotta. I secondi sono armati dalla Nato, dai compari del Golfo, dagli Usa a suon di centinaia di milioni di dollari.
 
Anch’io ho fatto 18 mesi di naja. Primo Reggimento Bersaglieri. Mi ci aveva portato il ricordo di Porta Pia e della fuga del papa. Un anno e mezzo a correre dietro ai carri armati,  sparacchiarsi addosso a salve, farsi angheriare da ufficiali idioti e sottufficiali zio Tom, rompersi i coglioni in esercitazioni da operetta, o nello squallore culturale di un ambiente decerebrato. Poi ancora richiamato per “aggiornamenti” (ero ufficiale), anche per via delle pessime “note personali” rimediate da un colonello comandante che interpretava le mie frequentazioni anticlassiste con i bersaglieri semplici come prova di orripilante omosessualità.

Non servivamo a niente, neanche a intervenire su una frana, un alluvione, neanche a tirare giù un gatto dalla grondaia. L’unica cosa che mi piaceva era la corsa e che ci si univa tra italiani diversi, essendo di leva, cioè di popolo, tra sfigati di classi e ambiti solitamente lontani. Positivo era anche che si imparava a sparare e a muoversi sul terreno, elementi che mi sarebbero venuti utili tra i fedayin palestinesi. Difficile mandarci in guerre criminali, o usarci per colpi di mano oligarchici. Poi, per questa bisogna, sarebbe venuto il professionismo, il mercenariato pretoriano dell’élite, specie quella Goldman Sachs, da usare in interventi umanitari in Kosovo, Iraq, Afghanistan, Somalia, nell’invasione del mare e delle coste somali fatta passare per guerra ai pirati, nelle fucilate ai pescatori indiani. Altro che Porta Pia e Lamarmora.
Se ci dovessero provare con l’Eritrea, e sicuramente qualcuno degli psicolabili nel vertice Nato ci sta pensando, questi bravi ascari Nato se la dovrebbero vedere con chi crede al proprio paese e non alla busta paga, o all’impunità. Con chi da sessant’anni ha sbaragliato o tenuto a bada chiunque provasse a rompere.


Un Corno che non ammette eccezioni
 
Nel Corno d’Africa ci sono due cattivoni e uno buono. Quello buono è l’Etiopia che da quando cacciò gli assassini di massa Badoglio e Graziani, con Haile Selassiè, Menghistu, Meles Zenawi e, ora, Hailemariam Desalegn, ne ha adottato e migliorato metodi e obiettivi. Gli oppositori, specie se studenti, specie se osano presentarsi alle elezioni, vengono buttati in carcere e fatti sparire per sempre, ai dimostranti si risponde con la mitraglia, alle minoranze (che poi capita che siano maggioranze) si sottraggono le terre, se ne cacciano gli abitanti e le si svendono a cinesi e australiani.

E’ venuto ad Addis Abeba Gianni Pitella, capogruppo dei Democratici e Socialisti tra gli eunuchi dell’europarlamento, a irrorare di euro-riconoscimenti ed euro-plausi la democrazia etiopica e a deplorare, insieme ai suoi soddisfattissimi ospitanti, la sprovveduta e pericolosissima decisione della Commissione di dare all’Eritrea 200 milioni di euro in aiuti all’agricoltura (l’Eritrea, pur sotto sanzioni micidiali, rifiuta aiuti e prestiti). Cifra del tutto spropositata rispetto al modesto contributo Usa di centinaia di milioni di dollari all’apparato militare etiopico, installato tra decine di basi militari statunitensi e israeliane e adoperato nel corso degli ultimi decenni, oltreché per la repressione interna, per ripetute guerre alla Somalia (o, meglio, ai suoi insorti anticolonialisti) e all’Eritrea.
 

Certi nostalgici
 
I primi occupanti furmmo noi, al tempo di Crispi che, nel 1890, proclamò l’Eritrea colonia italiana. Seguirono la Somalia nel 1908 e l’Etiopia nel 1935. Tutto finì nel 1941, con la cacciata per mano dei britannici. C’è ancora chi rivendica meriti alla colonizzazione italiana. In particolare per l’Eritrea si arriva a dire, di un paese con una sua distinta e connotatissima identità storica che si perde nella notte dei tempi e che andava anche al di là delle attuali dimensioni territoriali, che l’avrebbe inventata l’Italia, determinandone le linee di confine. Una sciocchezza antistorica a cui, del resto, hanno risposto tre o quattro generazioni di eritrei che si sono battute, durante trent’anni, per la ricostituzione della loro nazione.

Si attribuiscono alla dominazione coloniale italiana, profondamente razzista e di apartheid ante litteram, meriti quali quelli dell’urbanizzazione, delle eccellenze architettoniche, dello sviluppo di aziende meccaniche e agricole.

