Gli Stati Uniti d’America sono una repubblica federale di tipo presidenziale. Tra le prime nazioni al mondo ad adottare un sistema politico ispirato ai principi di democrazia, rappresentatività e divisione dei poteri – ma vallo a dire alle persone di colore, per non parlare dei nativi americani… - ancora oggi, parlando del livello federale, il potere è suddiviso tra il Congresso (articolato in Camera dei rappresentanti e Senato), cui spetta la funzione legislativa, le Corti giudiziarie (Suprema, di appello e distrettuali), e naturalmente la figura del Presidente degli Stati Uniti, forse quella più nota al grande pubblico, eletto ogni quattro anni, che riunisce nella sua figura il ruolo di capo dello stato e del governo, non essendo contemplata la figura del primo ministro.
Il livello federale ha competenza sono in un numero limitato di materie – per esempio politica estera, difesa o moneta – mentre tutte le restanti funzioni sono di pertinenza dei cinquanta stati che compongono la federazione.
Per quanto, nella nostra percezione, il potere presidenziale negli Stati Uniti sia visto come esteso e senza limitazioni, nella realtà le cose stanno molto diversamente. L’inquilino della Casa Bianca, in realtà, incontra una serie di limitazioni e contrappesi (check and balances), ispirato al principio del bilanciamento dei poteri, voluta dai padri fondatori per scongiurare derive autoritarie.
Ma non siamo qui per fare lezioni sul diritto costituzionale a stelle e strisce, quanto per esaminare più da vicino gli equilibri di potere reali, quelli che la Costituzione non contempla esplicitamente, ma che finiscono per esercitare un’influenza determinante nel corso politico e nelle decisioni fondamentali.
Vari termini sono stati coniati per descrivere questi assetti. Per esempio, si discute spesso di “deep state” (o stato profondo), per non parlare di chi disegna scenari più oscuri, anche se noi preferiamo attenerci ai fatti, a cominciare dal potere e dall’influenza esercitati dalle cosiddette lobby (in italiano “gruppi di pressione”), che non solo sono un dato di fatto, la cui esistenza è arcinota, ma che ricevono negli Stati Uniti, a differenza di quanto avviene in paesi come il nostro, una vera e propria regolazione a livello legislativo.
L’esistenza di questi gruppi di pressione, associati al cosiddetto stato profondo, ha sollevato più di un dubbio sulla natura realmente democratica degli Stati Uniti, e su chi comandi veramente dalle parti di Washington D.C.
Se ci consentite una premessa, la verità è che partendo dall’antica Grecia, nella quale nacque e si sviluppò il concetto stesso di democrazia, dovremmo riconoscere che parliamo di un modello politico astratto e che presenta molte sfaccettature, e che al pari di ogni costruzione teorica è destinata quasi sempre a restare sulla carta e/o ad andare incontro a molte e differenti applicazioni. Questo discorso vale per gli Stati Uniti, come per qualunque altra entità politica del passato o del presente.
Non che manchino le criticità. Nel 2021 l’Economist Intelligence Unit classificava quella statunitense come una "democrazia imperfetta", il che riprende e conferma quanto detto: il modello perfetto non esiste, e probabilmente non esisterà mai, tanto vale farsene una ragione. Probabilmente coglieva nel segno il vecchio Winston Churchill, quando diceva che “… la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora.”
Se uno dei cardini della democrazia dovrebbe essere il fatto che le principali istituzioni siano espressione della volontà popolare (cd. rappresentatività), allora dovremmo dedurne che gli Stati Uniti - sia a livello federale, che locale - rispecchino tale regola, visto che perfino molte autorità giudiziarie, secondo una prassi decisamente distante dalla nostra, al pari delle principali istituzioni, sono elettive.
Il problema è che questo dato da solo non è sufficiente, né a garantire l’effettività del principio della sovranità popolare, né tantomeno ad assicurare la democraticità del sistema. Come ricordava qualche tempo fa Dario Fabbri, anche nei regimi più dispotici e illiberali possono essere previste procedure elettorali, senza per questo fare di quei paesi delle democrazie.
