Hegel, Leo Essen intervista Vladimiro Giacché: "La contraddizione è il motore che muove il mondo"

Hegel, Leo Essen intervista Vladimiro Giacché: "La contraddizione è il motore che muove il mondo"

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Intervista di Leo Essen a Vladimiro Giacché sul suo libro “Hegel. La dialettica” (Diarkos, 2020)



 

1

Hegel non è un autore facile. Il suo pensiero è sottomesso alla stessa legge di ciò di cui è legge. Tutto ciò imprime al suo sistema una forma piuttosto contorta e difficilmente afferrabile. In più, il tempo è inteso come un fiume che mi trascina, ma sono io il fiume, una tigre che mi sbrana, ma sono io la tigre, un fuoco che mi divora, ma sono io il fuoco (Borges). Avere ragione di questo processo significa andare fino in fondo, vedere la fine, mettersi alla prova. Ma la prova non è un esperimento, un saggio o una verifica. È piuttosto un errare, costellato di difficoltà e sconfitte.

Come in un romanzo di formazione, la prova è un mettersi in cammino attraverso cui il protagonista della narrazione può, alla fine del tragitto, giungere alla conquista della verità su se stesso e sulla vita.

La sua ricerca su Hegel inizia con «Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della logica di Hegel»*, e termina con «Hegel. La dialettica». Si tratta di un cammino – e non potrebbe essere altrimenti, visto che qui in causa c’è proprio Hegel – un cammino iniziato con un libro molto tecnico, e chiuso con un libro altrettanto rigoroso, ma accessibile a un pubblico di non addetti ai lavori. Cosa ha determinato questo cambiamento di rotta, questo passaggio a una scrittura apparentemente più semplice e lineare, ma in realtà molto più sorvegliata?

 

I due libri hanno innanzitutto due destinazioni diverse. “Finalità e soggettività” era la mia tesi di perfezionamento in Normale. Si trattava di una ricerca sul significato del finalismo hegeliano condotta a partire da un’analisi degli ultimi capitoli della Scienza della logica di Hegel. Al finalismo ero arrivato da un confronto tra la filosofia della storia di Hegel e altre filosofie della storia grosso modo contemporanee (era stato l’oggetto del mio secondo colloquio in Normale). Era abbastanza naturale risalire da lì alla summa logica del pensiero hegeliano. Ovviamente, arrivato alla Scienza della logica, mi accorsi che il finalismo di Hegel aveva una portata molto più vasta della sua applicazione ai processi storici, e anche che esso era qualcosa di sostanzialmente diverso dal vitalismo a cui spesso viene accostato. La finalità è per Hegel lo strumento concettuale essenziale per spiegare la soggettività, ossia le strutture più complesse del reale: gli esseri viventi, gli esseri umani, la società e la storia, il pensiero stesso. Nel mio testo ponevo tra l’altro a confronto l’approccio di Hegel con la cibernetica, la teoria generale dei sistemi e quella – molto in voga negli anni Ottanta – dell’“autopoiesi”. Per giungere alla conclusione che gli schemi concettuali hegeliani erano tutt’altro che incompatibili con questi tentativi di comprensione del vivente e più in generale dei sistemi complessi.

Il mio ultimo libro, “Hegel. La dialettica”, non è un testo di ricerca, ma una vera e propria introduzione a Hegel. Il suo obiettivo è quello di avvicinare il lettore (lo studente delle superiori, lo studente universitario, ma anche la persona che per curiosità intellettuale voglia capire il pensiero di Hegel) alla filosofia hegeliana. Per questo il linguaggio adoperato è il più possibile semplice. Lo sviluppo del pensiero di Hegel è seguito ripercorrendo i contenuti delle sue opere e delle sue lezioni, per poi offrire una sintesi, nel capitolo che chiude la prima parte del volume (“Pensare con Hegel”), dei caratteri generali della filosofia hegeliana, del significato di “dialettica” e “contraddizione” in Hegel, e infine presentare alcuni usi successivi del suo pensiero (in qualche caso piuttosto sorprendenti). Questa parte del libro è seguita da una seconda, che contiene alcune pagine particolarmente significative tratte dalle opere di Hegel e da testi critici su questo pensatore.

