Cento anni del PCI: dalla “svolta di Salerno” alla “via italiana al socialismo”

Cento anni del PCI: dalla “svolta di Salerno” alla “via italiana al socialismo”

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dallo speciale di Cumpanis del 100esimo del PCd'I

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di Alberto Lombardo

Un dramma che si rispetti si svolge sempre in tre atti. Nel primo atto i personaggi cominciano a muoversi in uno scenario ancora nebuloso; già c’è un primo intervento del deus ex machina che però non è chiaro quale delle due parti appoggi; lo spettatore propende ora per l’uno, ora per l’altro, perché riconosce in ciascuno di essi delle ragioni che contengono una parte di verità, anche se le rispettive ragioni possono sovrapporsi o addirittura contrapporsi; ma ciò non lo preoccupa: è la vita che si presenta così, egli attende insieme fiducioso e preoccupato il secondo atto. Nel secondo atto i contrasti si acuiscono, i personaggi cominciano ad assumere caratteristiche sempre meno personali e sempre più universali, c’è il secondo intervento del deus ex machina che sposta decisamente il peso della bilancia verso una delle due parti; lo stesso spettatore si sente trascinato a simpatizzare per quella; ma il personaggio che sembra soccombere, in realtà, non viene sconfitto, ma arretra semplicemente, si ritaglia un suo spazio nel quale l’altro lo lascia sopravvivere – o per ingenuità, o nella speranza che il conflitto verrà prima o poi a ricomporsi su un piano superiore. Nel terzo atto avviene la catastrofe; improvvisamente cambia lo scenario: il deus ex machina ha cambiato volto, ora è un nuovo dio che sostiene il personaggio che il primo avversava, il personaggio che nel secondo atto sembrava che avesse preso il sopravvento con la ragionevolezza delle proprie posizioni viene ora improvvisamente abbattuto da una manovra codarda dell’altro che ora emerge come il vincitore incontrastato al quale si inchinano anche i più recalcitranti tra gli altri personaggi, visto il trattamento subìto dalla sua vittima. Il dramma si chiude amaramente. Abbiamo la ferma sensazione che abbia vinto il cattivo, che il buono sia stato travolto – non sappiamo dire se a causa della sua ingenuità, dalla perfidia altrui, forse anche della giustezza delle sue posizioni che non potevano trionfare … perché questo è un dramma e non una commedia e se i drammi non finiscono male che drammi sono?

Svolgeremo la nostra analisi concentrandoci sugli aspetti ideologici riguardanti la concezione dello Stato che si ritrovano nei dibattiti avvenuti in tre momenti salienti della vita politica del Partito Comunista Italiano dal 1944 al 1956. Premettiamo che non sappiamo se questa analisi sia già stata fatta da altri in questi termini perché sono argomenti su cui si sono versati fiumi di inchiostro. In ogni caso abbiamo l’ardire di offrirla alla riflessione e alla critica dei compagni.

 

 

 

1. La “svolta di Salerno”

 

Premessa storica (non necessaria per chi conosce la situazione del momento, ma indispensabile per chi non l’avesse sufficientemente presente).