A parte l’ovvio requisito della pluralità degli attori politici, sarebbe difficile sostenere che negli Stati Uniti il diritto di voto sia propriamente garantito a tutti, non da sempre per lo meno. Pensiamo solo alla lotta degli uomini e donne di colore per il diritto di voto e una cittadinanza attiva, che se oggi appare superato, in realtà non ha tolto di mezzo tutte le discriminazioni, a cominciare da quelle legate allo status sociale e al censo. Abituati a essere automaticamente iscritti alle liste elettorali quando si raggiunge la maggiore età, molti ignorano che negli Stati Uniti per poter votare è necessario effettuare un’apposita “registrazione”. In pratica, chiunque desideri partecipare alle operazioni elettorali, o assumere ruoli di rappresentanza all’interno di una forza politica, deve effettuare tale registrazione presso appositi uffici, dichiarando in quel momento l’affiliazione a un certo partito politico o la status di indipendente.
A chi storcesse il naso, invocando la segretezza del voto ci sentiremmo di tranquillizzarlo: la dichiarazione non è assolutamente vincolante, e il singolo cittadino è liberissimo di votare per altri partiti o candidati; lo stesso discorso vale per le primarie, le procedure di scelta dei candidati ufficiali (quella che negli Stati Uniti chiamano “nomination”), così come un elettore, per quanto nei fatti non succeda mai, potrebbe partecipare alle primarie di diversi candidati, tra loro in competizione.
Il vero problema non sono questi aspetti, ma semmai il fatto che la procedura di registrazione, per quanto non particolarmente complicata, crei problemi ai cittadini meno abbienti e meno informati, che così finiscono nei fatti per essere esclusi dal voto, fenomeno che contribuisce a spiegare l’astensionismo, che negli ultimi tempi – sia pur per ragioni diverse - stiamo sperimentando anche alle nostre latitudini.
Una differenza importante tra le democrazie intese in senso europeo e quella statunitense risiede anche nell’idea e nella funzione attribuita ai partiti politici. Come noto, il sistema americano è un tipico esempio di bipartitismo, non nel senso che non esista una pluralità di forze politiche, ma che nei fatti a contendersi le cariche più importanti siano nella quasi totalità dei casi – forse con l’interessante e parziale eccezione delle presidenziali del 1992, con la figura dell’indipendente Ross Perot – le due grandi compagini. Il partito repubblicano, di orientamento conservatore e tradizionalista, e quello democratico, che potremmo definire – con tutti i distinguo del caso – una forza politica di centro e progressista.
I due maggiori partiti non hanno una struttura centralizzata assimilabile a quelle europee o di altre nazioni. Esistono degli organismi di vertice, che prendono il nome di comitati - il Republican National Committee e il Democratic National Committee – di regola composti delle personalità politiche più rilevanti (compresi alcuni ex presidenti) ed esponenti dei singoli stati dove il partito raccoglie i maggiori consensi, ma non sono chiamati ad elaborare una piattaforma politica unitaria e/o un programma ben definito. Il loro scopo è tutt’altro, vale a dire raccogliere voti e consensi intorno al candidato, invece che su uno specifico programma, il che fa emergere uno dei caratteri fondanti del funzionamento della competizione elettorale negli States: il personalismo e l’individualismo. L’altra grande componente sono i finanziamenti, sui quali il ruolo dei comitati è basilare, ma su quello torneremo a breve.
