L’ipocrita missione di John Kerry in Arabia Saudita

L’ipocrita missione di John Kerry in Arabia Saudita

"Ma come è possibile che sempre con i regnanti di Riad che gli Usa vanno a parlare per la “fine” della guerra in Siria?".

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Nota della redazione: traduciamo questo articolo perché è applicabilissimo all’Italia saudita di Renzi e Gentiloni…
 
di Salman Rafi Sheikh
(traduzione l'AntDiplomatico)

Malgrado il biasimo statunitense per il sostegno offerto dalla casa dei Saud al nasce e all’affermarsi di Al Qaeda e per il probabile coinvolgimento saudita nell’11 settembre, è sempre con i regnanti di Riad che gli Usa vanno a parlare per la “fine” della guerra in Siria.

Dov’è la logica? E’ vero che la guerra in Siria non può finire se non viene tagliato il sostegno che gli estremisti continuano a ricevere da Arabia saudita e alleati; ma quello che non ha affatto senso è come questo sostegno, e la guerra, possano finire visto che gli stessi Usa continuano a fornire armamenti per miliardi di dollari all’Arabia saudita; visto che il nemico reale non è la Siria, il suo regime o il suo popolo; e, più importante ancora, visto che il nuovo alleato strategico dei Saud, la Turchia, continua a bombardare una delle forze più efficaci sul terreno contro Daesh, i curdi. 
 
Qui si trova la più grande delle contraddizioni nella politica statunitense: che né può contrapporsi realmente alla casa dei Saud né può continuare, politicamente parlando, a sostenere le sue guerre confermando gli impegni militari di lungo periodo che i Saud chiedono fin dall’inizio del conflitto. Per il presidente statunitense – che ha ottenuto il premio Nobel per la pace… - questa contraddizione è troppo forte per essere superata.
 
L’ultima visita di John Kerry in Arabia saudita è stata, in questo contesto, un altro tentativo da parte degli Stati uniti di tranquillizzare l’adirato alleato prima dei colloqui di Vienna. Il tour, in sintesi, fa parte delle grandi manovre Usa nel confronto con la Russia durante i negoziati. Insomma la visita, lungi dal proporsi di farla finita con la guerra in Siria, intendeva rassicurare i Saud che gli Usa continueranno ad assisterli in tutti i modi nel loro obiettivo di arrivare a una Siria senza Assad.
 
I funzionari della Casa bianca hanno dichiarato che obiettivo della visita di Kerry era imbarcare le forse dell’opposizione per il prossimo round negoziale, ma è ironico e contraddittorio che gli Usa si distanzino dalla cosiddetta «opposizione». La questione è: la posizione degli Usa è davvero diversa da quelle di Arabia saudita, Turchia, Emirati e gruppi da questi finanziati? Se tutti hanno lottato e lottano per la rimozione di Assad, è incomprensibile e illogico collocare gli Usa nella categoria di attori «non dell’opposizione» nel conflitto. Gli Usa sono stati e sono «opposti» al governo di Assad, il che li rende assai poco diversi dalla casa dei Saud e alleati. 

Che gli Stati uniti facciano parte dell’«opposizione» in Siria è reso evidente anche quanto i loro alleati del Golfo si aspettano – un’aspettativa ormai diventata una specie di agonia politica. Diplomatici del Golfo dicono che l’Arabia saudita ritiene «inadeguato» il sostegno statunitense ai ribelli e teme che Washington possa abbandonare la posizione finora comune: Assad deve lasciare immediatamente il potere, come precondizione per i negoziati. Dunque l’«alleato chiave» degli Stati uniti nella regione ritiene gli Stati uniti parte della cosiddetta «opposizione», mentre gli Stati uniti continuano a proiettarsi come mediatori o, al massimo, leader della coalizione anti-Daesh. 

Il comunicato del Dipartimento di Stato secondo il quale Kerry e i leader sauditi hanno discusso la necessità di rafforzare la tregua e il loro sostegno alla prosecuzione dei negoziati in sede Onu era destinato unicamente al consumo da parte dell’opinione pubblica. Non riflette né l’attuale posizione Usa sulla Siria, né la natura del relativo coinvolgimento in Siria sin dall’inizio. 

Non è così difficile da capire. Se l’amministrazione statunitense si focalizzasse davvero sul raggiungimento della pace in Siria, dovrebbe far cessare immediatamente il sostegno fornito ai cosiddetti gruppi ribelli e forzare gli alleati del Golfo a fare lo stesso. Ceto, se questo avvenisse, l’esercito siriano potrebbe in breve tempo riconquistare i territori occupati dai «ribelli» grazie al sostegno straniero. 

Usa e alleati del Golfo continuano a opporsi al tentativo russo di far dichiarare «organizzazioni terroriste» tutti i gruppi del terrore presenti in Siria. Per due ragioni: primo, l’«opposizione» (gruppi terroristi e loro stati sponsor) sperano di rovesciare Assad; secondo, se i gruppi «ribelli» fossero inseriti nella lista dei gruppi terroristi, quindi al di fuori della tregua, non si darebbe alla Siria mano libera per la loro eliminazione. E se questo accadesse, Usa e alleati perderebbero i loro vitali asset sul terreno; sarebbe la sconfitta. 
 
Con Usa, Arabia saudita, Turchia (il cui sostegno a Daesh in Siria è stato di recente smascherato ancora una volta) e altri alleati del Golfo che continuano a sostenere i terroristi, l’obiettivo di portare avanti negoziati di pace è altamente ambiguo e contraddittorio. Se Usa e Arabia saudita continuano con la solfa «Assad deve andar via» è altamente improbabile che i negoziati ottengano un risultato; e se questi ultimi falliscono, la casa dei Saud e i suoi alleati ne faranno un’occasione per proseguire con i finanziamenti ai «ribelli» siriani, su una scala più ampia così da rafforzarne la fragile posizione rispetto all’esercito siriano. La grande questione è se la Russia prenderà in considerazione l’idea di rimandare le forze che ha ritirato, per affrontare il possibile rinnovato «assalto arabo».
 
Salman Rafi Sheikh, analista e ricercatore dell’International Relations and Pakistan’s foreign and domestic affairs, per la rivista online “New Eastern Outlook”.
Fonte: http://journal-neo.org/2016/05/19/on-john-kerry-s-hypocritical-mission-to-saudi-arabia/

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