Detto questo, trovo molto pertinente il riferimento ai romanzi di formazione contenuto nella domanda, a proposito di quel “mettersi in cammino attraverso cui il protagonista della narrazione può, alla fine del tragitto, giungere alla conquista della verità su se stesso e sulla vita”. In effetti, Hegel intendeva la filosofia, e più precisamente il proprio sistema filosofico, proprio in questo modo. Durante questo percorso il soggetto acquisisce una sempre maggiore consapevolezza su stesso nel  momento stesso in cui scopre il mondo: arricchimento del soggetto e comprensione concettua dell’oggetto, nel percorso filosofico tracciato da Hegel, finiscono in ultima analisi per procedere in parallelo: è così nella Fenomenologia dello spirito, ed è così nella Scienza della logica. Questo è un aspetto che la filosofia successiva abbandonerà, ma che rappresenta un grande motivo di fascino della filosofia hegeliana.

Il cenno della domanda al romanzo di formazione però mi ha colpito anche per un altro motivo, più personale: con questa introduzione a Hegel ho voluto anche trarre un bilancio del mio personale rapporto con questo pensatore, a trent’anni di distanza dal quel primo. Per questo la stesura di questo volume è stata molto più lunga - e anche molto più coinvolgente - del previsto.

 

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Hegel rivaluta l’illuminismo, senza rinunciare a quegli elementi sui quali la cultura romantica aveva puntato l'attenzione: i contrasti tra le cose, l'elemento oscuro e negativo della realtà. Del romanticismo, invece, rifiuta la pretesa di poter raggiungere l'Assoluto immediatamente, come con «un colpo di pistola».

 

Sì, Hegel non crede che l’assoluto si possa attingere attraverso l’intuizione, in modo immediato. Non ama queste scorciatoie, ritiene che il prezzo della conoscenza sia sempre “la fatica del concetto”. E l’immediatezza che conta è per lui quella non contrapposta alla mediazione, ma quella che ha precisamente la mediazione sé quale presupposto. Ogni immediatezza è anche un divenuto, qualcosa che ha una storia dietro di sé – anche quando la dimentica. Anche i gesti più automatici che compiamo disinvoltamente e senza pensarci, ingranare la marcia di un’automobile per esempio, hanno dietro di sé un periodo in cui venivano imparati e richiedevano attenzione. Questo è vero più in generale per la cultura. In Hegel è sempre molto forte questa idea di Bildung, di costruzione del sé. Anche per questo egli ritiene mistificatorio il richiamo a qualcosa di “originario”. All’“originario”, al fondo delle cose, all’“assoluto” ci arrivi solo alla fine.   

 

3. Non vede oggi in Italia, nell’ambiente del cosiddetto antagonismo e in certi professori in pensione, un atteggiamento paranoico, che denuncia la presenza, dietro ogni foglia, del Potere, un potere che li priverebbe della Sovranità, della Libertà, di quell'assoluto che si conquista ritirandosi dalla realtà effettiva, oppure sparando su tutto o sparandosi alle tempie?

 

L’assoluto in questo senso è un’altra variante del sapere immediato dei romantici. Un assoluto che poi facilmente, come in Max Stirner, si rovescia nel nulla. L’ossessione del Potere è però soprattutto un portato del pensiero di Foucault, molto pervasivo nei tardi anni Settanta e negli anni Ottanta. Ricordo che a Pisa uno dei miei maestri, Lorenzo Calabi, insisteva sulla funzione apologetica di questo pensiero, in effetti all’epoca declinato soprattutto in funzione antisovietica, e penso che avesse ragione. Però sarebbe riduttivo limitare a questo la portata del pensiero di Foucault: soprattutto in una fase storica come questa, in cui il tema del controllo totale è estremamente attuale. Purché sia chiaro che l’agente di questo potere totalitario non è oggi ravvisabile nello Stato, ma nelle grandi corporation (pensiamo alle grandi piattaforme digitali, ai big data e al loro utilizzo): quanto ho scritto al riguardo nel mio La fabbrica del falso (2008, 3a ed. 2016), discutendo criticamente della categoria di totalitarismo, è a mio giudizio ancora valido.