Essendo il focus incentrato sulla persona, piuttosto che sul partito, è chiaro che sono la personalità e il carisma del candidato a fare veramente la differenza; il tutto senza dimenticare l’esistenza di una radicata tradizione politica in alcuni stati, nei quali il voto viene da sempre convogliato su uno dei due partiti (per esempio la California è un feudo democratico, il Texas repubblicano), ragion per cui la vera battaglia, specie per le presidenziali, si gioca su quegli stati (cosiddetti swing states) nei quali la partita è aperta, e che spesso si trasformano nel classico ago della bilancia. Ricordiamo che l’elezione presidenziale negli USA è di secondo grado: i cittadini dei singoli stati esprimono un certo numero di grandi elettori, che a loro volta votano per il nuovo inquilino della Casa Bianca; il voto è maggioritario, per cui chi ottiene più voti nel singolo stato, si aggiudica tutti i grandi elettori in palio. Il meccanismo spiega per quale ragione non sempre il candidato che ottiene il maggior numero dei voti popolari, risulti poi il vincitore. Pochi ricordano che se nessun candidato ottenesse la maggioranza assoluta dei voti dei grandi elettori, la scelta spetterebbe al Congresso: è accaduto una sola volta nella storia, nel 1824 quando fu il Congresso, e precisamente la Camera, ad eleggere il nuovo inquilino della Casa Bianca, nella persona del democratico-repubblicano John Quincy Adams.
Il fatto che finisca per contare di più la personalità e/o l’estrazione del candidato spiega anche un altro fatto, che dalle nostre parti sarebbe arduo immaginare, cioè che la nomination vada appannaggio di un soggetto che sia del tutto estraneo, o addirittura avversato, dalla nomenklatura di partito. Il caso di Donald Trump, in questo senso, è emblematico, che per quanto giudicato da tanti, all’interno del suo stesso partito (specie nel 2016) una personalità discussa e controversa, è stato giudicato in grado di fare breccia nell’elettorato e portare consensi. Per assurdo, per quanto non sia mai accaduto nella storia delle presidenziali, potrebbe succedere che un candidato, una volta eletto, possa lasciare il partito, senza per questo dover rinunciare all’incarico.
Abbiamo accennato prima ai finanziamenti elettorali, imprescindibili per chi abbia ambizioni politiche importanti negli Stati Uniti, figuriamoci per chi punti alla Casa Bianca. Su questo versante, assieme alla personalità del candidato, assume una valenza decisiva il ruolo di un altro tipo di Comitati, quelli di azione politica (Political Action Committee o PAC).
Ne esistono migliaia negli Stati Uniti, naturalmente con maggior o minore peso. Le leggi non pongono limitazioni all’ammontare delle somme raccolte, e per ipotesi il denaro può andare appannaggio anche del singolo candidato, e non del partito. E una campagna elettorale, specie per le presidenziali, negli Stati Uniti può costare centinaia di milioni di dollari, se non miliardi, e ovviamente – e qui verremo al secondo punto – non si erogano certe cifre senza una contropartita, ma in favore del candidato che, si presume, sosterrà gli interessi in linea con quelli di chi paga.
E con questo torniamo alle famose lobby, delle quali i Comitati di azione politica sono spesso espressione e la longa manus. Tali gruppi di pressione finiscono per avere un’influenza determinante sul voto, specie nelle realtà più contese (vedi i famosi swing states), e spesso più e meglio dei partiti politici (che ovviamente ne vengono a loro volta condizionati) sono in grado di intercettare i bisogni dei cosiddetti stakeholders, che non di rado trovano più utile a rivolgersi a loro per portare avanti le proprie istanze (chiaramente non ci stiamo riferendo al comune cittadino, ma alla gente “che conta”).
Unendo tutti i puntini, a questo punto non sarà difficile capire che negli Stati Uniti – a causa del personalismo della contesa politica e dell’inesistenza di strutture partitiche in senso tradizionale - cui va aggiunto il fatto che spesso le grandi masse, dissuase dei problemi della vita quotidiana e/o dalla condizione di emarginazione, in cui vivono circa 40 milioni di cittadini, si disinteressano della politica, a contare di più, e a fare veramente la differenza, sono i famosi gruppi di pressione, e per essere più precisi le ristrette élite che le manovrano, e che decidono se o a chi dare il supporto (e i finanziamenti). In questo modo, le lobby maturano dei “crediti” nei riguardi del candidato eletto, da esigere una volta concluse le operazioni elettorali. Forse è superfluo ribadire che parliamo di interessi minoritari, che poco o nulla hanno a che spartire con quelli della cittadinanza comune, che reagisce – forse non a caso, e secondo dinamiche che probabilmente non dispiacciono più di tanto alle famose élite – distaccandosi dal dibattito politico, o partecipando al voto senza troppa convinzione.