1944. L’Italia è divisa in due. La parte meridionale è liberata dagli Alleati. Il re è fuggito da Roma che è ancora occupata dai Tedeschi, insieme a tutta l’Alta Italia. Nel Meridione si istaura il governo Badoglio. Esso non è riconosciuto dagli Alleati angloamericani presenti in Italia, né dall’URSS; tuttavia i primi hanno con esso contatti continui, mentre la seconda ne è tagliata fuori. Il CLN – il Comitato di Liberazione Nazionale, che raccoglie i principali partiti antifascisti e conduce la resistenza nella parte ancora occupata – cerca una trattativa, ponendo due pregiudiziali per arrivare a un governo di coalizione nazionale a cui possano partecipare tutte le forze antifasciste: l’abdicazione del re e l’affidamento del governo a un altro personaggio, meno compromesso col passato fascista rispetto a Badoglio. Entrambe le condizioni vengono respinte dal re e quindi da Badoglio. La situazione al sud è bloccata su questo punto, ciò impedisce di avviare una seria cobelligeranza con gli Alleati. Nella parte occupata, invece, la situazione non è affatto bloccata; i partigiani conducono azioni molto importanti contro l’esercito nazista e i fiancheggiatori fascisti, anche se i rapporti con gli alleati sono contrastati: gli aiuti alle formazioni partigiane arrivano col contagocce e non viene celato un disprezzo e un aperto svilimento da parte delle autorità alleate, soprattutto britanniche, che temono il contenuto sociale che la Resistenza contiene. A questo punto al sud lo scenario cambia. Il 14 marzo l’URSS riconosce il governo Badoglio e scavalca gli Alleati, il problema dell’assetto costituzionale (monarchia o repubblica) viene demandato a dopo la fine della guerra e si richiede l’ingresso dei partiti del CLN nel governo. Togliatti sbarca a Napoli nel pomeriggio del 27 marzo e partecipa al consiglio nazionale del partito il 29 marzo. Il 30 marzo l’Isvestia pubblica un lungo ed acuto articolo sulla situazione italiana. In questo articolo si parla della situazione politica bloccata, della impossibilità di unificare le forze antifasciste nella comune lotta contro l’occupante, della necessità per l’URSS di avere contatti diretti col governo alla pari degli altri Alleati, dell’atteggiamento irrispettoso e perfino ostile che il governo inglese ha manifestato anche con atti militari contro la Resistenza. Le obiezioni degli altri partiti antifascisti, che si erano sentiti scavalcati dall’iniziativa comunista, vengono superate e il 24 aprile 1944 nasce il secondo governo Badoglio con la partecipazione dei sei partiti del CLN, tra cui il PCI.

La mossa poteva avere due conseguenze, considerando l’ostilità degli Alleati non contro il re e Badoglio ma contro una loro reale partecipazione alla guerra e l’ostilità verso la Resistenza: la prima, sfavorevole per la Resistenza, di ingabbiare l’attività partigiana sotto l’egemonia monarchica e quindi in ultima analisi degli Alleati; la seconda, invece favorevole, di sottrarre dall’immobilismo le forze monarchiche nei confronti della guerra antinazista sia al sud che al nord, di rendere protagonista il CLN anche al sud, dove invece esso era completamente assente, di sottrarre alla Gran Bretagna la carta monarchica contro la Resistenza. Sarebbero state le forze in campo a dire quale posizione avrebbe vinto. In ogni caso non si può dire che la mossa sovietica – certo spregiudicata – fosse una mossa opportunista, volta a minare l’attività del CLN in favore di una politica di potenza puramente diplomatica.

Vediamo quali furono gli effetti dento il PCI di questa svolta. Dalla Direzione del partito a Roma arriva ai compagni di Milano una nota nella quale si informa della discussione in Direzione:

«2. La direzione del partito per la zona occupata approva all’unanimità la nuova politica… ma nella valutazione del suo valore e significato, sia in relazione alla politica precedentemente seguita, sia per se stessa, per gli sviluppi che ne possono conseguire, due opposte posizioni si sono manifestate. L’una ritiene che essa sia sostanzialmente in contrasto con la linea politica fin qui adottata dal partito e riveli un errore di principio e ideologico, nei concetti fondamentali che l’hanno fin qui ispirata; l’altra nega valore e significato ideologico tra la nuova e la vecchia politica e quindi che i concetti fondamentali che hanno guidato la politica del partito siano stati viziati da errori di principio. Inoltre l’una sostiene che l’attuale mutamento di politica investa la sostanza stessa della linea politica del partito e rappresenti una “svolta” a lunga portata; l’altra afferma invece che trattasi essenzialmente di un mutamento di tattica giustificato dalle nuove condizioni di fatto (situazione venutasi e creare), maturato nella situazione nazionale e internazionale e che pertanto non tocca la sostanza della line politica del partito.

3. In tali opposte posizioni nella interpretazione e valutazione della nuova politica sono derivati due opposti atteggiamenti pratici. Gli uni ritengono necessaria per una giusta comprensione della nuova politica un’autocritica sul piano ideologico che riconosca e dichiari la erroneità di principio della linea politica derivante da un’errata concezione della “questione nazionale”, della “democrazia” e conseguentemente del “fronte nazionale” e quell’errore corregga con una nuova impostazione di principio di tale questione; gli altri negano l’autocritica ideologica e di principio, ammettono l’autocritica sui modi della realizzazione pratica e loro eventuali insufficienze e deficienza, e spiegano la politica attuale del partito con l’obiettiva situazione di fatto e le nuove condizioni in essa maturate». (in P. Secchia, 1973 Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 397-8)

Alla prima posizione appartengono Giorgio Amendola, Gino Negarville e Giulio Novella.

