"Ho sposato chi ha conosciuto la tortura durante la dittatura in Brasile e oggi con Bolsonaro ho di nuovo paura"

"Ho sposato chi ha conosciuto la tortura durante la dittatura in Brasile e oggi con Bolsonaro ho di nuovo paura"

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di Michele Metta 
 

È tesa, preoccupata, circospetta, la persona con cui sono riuscito a parlare oggi. È legata sentimentalmente ad un individuo che ha conosciuto la prigione per ragioni d’opposizione politica alla dittatura che schiacciò il Brasile nello scorso secolo. Una situazione che sembra destinata a ripetersi, ora, sotto Bolsonaro, il vincitore inaspettato di queste elezioni presidenziali, il quale, infatti, è appunto oltretutto a tale dittatura legato. Capisco, dunque, la sua richiesta di anonimato. E sono certo che altrettanto faranno i lettori.

 
Il clima, in effetti, è quello, identico. Trasuda nei modi che con me il mio interlocutore ha, nel suo dirmi “Parliamo, d’accordo; ma per email, per favore, non per telefono. È troppo delicato”. È una frase che mi scuote, che mi trasmette l’aver di fronte qualcuno che davvero teme per la propria sorte, e per quella di chi ama. Bolsonaro, per noi, è un’immagine che s’affaccia dai telegiornali. Per chi sto intervistando, è una presenza fisica reale, un orrore tangibile, pronto a far male con una svolta autoritaria.
 

Ci tiene a spiegarmi, il mio interlocutore, che devo allontanare da me il Brasile che noi europei abbiamo nel nostro immaginario collettivo: calcio, samba e bossa nova. Ed è proprio ricorrendo ad un esempio musicale che trova il modo per stampare nella mia mente il concetto: Pais tropical, il pezzo di Jorge Ben, icona artistica carioca. Il ritornello di quella canzone, che parla del «paese tropicale, benedetto da Dio e bello per la sua natura. A febbraio c’è il carnevale», è – mi sottolinea – ironia, sarcasmo, d’un genio che ben sapeva che purtroppo il Brasile è invece, sotto questo, l’immensa lacerazione d’un reddito estremamente distribuito in maniera ineguale, e di una vera e propria apartheid sociale in cui si riverberano le differenze etniche, culturali e religiose. Sì: proprio quel Pais tropical da altri inserito in quel mix danzabile su cui tutte e tutti noi, ignari, facciamo il nostro immancabile trenino tra Natale e Capodanno. Se questo stereotipo lo si supera, ecco allora apparirci invece il volto d’un territorio immenso – ventotto volte il nostro – le cui radici affondano in uno schiavismo che tuttora condiziona i rapporti interpersonali.

 
Disparità la cui eco torna non appena chiedo come sia stato mai possibile questo trionfo di Bolsonaro: “I maggiori organi di informazione, qui, hanno un’impronta oligarchica. Giornali, radio, TV, sono tutti in mano ad appena cinque famiglie. La distorsione mainstream della realtà, dunque, è purtroppo da noi pane quotidiano. Posso farti un esempio concreto: alcuni anni fa, un mio conoscente, oppositore di Lula, per dimostrarmi che Lula s’era davvero arricchito immensamente durante e dopo i suoi due mandati presidenziali, mi aveva mandato un messaggio con allegata la copertina d’una rivista degli Stati Uniti, Forbes, in cui, in effetti, spiccava una foto di Lula con cappello e vestito gessato, alla maniera d’un gangster stile Al Capone. Rivista che, apparentemente, questa pure accusava Lula di possedere ricchezze non giustificabili con gli introiti ricevuti durante gli otto anni di presidenza. Solo che, quando ho compiuto una verifica collegandomi al sito della rivista, ho scoperto che si trattava d’un falso vergognoso: la copertina di quel numero di Forbes era tutt’altra, e non c’entrava niente con Lula e con il Brasile. Ma la cosa più stupefacente è stata l’atteggiamento di quel mio conoscente. Messo da me di fronte all’evidenza del fatto, non ha detto alcunché. Non ha ritrattato le accuse mosse da lui a Lula sulla base di quel falso. Semplicemente, non ha risposto. Ecco, credo che questa sia senza dubbio una spiegazione della vittoria di Bolsonaro. Anche se non l’unica. Un’altra, ugualmente determinante, è un impressionante diluvio illegale di messaggi inviati agli elettori tramite soprattutto WhatsApp. Anche l’appoggio ricevuto da Trump, ovviamente, è stato un fattore rilevante”.
 

