Afrin, il grande player della regione è la Turchia. E ora se ne accorgono tutti

Afrin, il grande player della regione è la Turchia. E ora se ne accorgono tutti

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di Fabrizio Chevron

 
L’offensiva turca in Afrin è giunta ad accerchiare quasi totalmente la città capoluogo del cantone. Le centinaia di migliaia di abitanti della regione, molti dei quali fuggiti da altre zone della Siria dall’ISIS e dalla furia delle sigle islamiste, rischiano di trovarsi intrappolati.



Ultima notizia è che i soldati regolari russi e siriani stanziati a Tell Rifaat hanno lasciato l’avamposto e il cantone. La loro presenza era ormai solamente simbolica, ma è segnale che un accordo politico fra Afrin, Damasco, Ankara e Mosca non è stato trovato, e che le migliaia di milizie YPG (Unità di Protezione Popolare, curde) e NDF (Forze di Difesa Nazionale, leali al Governo di Damasco) dovranno fronteggiare da sole l’assalto finale della Turchia e della sua armata di miliziani islamisti / jihadisti.
 


Gli alti comandi curdi hanno cominciato ad accusare Bashar al-Assad e Vladimir Putin di tradimento, indicando nella Russia la ragione per cui non si è giunti a un accordo fra le parti. Facendo una rapida e frettolosa analisi può sembrare così, ma in realtà è una conclusione superficiale.
 
La realtà dei fatti è che la Siria e la Russia non hanno gli strumenti adatti a contenere l’attivismo turco ma possono semmai assecondare Erdogan e sperare che sia lui stesso a darsi un limite. L’invio dell’esercito regolare siriano in Afrin non avrebbe solamente sguarnito altre posizioni nel paese, ma sarebbe probabilmente stato inutile

Le truppe siriane non hanno le capacità per fronteggiare quelle turche, come non hanno i mezzi, terrestri ed aerei. I comandi russi, ovviamente, non hanno interesse a sfidare un paese membro della NATO.

Inoltre, il rischio di indisporre Erdogan è molto alto. L’Esercito turco ha negli ultimi mesi creato diversi punti d’osservazione nella sacca ribelle islamista incastrata fra i governatorati di Hama, Idlib e Aleppo. Sempre a questi ribelli la Turchia ha ridotto, d’accordo con la Russia e l’Iran e nell’ottica degli accordi di Astana, il sostegno che per lungo tempo ha fornito. Un sostegno diretto alle YPG da parte di Assad potrebbe portare alla rottura del tavolo di Astana, con conseguente pesante riarmo delle sigle islamiste.

Un’eventualità che sarebbe non solo disastrosa per il governo di Assad, ma anche per la Russia. Putin ha annunciato nel mese di Dicembre l’inizio di un parziale ritiro delle truppe russe sul suolo siriano, segnale che per il Cremlino è giunto il momento di chiudere la partita. Una crisi con la Turchia renderebbe le cose ancora più complicate. La collaborazione con la Turchia sulla Siria è inoltre un tassello di un progetto più grande del Cremlino, che è quello di “sganciare” progressivamente Ankara dall’Occidente e dalla NATO.

A questo proposito va ricordato l’importante accordo sulla vendita alla Turchia del sistema di difesa aerea russo S400. Vanno poi citati anche gli affari energetici come la costruzione del gasdotto Turkish Stream, la quale procede spedita dopo la sospensione del progetto causata dall’abbattimento del caccia SU24 russo dall'aeronautica turca nel 2015.



Un’ultima riflessione va fatta su un terzo attore, le cui responsabilità vengono solitamente poco evidenziate dai media internazionali. È la scelta statunitense di affidarsi alla dirigenza siriana del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan, organizzazione politica e paramilitare curda) per la lotta all’ISIS e per l’amministrazione del Rojava ad aver mandato su tutte le furie Erdogan.

Per la Turchia è inaccettabile che gli statunitensi si siano affidati a quello che ritiene un nemico giurato e niente di più che un’organizzazione terroristica. Ciò che ha portato alla degenerazione della situazione sono stati infatti i rumors su una presunta guardia di frontiera curdo-siriana in fase di addestramento, da parte degli Stati Uniti.



È quindi abbastanza chiaro che Assad e Putin sono i facili capri espiatori, mentre la vera responsabilità cade sugli americani e le loro solite, discutibili, scelte in Medio Oriente.

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