Ma si dimentica che ogni cosa fatta dagli italiani era destinata a loro esclusivo uso, costume e profitto, con gli autoctoni relegati in posizione abiettamente subordinata, da manovalanza al servizio dei padroni coloniali, di carne da cannone per guerre di sterminio in Libia ed Etiopia (gli Ascari), da prestatrici di obblighi sessuali, mascherati da matrimonio “a tempo”, con figli meticci perlopiù disconosciuti e abbandonati, una popolazione privata dei servizi elementari, con l’istruzione che non doveva superare la Quarta elementare e la segregazione in quartieri seclusi. Le grandi realizzazioni viarie e ferroviarie che attraversavano il paese erano riservate a scopi militari, o a trasporti import-export di esclusivo interesse coloniale.
 
Grande è la responsabilità dell’Italia nell’umiliazione di questo  popolo, nello sfruttamento della sua terra e nell’uso cinico delle sue giovani generazioni, per lo più ragazzi espropriati della propria terra, orfani di padri uccisi dagli italiani, rimasti privi di risorse, per le proprie guerre di conquista. Una responsabilità mai assunta e anzi appesantita dalla totale mancanza di resipiscenza ed elaborazione del proprio passato coloniale, del proprio gigantesco debito, pervicacemente mistificato sotto la formula esoneratrice degli “italiani brava gente”. Quanto a elaborazione delle proprie colpe storiche, anzi, si vadano rivedere a rivedere le sevizie di donne e uomini dei nostri baldi carabinieri al tempo di Restore Hope nella Somalia da noi e dalla Nato massacrata, la Libia rasa al suolo (e oggi in predicato per nuovi sfracelli colonialisti) dopo averne ucciso un terzo della popolazione al tempo di Mussolini, il sostegno al regime sanguinario di Addis Abeba che pare proseguire i genocidi perseguiti da Badoglio e Graziani e poi dai fantocci autoctoni dell’imperialismo, Selassiè, Menghistu, Zenawi, Desalegn…
 
Isaias Afeworki visto dagli euro-atlantici

Abominevole poi, in particolare tra i cripto-Nato che si dicono di sinistra, mosca cocchiera “il manifesto”, il del tutto stonato acuto del tenore italiota che vuole eccellere nel coro imperiale e canta le presunte sciagure e infamie dell’Eritrea. Avvoltolandosi nella coperta intrisa di colera (come quella passata ai pellerossa) dei diritti umani a firma Clinton-Obama, questi sinistri alzano il volume della demonizzazione che i frustrati spossessati da Asmara lanciano contro un paese che non ci sta e che, presto o tardi, deve essere ridotto alla ragione. Mancando qui la materia prima per una rivoluzione colorata alla NED, Usaid, Cia e Mossad, toccherà trovare l’equivalente di Al Qaida, o dell’Isis, da far esplodere tra le case degli eritrei. Gli etiopi, come sempre, sono disponibili. E quella pseudo sinistra se ne farà carico, come con Rossana Rossanda al tempo delle “brigate internazionali” contro Gheddafi, o con Tommaso Di Francesco nei giorni del missile Regeni contro l’Egitto.
 

L’Eritrea ruba il posto alla Nato

l punto è che l’Eritrea sta dove sta, cioè in un luogo che più cruciale e ambito dal punto di vista geostrategico non ce ne’è sull’intero globo terracqueo. All’imbocco del Mar Rosso, con il porto di Assab, già ambito dai genovesi della Rubattino alla fine del 19° secolo, a suo controllo con l’arcipelago delle Dahlak, allungata verso il Nord di fronte a Yemen e Arabia Saudita, a cavallo del Golfo di Aden, sentinella sullo Stretto di Bab el Mandeb che apre verso il Golfo Arabo-Persico e l’Oceano indiano. Da qui passa qualcosa come il 40% dei trasporti mondiali di petrolio, sangue del capitalismo, di merci e materie prime, piedistallo di re dollaro. Come si può consentire a un pretenzioso, impertinentemente autonomo paesuccolo “sottosviluppato” di occupare e controllare una tale chiave delle sorti del mondo? Di sottrarlo al legittimo titolare di ogni incrocio e rondò, la Nato (già installata nel calzino di Gibuti)?  

Dunque campagne di satanizzazione articolate sulle solite invenzioni propalate dalle apposite agenzie, Amnesty, HRW, Ong, dirittoumanisti assortiti e assoldati: dittatura, repressione, annientamento di ogni opposizione, torture, fughe di massa, sparizioni forzate, lavoro schiavistico. Lo scivolo indipensabile per passare alle sanzioni, ai sabotaggi, alle provocazioni, su su fino all’aggressione militare con forze surrogate e guidate da proprie teste di cuoio.
 

Eccola, la “dittatura”

Poi uno gira per il paese e non s’imbatte in altro che in vigili urbani a controllo di una gara ciclistica. Prende il caffè in città in mezzo alla gente con ministri (dell’Agricoltura, Informazione, Sanità, Energia) senza body-guard e con uno stipendio da 5000 nakfa (300 euro), pari a quello degli operai specializzati nella miniera di rame a Bisha, incontra chi gli pare che gli dice ciò che gli pare. Anche che il lavoro scarseggia e che perciò toccherà emigrare anche a lui. Senza sanzioni, magari, sarebbe potuto rimanere.