 

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Per Hegel la verità ha un carattere processuale. La verità ha una storia che non coincide con la storia della verità. Questa seconda dottrina ha gettato la sua ombra su tutta la filosofia del Novecento, dando il la a quella forma di empirismo estremo che è stato il Post-modernismo italiano (Pensiero debole), secondo cui non ci sono fatti ma solo interpretazioni. Nonostante il successo pop (e postumo) di questo atteggiamento (Storytelling, Narrazione, eccetera), il Pensiero debole è stato abbandonato dai suoi stessi promotori (Eco), talvolta gettando il bambino con l’acqua sporca (Ferraris). Non vede in ciò un rimanere prigionieri della «negazione determinata» e del «cattivo infinito»?

 

Il Post-modernismo nacque in polemica con le Grandi Narrazioni, identificate un po’ sbrigativamente con le “filosofie della storia”. Sul banco degli imputati, ovviamente, Hegel e il marxismo. Tesi centrale, una radicale sfiducia nel discorso dell’emancipazione umana, in fondo considerato intrinsecamente totalitario. Dal punto di vista dello spirito del tempo, si trattava senz’altro della dottrina adeguata alla fase della crisi delle società socialiste dell’Urss e dell’Europa dell’Est. Sul piano della concezione della storia, ne emerse una storia invertebrata. Il lascito di quelle teorie, considerate a distanza di qualche decennio, è ben misero. Di fatto, non hanno lasciato traccia.

Gli stessi ripensamenti di Vattimo e di Ferraris, se testimoniano l’onestà intellettuale di questi autori, rappresentano un segno evidente dello stallo teorico in cui il Pensiero debole finì. Credo che la critica definitiva sia stata formulata – già nel 1984 – da Fredric Jameson, che ravvisa nel postmodernismo, da lui inteso correttamente come “la logica culturale del tardo capitalismo”, un “millenarismo alla rovescia, in cui le premonizioni del futuro, catastrofiche o redentive, hanno lasciato il posto al senso della fine di questo o di quello (la fine dell’ideologia, dell’arte o delle classi sociali; la ‘crisi’ del leninismo, della socialdemocrazia o del welfare state, ecc. ecc.)”.

Si, credo che la “cattiva infinità” possa ben caratterizzare l’esito di questo approccio.

 

 

 

5

Hegel può essere considerato il padre del pensiero della differenza. Eppure, negli anni Sessanta, alcuni importanti allievi di un hegeliano di primo piano, Jean Hyppolite, con un atteggiamento romantico, ereditato dai surrealisti (penso a Bataille), prendono le distanze da Hegel, anche in modo violento. Mi viene in mente, in Italia, il libro di Carla Lonzi, il quale, non senza qualche ragione, Sputa su Hegel. Crede che in Italia ci sia stata una influenza nefasta di questo atteggiamento, un atteggiamento favorito, forse, da certe sentenze di artisti della scena pop, tipo Pasolini, Battiato, Baustelle?

 

Torniamo al solito punto: la critica contro l’imperialismo culturale, contro la pretesa della filosofia di mettere “le brache al mondo”, contro l’ipersemplificazione del reale implicita nell’uso dell’astrazione filosofica, è una critica legittima – se fa valere le proprie ragioni sul piano dell’argomentazione e non del semplice gesto di rifiuto. Ma non c’è niente di terribilmente nuovo in questo. In fondo, già negli anni Trenta dell’Ottocento il panorama filosofico post-hegeliano nella stessa Germania fu caratterizzato dalla ripulsa di quelle ipersemplificazioni – battaglia condotta proprio all’insegna del rifiuto del “sistema” hegeliano. Nella stessa Ideologia tedesca di Marx ed Engels ci sono tirate anti-astrazione che muovono chiaramente da presupposti che potremmo definire empiristici. Il problema è però che quando ti poni seriamente l’obiettivo di ricostruire una concezione della società e della storia poi alle astrazioni devi tornare. Per questo l’hegelismo di Marx non è un semplice vezzo: i Grundrisse, ad esempio, sono letteralmente incomprensibili se si leggono senza avere presenti le categorie della Logica hegeliana (spesso, del resto, citate in modo abbastanza trasparente). È chiaro che questo recupero non è un semplice “ritorno a”, ma è altrettanto evidente che gli strumenti concettuali hegeliani sono esplicitamente utilizzati da Marx, ponendoli al servizio di una costruzione diversa.   

