Cosa sarebbe stata l'Italia se a De Gasperi avessero imposto il Trattato di Maastricht?

Cosa sarebbe stata l'Italia se a De Gasperi avessero imposto il Trattato di Maastricht?

In un modello come quello italiano di economia mista, l’ideologia neo-liberista è un corpo estraneo, un virus inoculato dall'esterno

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Di Cesare Sacchetti
 
Il periodo storico che viene spesso usato come termine di paragone per descrivere la recessione economica di questi tempi, è il secondo dopoguerra dal 1945 fino a primi anni ’50. La differenza sostanziale tra gli anni di allora e il periodo contemporaneo è che la ricostruzione oggi, non parte e non può partire per le differenti politiche economiche scelte dai governanti di allora e quelli attuali. 
 
De Gasperi e il governo vincente alle urne del 1948 puntarono a politiche di aumento della spesa pubblica e del deficit, conservando in Costituzione l’antecedente impianto interventista da parte dello Stato nei processi economici, che aveva impedito all’Italia negli anni’30 di precipitare nel baratro della crisi del’ 29. L’Istituto per la Ricostruzione Industriale, ebbe un ruolo determinante sia nel 1933, quando la sua istituzione impedì il fallimento di banche con partecipazioni nelle imprese, e fu provvidenziale nel salvataggio e nella ristrutturazione di molte aziende che sarebbero andate incontro all’inevitabile fallimento, sia nel secondo dopoguerra con una pianificazione volta anche a pianificare gli investimenti nel Mezzogiorno, stabiliti per legge a una quota del 40% degli investimenti complessivi stanziati dall’Iri sul territorio nazionale. 
 
La Costituzione ha in questo processo, un modello ideologico fondamentale di riferimento, l’economia mista. Tra i due modelli economici di riferimento dell’epoca, quello liberista con al centro il ruolo del mercato privo di regolamentazioni e come obbiettivo di realizzare lo Stato minimo di von Hayek , e il modello collettivista sovietico fondato sulla collettivizzazione delle risorse e l’abrogazione della proprietà privata, il modello economico italiano presente nella Costituzione era probabilmente il più sostenibile ed equilibrato. Non si limitavano le prerogative economiche fondamentali dei privati, liberi di realizzare l’iniziativa privata e al contempo il pubblico interesse era garantito.

L’IRI, strutturato come un gruppo polisettoriale che andava dal settore automobilistico( l’Alfa Romeo) passando per l’alimentare (Cirio) fino al siderurgico (Finsider) , come accennavamo sopra ha avuto un ruolo fondamentale nel trascinare l’Italia fuori dalle macerie della guerra, e gli investimenti dal 1948 al 1953 partirono da una media annua di 123 miliardi di lire, crescendo a 168 miliardi di lire nel 1954-1959 fino a toccare quota 512 miliardi di lire nel 1960-1965. Le infrastrutture, le ferrovie, e opere di collegamento vitali per il Paese come l’autostrada Milano – Napoli, le Autostrade del Sole, la Napoli – Bari che hanno reso l’Italia un paese moderno sono stare realizzare dall’IRI. In questa politica di investimenti, l’IRI accumulava un fatturato di 1500 miliardi nel 1962, 270000 dipendenti ed era il primo gruppo industriale europeo, ricorrendo alla casse dello Stato in minima parte poiché la maggior parte dei finanziamenti arrivavano dai mercati, tramite fondi obbligazionari. 
 
Se i governi dell’epoca avessero seguito le indicazioni e i parametri di Maastricht non sarebbe stato possibile realizzare infrastrutture, abbattere la disoccupazione e avviare la ricostruzione postbellica. Questo modello economico che consentirà all’Italia di avere la media di crescita più alta tra i paesi europei con un Pil che è cresciuto mediamente al 4,36% dal 1950 al 1990 ,sarà messo in discussione prepotentemente negli anni’ 70 quando si affaccerà sulla scena delle teorie economiche la teoria quantitativa della moneta di Milton Friedman, fondatore della scuola di Chicago. La produzione della moneta secondo questa teoria, rivelatasi erronea negli anni successivi, vuole una relazione direttamente proporzionale tra la quantità di moneta e il tasso di inflazione, quindi più moneta si avrà in circolazione più alto sarà il livello dei prezzi. 
 