Giorgio [Amendola]. «Dal momento dell’invasione tedesca in poi tutta la nostra politica è stata sbagliata. Alla sua base c’è un errore ideologico, di principio; c’è un falso concetto della funzione nazionale del partito. … Invece di porre il problema dell’unione nazionale si afferma il principio dell’unione attorno il partito comunista». (Op. cit., p. 398)

Alla seconda Scoccimarro, Longo, Secchia, Li Causi.

Mauro [Scoccimarro] «Mi limiterò per ora ad indicare l’errore di quei compagni in tali questioni. Nella questione nazionale: si trascura o sottovaluta la lotta di classe. Nella democrazia: si trascura o sottovaluta la diversità di rapporti di classe e di contenuto possibile entro i limiti della democrazia borghese. Nel fronte nazionale: si trascura o sottovaluta l’articolazione di classe del movimento nazionale; cioè la distinzione tra rapporti politici con forme fiancheggiatrici ed oscillanti accessibili saltuariamente a accordi parziali, e rapporti politici con forze capaci di continuità d’azione e di un programma comune; ed in seno a queste posizioni e funzione delle diverse classi sociali». (Op. cit., p. 403).

«Noi non eravamo per il ritorno della democrazia borghese tout-court e non potevamo rinunciare ad operare e a batterci perché la classe operaia e le classi lavoratrici potessero esercitare una funzione dirigente nel corso della resistenza e nel rinnovamento dell’Italia all’indomani della guerra. (Scoccimarro, Longo, Secchia, Li Causi) responsabili di avere fatto deviare il partito». (Op. Cit. p. 399).

«Non si tratta di rinunciare ai programmi e al raggiungimento di più avanzati obiettivi politici e sociali, si tratta di rendersi conto che ogni strato sociale, ogni corrente politica, ogni partito conterà domani ella misura che avrà contribuito oggi a liberare l’Italia dall’odiato straniero e dal fascismo.

È attraverso a questa lotta che il popolo italiano si assicurerà gli strumenti del governo di domani, perché è nel corso della lotta stessa che si creeranno le nuove forme della vita democratica di domani e cioè di una democrazia progressiva, aperta a tutte le conquiste». (La nostra lotta, maggio 1944, n. 9, pp. 7-8, in P. Secchia, Op. Cit. p. 426)

Non ci limitammo ad accettare supinamente la “svolta” di Salerno, ma, nel momento stesso in cui si formava insieme a Badoglio un governo di unità nazionale, noi ponemmo con più forza e con maggiore chiarezza di prima la necessità di creare dei CLN che non fossero soltanto coalizioni di partiti, ma rappresentassero le larghe masse lavoratrici, ponemmo il problema di creare dei CLN periferici, quali organi di potere della nuova democrazia, della “democrazia progressiva aperta a tutte le conquiste”.

La situazione nel Nord era tale che gli stessi socialisti e azionisti non poterono assumere e non assunsero l’atteggiamento preso dai loro compagni a Roma e difatti il CLNAI diede la sua adesione alla “svolta” politica del Sud.

Anche dopo la “svolta” di Napoli e di Salerno, se più grande fu lo sforzo unitario, non venne mai meno la nostra attenzione sulla direzione da imprimere al movimento, all’obiettivo: lotta per una democrazia progressiva. Valga per tutte la posizione che assumemmo per fare dei CLN degli organismi rappresentativi delle masse e degli organi di potere... Guai se in quei giorni ci fossimo lasciati invischiare dal feticismo dell’unità e se per timore di urtare questo o quest’altro personaggio o gruppo politico avessimo capitolato di fronte a coloro che manovravano per impedire l’insurrezione!

Infine non risponde a verità l’affermazione fatta da diverse parti che noi dopo la “svolta” di Napoli, per le esigenze della lotta unitaria, accantonammo le istanze sindacali, le rivendicazioni economiche e sociali.