 

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C’è una formula di Hegel, mi pare si trovi nella Grande Logica, che, a mio parere, supera, per bellezza, tutte le altre: «Identità dell’identità e della non identità». Il finito, l’essere determinato, è mutevole, contingente, inessenziale. È il non-vero. Mentre l’infinito è il necessario, l’universale, il vero. Pensati l’uno fuori dall'altro finito e infinito finiscono per squalificarsi a vicenda. Per Hegel, invece, l’infinito è nel finito, l'albero è nel seme.
Il pensiero hegeliano, scrive nel suo libro, è un pensiero che rifiuta le dicotomie: gli o… o…, gli aut aut, le alternative secche, bloccate. Il ragionare per alternative secondo Hegel caratterizza il procedere dell’«intelletto», che separa le cose, crea opposizioni astratte.

Questo modo di procedere, molto usato nelle analisi geopolitiche, non è del tutto sbagliato. Tuttavia, quando si isola la Germania dagli altri Stati, e la si considera responsabile del disastro economico dell'eurozona, non si rischia di rimanere bloccati in una sorta di intellettualismo astratto?

 

Hegel dice: il finito e l’infinito, pensati l’uno fuori dall’altro, semplicemente contrapposti l’uno all’altro, finiscono per limitarsi a vicenda: e quindi l’infinito si scopre finito quanto il suo presunto opposto. Il vero infinito, per contro, contiene in sé il finito. È il contrasto tra l’intelletto, che resta prigioniero delle opposizioni astratte, e la ragione. Oggi un modo intellettualistico di giudicare la situazione europea è senz’altro quello che lei cita. Questo già per il semplice motivo che, così in Germania come in Italia, in Francia ecc., ci sono classi che si confrontano, interessi in collisione tra loro. Ma soprattutto perché il vero tema che va affrontato non è la presunta “cattiveria” di qualcuno contrapposta al carattere di “vittima innocente” di qualcun altro, bensì il concreto funzionamento di ben precisi meccanismi economici e istituzionali. Che vanno ben al di là di questo schema, così del resto anche di quello opposto ad esso – così caro alle nostre classi dirigenti innamorate del “vincolo esterno” – che vede l’Italia come lo scolaretto indisciplinato che ha bisogno di qualche severa maestra. Il pensiero di Hegel tra le altre cose è una palestra che allena a non cadere nelle trappole di semplificazioni come queste: a non finire vittima delle “rigidità dell’intelletto”, per dirla in termini hegeliani.

 

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Hegel è davvero entrato nelle nostre vite, più di quanto siamo disposti ad ammettere. Quando i nostri genitori, che non sanno nulla di Hegel e di filosofia, ci dicono, ad esempio, che per capire la vita bisogna viverla, che bisogna fare le proprie esperienze, eccetera, che la conoscenza, insomma, implica una trasformazione del mondo, che la verità non è sostanza ma soggetto, non stanno forse parlando quella lingua hegeliana che il suo libro aiuta (me compreso) a parlare in modo più consapevole?

 

Assolutamente sì. È la lingua della concretezza e della dialettica del reale, una lingua che aiuta a non cadere nei cliché e che ci pone in condizione come poche altre di affrontare la sfida della complessità del reale. Sarei davvero felice se riuscissi almeno in parte a trasmettere questa lingua ai lettori del mio libro. 

 

 

* Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della logica di Hegel, Genova, Pantograf, 1990. Adesso anche su https://independentresearcher.academia.edu/VladimiroGiacché

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