Questo nuovo modello economico vede lo Stato considerato come un intruso nella regolazione dei processi economici e conseguentemente, si avvierà la stagione delle privatizzazioni, con la narrativa ricorrente dell’IRI “carrozzone” che grava sulla casse dello Stato, smentita dai dati di bilancio. Quando la presidenza dell’IRI passerà a Romano Prodi nel 1980, avrà inizio la prima stagione delle svendite delle partecipazioni statali e il ruolo dello Stato si ridurrà sempre di più, sullo sfondo la deregolamentazione dei mercati e l’avvio della stagione del più mercato (finanza) meno Stato. Il cantiere della globalizzazione che nel 1992 avrà il suo sigillo con il Trattato di Maastricht, è stato accuratamente preparato e l’opinione pubblica istruita per accettare questo cambio ideologico fondamentale. Si passa da un modello economico misto, previsto nella Costituzione repubblicana a un modello neoliberista con il dogma della concorrenza perfetta e del mercato libero che raggiunge il suo equilibrio ottimale automaticamente.
 
Nascono le authority, il potere politico perde la sua capacità di controllo dei mercati, e il trasferimento dei poteri di influenza e calmierazione dei prezzi verrà concentrato in organismi tecnici, non eletti, di cui l’opinione pubblica non conosce né l’esistenza né il funzionamento. Se il privato deve guadagnare una posizione di supremazia rispetto allo Stato e ai poteri pubblici, è necessario costruire una tecnocrazia e affidare ad essa tutti i passaggi fondamentali per rendere possibile questo epocale cambiamento. La democrazia costituzionale non prevede queste dinamiche, e si ricorre alle logiche emergenziali attentamente costruite dagli stessi tecnocrati per attuare questi cambiamenti e farli digerire alla pubblica opinione. 
 
E’ così che nel 1992 il Governo Amato, non legittimato dalle urne, darà il via alla seconda svendita delle partecipazioni statali, paventando lo spetto del default, e l’anno successivo si rinuncerà definitivamente al meccanismo di indicizzazione dei salari, la “scala mobile”, per poi passare con la riforma Ciampi del 1993 del sistema bancario italiano, partecipato fino a quel momento in larga parte dall’Iri che possedeva il Banco di Sicilia, il Banco di Sardegna, il Monte dei Paschi di Siena, l’Istituto Bancario San Paolo di Torino e la Banca Nazionale del Lavoro a cui si aggiungevano le tre banche di interesse nazionale, la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano e il Banco di Roma. 
 
Una partecipazione complessiva che raggiungeva il 67% del totale dei depositi. Un patrimonio che non poteva rimanere nelle mani del settore pubblico, ma andava consegnato ai poteri finanziari con i risultati disastrosi che stiamo vedendo ancora in questi giorni. La retorica persistente della corruzione come male assoluto , ha insufflato l’odio dell’italiano medio nei confronti della politica, portandolo ad accettare e considerare come necessario il passaggio alla tecnocrazia. Quasi sempre le riforme economiche più devastanti per i cittadini sono state varate da tecnici, come la riforma Fornero delle pensioni del 2011. Era necessario abbattere il modello economico italiano, e per farlo si è utilizzato la narrativa del vincolo esterno, che impone l’austerità sociale, dove l’uguaglianza sostanziale dell’art.3 si fa pallido miraggio e il cittadino non ha più alcuna possibilità di poter superare quegli ostacoli che sbarrano l’accesso a una piena realizzazione sociale. 
 
Un modello questo, estraneo non solo giuridicamente all’impianto costituzionale, ma soprattutto culturalmente e socialmente contrario ai principi della Dottrina Sociale Cristiana da sempre presente nella tradizione italiana. L’uomo non può essere ridotto a un parametro economico, la sua dimensione non può esternarsi solamente in una visione del profitto, dove il forte sopravvive e il debole perisce. Gli interventi dello Stato sono necessari per consentire a tutti i membri della collettività di realizzare sostanzialmente i diritti della persona. 
 
Il Presidente dell’IRI negli anni’60, Giuseppe Petrilli, scriveva: “una generale programmazione dello sviluppo economico costituisce infatti la premessa indispensabile per definire un organico indirizzo operativo del settore pubblico dell’economia”. L’ideologia neo-liberista è un corpo estraneo, un virus inoculato nel nostro ordinamento. Prima lo si espelle, e prima si guarisce.

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