Un altro aspetto interessante della politica statunitense è l’affermarsi, in carenza di forze politiche strutturate attorno a un programma ben definito, di alcune dinastie che ruotano attorno alla politica, comuni ad entrambi i due partiti: pensiamo ai Kennedy ai Bush, o ai Clinton, che finiscono per ritagliarsi un ruolo che va ben oltre il mandato politico rivestito in alcune fasi della recente storia politica, divenendo il punto di riferimento per molti degli interessi che dicevamo.
In definitiva, negli Stati Uniti più che di democrazia, sarebbe probabilmente più corretto parlare di oligarchia, che ruota intorno a interessi e cerchie molto circoscritte, che perseguono il fine ultimo di serbare una fetta di consensi sufficiente a garantirsi la permanenza al potere, che salvaguardi gli interessi di cui sono espressione.
Immaginando, in uno scenario non molto distante dalla realtà, questa esigua minoranza di ricchi e potenti, potrebbe venire alla mente il paragone con le antiche dinastie regnanti contro le quali, a suo tempo, le antiche colonie si erano rivoltate, sulla scia del famoso slogan “no taxation, without rappresentation”.
Se all’epoca fu l’imposta sul the a scatenare la ribellione, oggi potrebbero farlo una serie di problematiche – che già abbiamo evidenziato parlando delle cosiddette faglie americane – che restituiscono il quadro di una società sempre più polarizzata, che vede un preoccupante allargamento della forbice tra i grandi ricchi e il cittadino comune, la progressiva erosione della classe media, e soprattutto la percezione dell’indifferenza della politica, in altre faccende affaccendata, per le ragioni di cui abbiamo dato conto.
A riprova di quanto detto, ricorderemo un semplice dato di fatto: oltre la metà dei congressisti sono miliardari, in molti casi titolari delle quote azionarie di quelle multinazionali, in funzione dei cui interessi vengono prese molte decisioni. E visto e considerato che parliamo della maggiore potenza mondiale, molte di quelle scelte finiscono per impattare ben al di là e la di fuori dei confini nazionali. E quando si parla di colossi come la lobby ebraica, quella farmaceutica, o di giganti del mondo finanziario, come Black Rock, che detiene interessi e partecipazioni in tutte le maggiori aziende del cosiddetto Occidente, il quadro si fa ancora più nitido.
Il punto sta proprio in questo. La priorità politica, sempre più smarcata, viene data ai settori dell’alta finanza, delle tecnologie e del complesso militare industriale – a suo tempo denunziato dal presidente uscente Dwight Eisenhower – che si traducono un un’esclusione della maggioranza della popolazione. Si ha la sensazione che molti dei progressi sociali, maturati dal New Deal di Franklin Delano Roosevelt in poi, e specie nel dopoguerra – pensiamo ai diritti civili e del lavoro, alla garanzia dell’istruzione e di migliori standard di vita – stiano subendo negli ultimi decenni, più o meno dalla fine della guerra fredda in avanti, un progressivo arretramento, per lasciare spazio a una sorta di neofeudalesimo.
Un sintomo del malessere può arrivare anche dalla disaffezione verso la carriera militare, da sempre punto di riferimento per i sogni di ascesa sociale delle classi meno agiate, al pari della diffusione di droghe, sintomo di un disagio sociale e di una scarsa aspettativa per il futuro, fenomeni che – elemento assai preoccupante – colpiscono soprattutto i giovani.
Il guaio è che nel momento in cui la politica sta pensando ad altro, di questi (e tanti altri) problemi chi si farà carico?
FONTI
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Storia degli Stati Uniti, di Giovanni Borgognone (Feltrinelli, 2021)
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it.insideover.com/politica/la-strana-coppia-liz-cheney-kamala-harris-neocon-e-dem-alleati-contro-trump.html
di Alessandro Orsini* Risposta, molto rispettosa, a Liliana Segre. Il dibattito sul genocidio a Gaza, reale o presunto che sia, non può prescindere dalle scienze sociali. Nel suo...
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