Non accantonammo mai la lotta di classe, gli scioperi si susseguirono sino all’ultimo. Certo vi era un interesse generale della nazione col quale dovevano essere coordinati gli interessi particolari, ma noi comunisti non ritenemmo mai che gli interessi della classe operaia fossero in contrasto con quelli nazionali. Al contrario, la lotta di classe potenziava la lotta di liberazione nazionale. Riuscimmo a fare accettare dal CLNAI il principio, ma soprattutto la pratica, dei grandi scioperi e dello sciopero generale! Sempre dall’inizio alla fine della guerra la Resistenza italiana fu caratterizzata dall’intrecciarsi della lotta armata con le lotte di massa. Tutti gli scioperi politici organizzati durante la Resistenza partivano ed avevano come base delle rivendicazioni economiche, sociali. La lotta era indirizzata contro i nazifascisti e contro i grandi industriali collaborazionisti. Le direttive in tal senso erano chiare ed esplicite. (P. Secchia, Op. Cit. p. 427-30).

Dalla lettura di questi brani emerge la netta sensazione che le due anime che si scontrano nel PCI muovessero da visioni opposte. Il primo prevede la restaurazione di una democrazia borghese nella quale comunque il ruolo dei partiti antifascisti assume una rilevanza predominante; ciò avrebbe posto le basi per i successivi avanzamenti, quindi la forza dei comunisti risiede negli ambiti istituzionali politici dove essi vengono accettati e riconosciuti. Il secondo invece non scinde questi ambiti istituzionali dagli avanzamenti sociali dal percorso politico e militare che nel frattempo si attua. La differenza tra queste due visioni può essere derubricata a meri atteggiamenti tattici. Invece la diversità tattica deriva da un atteggiamento ideologico divergente, che il secondo gruppo tentava di negare.

Il primo gruppo si accaparrò il diritto di autoproclamarsi interprete autentico della “svolta” e accusò il secondo di deviazioni ideologiche, mentre questo, per difendersi, nega il dissidio ideologico. Se di qualcosa si può addebitare ai secondi è di non aver avuto la capacità o la forza di ribaltare le accuse contro l’altro gruppo, forse per non minare l’unità del partito o anche perché questi si ammantavano dell’autorità che ad essi conferiva Togliatti e, attraverso esso, Stalin in persona. Se andiamo a ben vedere, invece, l’azione della diplomazia sovietica non entrava – né lo avrebbe potuto – in questa diatriba. Quanto a Togliatti, egli rimaneva quasi al di sopra delle parti.

Dal punto di vista della dottrina leninista non c’è dubbio che le posizioni di Amendola e gli altri non fossero assolutamente giustificabili. Non esiste la possibilità di un doppio momento, uno per la democrazia borghese e uno per il cambiamento progressivo. Né del resto questa visione poteva essere fatta risalire alle indicazioni di Mosca che arrivarono in quei momenti a tutti i centri di resistenza europei, che riguardavano solo di entrare nei governi di coalizione per non lasciare alle forze moderate la direzione della resistenza e di contrastare lì dentro la loro egemonia, non certo di diminuire l’egemonia delle forze popolari con la loro partecipazione ai governi di coalizione. E del resto, lo sviluppo degli avvenimenti in Alta Italia conferma che la politica dei comunisti fu del tutto coerente con questa seconda prospettiva.

Un ultimo commento sulla frase di Secchia «perché è nel corso della lotta stessa che si creeranno le nuove forme della vita democratica di domani e cioè di una democrazia progressiva, aperta a tutte le conquiste». Evidentemente non c’è e non ci può essere alcuna garanzia che questa lotta alla fine abbia successo – come alla fine non ha avuto – se il prosieguo della lotta non abbia assicurato continuità al perseguimento dei fini preposti. Secchia in quel momento non poteva pensare che il guasto ideologico che stava inoculandosi nel partito avrebbe preso piede fino al punto che vedremo.

Gli avvenimenti che seguirono sono istruttivi per capire come si mossero i protagonisti in campo. La pagina più dolorosa fu la mancata insurrezione di Roma prima dell’arrivo degli Alleati. In questo insuccesso pesò – per unanime analisi – non tanto la insufficiente preparazione dei partigiani a Roma città, quanto l’atteggiamento del Vaticano che di fatto impedì la rivolta popolare. Se mai ce ne fosse stato bisogno, questa era l’ennesima prova che le forze cattoliche mai sarebbero state trascinate a passi in conflitto coi desiderata del papa e che questi mai si sarebbe allontanato dal suo rigido anticomunismo in politica e comunione di interessi con gli angloamericani.

 

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