"Il vicino è il tuo nemico". Perché la crisi psico-sociale può essere anche peggio di quella sanitaria ed economica

"Il vicino è il tuo nemico". Perché la crisi psico-sociale può essere anche peggio di quella sanitaria ed economica

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di Simone Luciani - La Fionda


Il vicino è il tuo nemico. Non è il titolo di un film d’azione a colori distopici, ma il filo della narrazione che ci perseguita almeno dall’ultima fase del lockdown, quando le tinte fosche del terrore hanno lasciato il posto a quelle più tenui, sottilmente inquietanti della preoccupazione e, infine, del sospetto. L’ombra della seconda ondata ha reso meno luminoso il sole estivo, e ai moniti di virologi ed epidemiologi hanno fatto eco quelli del governo, di presidenti di regione e di chi ricopre, a vario titolo, cariche politiche e amministrative.
 

Ora che l’ombra si è addensata, e che le calure estive si sono dissolte, la seconda ondata è arrivata, e il martellamento si è intensificato. La costruzione del nemico, la ricerca del capro espiatorio che nei mesi più tragici si sono abbattute, senza che il clima drammatico le emendasse da punte di ridicolo, ora sul corridore ora sul fumatore in cammino solitario verso il tabaccaio, sono diventate la cifra comunicativa con cui, con sprezzo dei rischi che il gioco tutt’altro che innocente comporta, si cerca di scaricare sul singolo il peso della responsabilità di un evento storico che, pure, nessun paese ha risparmiato. Emblematico il proclama di Giuseppe Conte, che non più di qualche giorno fa annunciava alla stampa, in buona sostanza, che se gli italiani finiranno di nuovo chiusi in casa sarà colpa loro. 


Senza negare l’incidenza che i comportamenti individuali hanno sulla diffusione del virus, né volendo essere indulgente verso un certo estremismo «anti-mascherina», certo caciarone, sicuramente animoso nella lisa figura di qualche Vip non proprio all’apice della carriera, ma, mi pare, numericamente esiguo (e di cui peraltro andrebbero indagate a fondo le ragioni, non essendovi estraneo l’altro estremismo, quello che, oltre che segnato da qualche sintomo agorafobico, a tratti sembra ambire a un triumvirato Galli-Crisanti-Pregliasco), laicamente mi interrogo.


E mi interrogo, anche, alla luce della recita piuttosto ignobile che da qualche settimana va in scena a cadenza quotidiana, in cui governo, regioni e istituzioni a vario titolo coinvolte si rimbalzano la responsabilità ora del numero (ci dicono unanimemente – caso infrequente – i virologi) troppo basso di tamponi, ora delle strumentazioni per le terapie intensive, che forse ci sono, forse non ci sono, magari sono evaporate in dinamiche che non ho la possibilità di comprendere. A dirla tutta, non ne ho nemmeno la voglia. Sorge però il dubbio che l’insistenza compulsiva con la quale ministri, deputati, senatori, presidenti di regione, assessori, sindaci sentono la necessità di sottolineare l’enorme responsabilità che i singoli avrebbero nella recrudescenza del virus sia una strategia per coprire, invece, le colpe politiche. Un’insistenza che non pare immune, fra l’altro, da un grande classico delle posture intellettuali del nostro paese: quello di lasciar intendere che, in fondo, gli italiani, col loro individualismo anarcoide, col loro sprezzo delle regole, con la loro adolescenziale indisciplina, in fondo in fondo i guai (le punizioni?) se li vadano a cercare. 


Non lo credo. Non credo che il virus esista e si diffonda perché gli italiani non hanno risolto presunti, atavici problemi di approssimazione nel senso civico. Non credo, nemmeno, che il virus esista e si diffonda grazie alla risonanza o al carisma dell’attore fuori dal giro o del cantautore occasionale che inneggiano sguaiati alla libertà individuale (spesso personale: la loro).


Credo invece due cose.


La prima è che questa generazione politica stia cercando di salvare sé stessa e la cultura di cui è figlia. Non solo e non tanto per le responsabilità nella gestione del virus, che pure ci sono, e che nessuna strategia comunicativa può rendere mimetiche di fronte a scambi d’accuse e sceneggiate televisive fra rappresentanti delle istituzioni. Questa generazione sta cercando di salvarsi come ultimo (speriamo) frutto di una pagina politica che dura dagli anni Novanta. Qualcuno l’ha pomposamente definita “Terza Repubblica”: ebbene non mi è chiaro – se non nell’uso di Twitter e di Facebook – in cosa questa Terza Repubblica sarebbe diversa dalla Seconda. Non certo nella stella polare che caratterizza i governi tutti che si sono succeduti da Tangentopoli in poi: quella della devastazione del nostro stato sociale. Nessuno, mi pare, ha concepito la sanità negli ultimi trent’anni in maniera diversa da una vecchia auto alla quale sottrarre ogni tanto un pezzo, sostenendo che sia inutile: la pandemia ci ha mostrato in maniera plastica che, invece, senza quei pezzi l’auto sta smettendo di funzionare.


Pur nelle diversità di approccio, e qualche rarissimo e flebile segnale opposto, non mi pare che le ricette, in trent’anni, siano mutate: oggi in molti, però, si accorgono che la pietanza è immangiabile. Se ne accorgono in un momento drammatico, e quelli che seguiranno non saranno migliori: laddove, speriamo, il virus in qualche modo verrà arginato e sconfitto, la tragedia sociale ed economica – soprattutto se si insisterà sull’uso degli strumenti europei – sarà epocale. Sarà una fase politicamente difficilissima, e questa generazione politica (o meglio: questa cultura politica) somiglia nelle movenze a quella che tentò maldestramente di governare l’Italia subito dopo la Prima Guerra Mondiale, appartenendo a un’epoca ormai trascorsa e non avendo gli strumenti per capire quella nuova.  


Ecco allora l’ultimo, disperato tentativo: quello di far ricadere sui singoli, sugli individui le colpe delle loro stesse sventure presenti e prossime, provocando una lotta di tutti contro tutti che, in un tessuto già sfibrato da mesi massacranti sul piano psicologico e sociale, rischierà di esplodere e di disseminare macerie che non sarà più possibile rimettere insieme, se non in maniera altrettanto drammatica. Un gioco gravemente irresponsabile: la crisi sanitaria, in un modo o nell’altro, passerà, e forse passerà (non certo indolore, e anzi drammaticamente) anche quella economica. Quella psico-sociale, quella che ci farà vivere in una perenne sindrome d’accerchiamento, quella paranoia che ci spingerà a sguardi sospettosi su chiunque incontreremo, quella, in sostanza, che attaccherà le fondamenta stesse della nostra società e della nostra comunità, rischia invece di segnarci per sempre. 

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