Mi basta quindi fare un accenno a Moro, il giudice che contro Lula si è scatenato, per poi ritrovarsi ora, “casualmente”, ad essere chiamato da Bolsonaro a ricoprire la carica di Ministro della Giustizia, perché il mio interlocutore straripi di nuovo in parole d’evidente indignazione: “Molti, tra i giuristi che hanno letto le carte del Processo contro Lula, hanno concluso che non esistono prove non solo per una condanna, ma perfino per il Processo stesso. Il tutto, infatti, si basa sulle ‘confessioni’ d’un imputato che, in cambio, ha ricevuto un notevolissimo sconto di pena. L’industria delle ‘delazioni premiate’, che purtroppo non è una novità per il Brasile, è stata usata come un’arma micidiale scagliata contro Lula in maniera irreparabile. Non parliamo, poi, dello stesso prelievo forzato di Lula, avvenuto in modo inaudito e vergognoso: un plotone di polizia inviato all’alba ad invadere l’appartamento di Lula, con un esercito di telecamere già appostate davanti alla porta, per tradurre Lula a Curitiba affinché deponesse davanti ai magistrati. Ossia: Lula, senza aver mai ricevuto, come le regole imporrebbero, un invito a deporre, viene prelevato con la forza dalla propria casa come si trattasse d’un delinquente pronto a scappare, e tutto questo viene dato in pasto alla TV connivente. Cosa ci fosse dietro, è del resto reso evidente dalla patetica giustificazione data dal giudice Moro sull’accaduto: ‘A condução coercitiva foi decidida para evitar tumulto’. ‘Il prelievo forzato è stato deciso per evitare un tumulto’. Dopodiché, Lula è condannato in Primo Grado a 9 anni, dopo un processo rapido conclusosi con sentenza pronunciata proprio dallo stesso Moro come giudice monocratico. Condanna poi riconfermata a velocità impressionante in Secondo Grado dal Tribunale della IV Regione (Rio Grande do Sul), e addirittura con aggravamento di pena, da 9 a 12 anni. E questo, senza che, come osservato da esperti imparziali, sia indicata alcuna motivazione per giustificare tale rincaro. L’ultima goccia è stata l’arresto nell’aprile di quest’anno; cosa che, con il consenso della STF, la Corte Suprema, ha poi portato all’esclusione della candidatura di Lula, in testa a tutti i sondaggi fino ad agosto scorso, dalla competizione elettorale. Ma ci sono almeno altri due episodi da ricordare per mostrare l’irregolarità della condotta di Moro. Nel luglio scorso, un giudice della IV Regione, nella sua piena funzione in quanto supplente regolarmente nominato, concedeva un habes corpus richiesto dalla difesa di Lula, il che contemplava la scarcerazione di Lula. Orbene, il giudice Moro, sebbene in ferie all’estero, si è a quel punto attivato per impedire che l’ordine di scarcerazione avesse seguito. Infine, ultimo episodio, alla vigilia del 1° turno delle presidenziali: il giudice Moro decretava di rendere pubblica la deposizione, in cui figurano varie accuse a Lula da parte di un ex ministro di Lula stesso, Palocci. Accuse oltremodo sospette e, soprattutto, da Moro rese pubbliche quattro mesi dopo la loro messa a verbale; guarda caso: giusto a sei giorni dal 1° turno delle elezioni, come dicevo. Tutti questi sospetti sulla condotta per nulla ortodossa di Moro hanno appunto acquistato un nuovo e più pesante significato dopo l’accettazione di Moro dell’incarico di Ministro della Giustizia propostogli da Bolsonaro. Ma preferisco lasciare l’ultima parola in merito ad un non brasiliano; al professor Timothy J. Power, direttore della School of Global Area Studies della Oxford University, il quale ha dichiarato che, nell’accettare l’invito di Bolsonaro, il giudice Moro pone a rischio la legittimità del proprio operato e rafforza il convincimento che questo fosse guidato non da un fine di giustizia, ma di tornaconto politico”.
 

Chiedo, a questo punto, cosa materialmente stia dando sentore, in Brasile, di quel che si prepara sotto Bolsonaro. La risposta è oltremodo drammatica: “L’avvento alla presidenza di un soggetto che, nel pronunciare il suo voto alla Camera a favore dell’impeachment di Dilma, la presidente del Brasile democraticamente succeduta a Lula, lo dedica alla memoria d’un torturatore riconosciuto come tale anche dai tribunali brasiliani, e cioè il colonnello Ustra, ci indigna e ci preoccupa nello stesso tempo, perché si è trattato di una aperta apologia della tortura. E gli episodi di vero e proprio squadrismo, messi in atto dai suoi sostenitori, non fanno che aggravare il clima del momento. A Salvador di Bahia, un maestro di capoeira, Romualdo Rosário da Costa, di 63 anni, conosciuto col nome di Moa do Katende, compositore di musica popolare, negro, è stato ucciso con sedici coltellate alle spalle dopo una discussione politica nella quale aveva dichiarato di aver votato contro Bolsonaro, per il candidato del Partido dos Trabalhadores di cui proprio Lula fa parte”.

 
Ci congediamo così, con questa frase che è come una tempesta di quelle che non vorresti mai si abbattessero sulla tua vita, e che mi spinge inevitabilmente a salutare chi ho intervistato con un forte abbraccio, mandato in volo sopra l’Oceano.
 

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