Puoi incontrare così anche Isaias, il presidente, già leader della trentennale lotta di liberazione e poi ricostruttore e ammodernatore del paese, contro tutto e contro tutti e, dunque, simbolo e garante dell’unità nazionale, padre della patria. Nel nostro emisfero si perpetuano nei decenni le dinastie, i Bush, i Clinton e, soprattutto, si perpetuano nei secoli i rappresentanti della stessa tribù, degli stessi portatori e dominatori di interessi. Ma tant’è, è Isaias Afewerki che viola la democrazia dell’alternanza.
 
Ho attraversato monti, valli, coste e rupi, deserti e città d’Eritrea, ho incontrato le donne,  i giovani, gli agricoltori, delle rispettive organizzazioni  di massa in cui si articola il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia (FPDJ). Ho parlato con chi è rientrato dall’estero e chi vi vuole emigrare. Ho scambiato tantissime chiacchiere con gente per strada, baristi, riciclatori di lamiere e plastica, studenti, insegnanti,  pittori, cineasti, poeti, esponenti di una creatività culturale e artistica che appare più ricca e fervida di  tante società del Sud Globale. Ho anche incontrato donne e uomini della diaspora, emigrati alla ricerca di opportunità che scarseggiano in patria, ma fedeli al loro paese, ansiosi di tornarvi e di impegnarvi quanto da noi hanno acquisito. Non sono riuscito a farmi denunciare la famigerata dittatura e i suoi orrori. So che ci sono richiedenti asilo politico, anche disertori come ne abbiamo visto tra i giovani siriani, ma parlano solo alle autorità, alle Ong e ai media di “tendenza”.

Del resto un’opposizione si è manifestata.

Fu dopo l’ultima guerra lanciata e persa dall’Etiopia. Una dozzina di dirigenti, con in mezzo anche l’ambasciatore italiano, brigavano con il regime di Addis Abeba, il nemico storico appena ricacciato oltre confine, e con esponenti occidentali, per far fare all’Eritrea la fine che oggi si sta prospettando al Venezuela, al Brasile, all’Argentina. Quei fautori della “normalizzazione” sono in galera.

Uno sconsolato e chiaroveggente amico di questo blog ha scritto in un commento al precedente arrticolo “Eritrea, ce ne fossero!”: “La Libia è persa, L’Ucraina è persa, il Sudamerica è perso, la Siria non sarà mai più la stessa (e così L’Iraq). L’Uccidente avanza, bombarda, distrugge, conquista…”  E poi lamenta “il tentennare, il mediare, il lisciare il pelo all’Uccidente che sbrana o si appresta a farlo con chi persegue saggezza, equilibrio, prudenza, lungimiranza che alla fine pagheranno…Siediti sulla riva del fiume e aspetta… poi arriva l’alluvione”.

L’Eritrea non è così. Mi ha mostrato di non essere così. Voglio fermamente credere che non sarà così. Nessun popolo ha lottato per trent’anni, contro i più feroci poteri del mondo, tutto insieme, cattolici, ortodossi, musulmani, animisti, nove etnie, tanti linguaggi, tante culture, quale con il piede nell’evo dei miti, quale con il passo nella contemporaneità. Nessun popolo ha affrontato e battuto ulteriori aggressioni militari, economiche, mediatiche di potenze cento volte più forti, senza, per un quarto di secolo, retrocedere di un centimetro dal destino che si è assegnato, quello dell’indipendenza vera, del contare sulle proprie forze, del non inchinarsi a nessuno.  Oggi l’Eritrea celebra le nozze d’argento con la libertà. Sono pochi, nel continente, a poterlo fare.
 
Nel  mio ritorno nel paese che, giovane di penna, avevo incontrato giovane in armi, mi ha accompagnato ora per ora, luogo per luogo, uno dei personaggi più straordinari che abbia mai incontrato.

Un intellettuale prestigioso, eritreo come nessuno e cosmopolita, un compagno rivoluzionario con cui discutere di Bob Dylan come di False Flag dell’imperialismo terrorista, di Foucault come dei depistatori radical chic, di Spoon River come di Gramsci, l’italiano marxista più amato in tutto il Sud Globale, e pour cause. Con lui ci siamo sbattuti sul fuoristrada tra i massi vulcanici dell’altopiano, a piedi nelle sabbie roventi del Barka, al caffè preparato con carbonella, spezie e incensi nel tucul che ha scoperto l’architettura bioclimatica migliaia di anni fa, al bar littorio “Impero” davanti alla tazzina di chai allo zenzero. Mi ha regalato l'Eritrea che vive, come 45 anni fa i guerriglieri del Fronte mi avevano regalato l'Eritrea che combatte.

Quest’uomo si chiama Ilias Amarè. Dedico l’articolo a lui, ma anche a tutti gli eritrei che mi hanno tenuto per mano in questo cammino. Vorrei che qualcuno gli traducesse il mio saluto, in inglese o, meglio, in tigrino.

*Pubblichiamo su gentile concessione dell'Autore.

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