ROMA CODA MUNDI - I PROCACCIATORI DI PARADISI E LA BORGHESIA STRACCIONA (Prima Parte)

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 di Michel fonte
 

Juncker, il primo ministro che schedava i lussemburghesi

Che ci sia una guerra in atto tra Italia e UE, sembra essere confermata dalla cifra morale delle dichiarazioni del Presidente della Commissione europea Juncker, che dopo aver attaccato in varie occasioni i leader dei partiti che sostengono il governo Conte, si è risentito per considerazioni sul suo stato di sobrietà, peraltro più volte venuto meno in appuntamenti internazionali (quarto vertice del Partenariato Orientale a Riga, in Lettonia, tenutosi il 21 maggio 2015; Conferenza di Roma del 25 marzo 2017 per la celebrazione dei 60 anni della fondazione dell’Ue; vertice Nato di Bruxelles, 11-12 luglio 2018), e che di certo non rappresenta un buon biglietto da visita per un’Europa che aspira a giocare un ruolo da protagonista nello scacchiere mondiale.

Prendere lezioni da un esponente coinvolto in varie disavventure che ne hanno incrinato la reputazione, è un dato che fa riflettere su come la classe politica del paese, a partire dagli anni 80’, sia stata non solo carente di una visione strategica in campo geopolitico, ma anche orfana di un doveroso amor patrio. I troppi governi inginocchiatisi davanti a Juncker, si sono guardati bene dal rendere note le responsabilità dell’ex primo ministro lussemburghese in due roventi casi: il primo, concernente il mancato controllo sull’attività dello SREL (Service de renseignement de l’État) nel suo longevo mandato a capo dell’esecutivo del Granducato (20 gennaio 1995 – 4 dicembre 2013), che lo ha costretto alle dimissioni il 10 luglio del 2013[I]. Nei fatti, ciò che è stato rubricato come un semplice caso di inadempienza, per molti analisti e giuristi si configura come un vero e proprio “affaire” di spionaggio massivo contaminato da attività di corruzione, dal momento che l’inchiesta parlamentare ha dimostrato che tra il 2004 e il 2009 ci furono numerose irregolarità – di cui il Presidente della Commissione europea era a conoscenza – non solo nell’attività di intelligence ma anche nell’utilizzo dei fondi a disposizione dell’agenzia.

A partire dalla guerra fredda, sono stati conservati in un caveau circa 13.000 dossier contenenti una moltitudine di informazioni sensibili su 300.000 cittadini lussemburghesi, tra i quali dettagliati rapporti su persone e associazioni impegnate in attività politiche e una vera e propria schedatura delle più importanti cariche pubbliche, comprendenti addirittura registrazioni di movimenti in conto corrente, una chiara violazione del diritto alla segretezza bancaria di cui il paese si è sempre fregiato. Tali violazioni chiamano in causa in maniera inequivocabile Juncker, in quanto, dapprima come ministro e poi come premier, ha partecipato, dopo la fine della contrapposizione tra i blocchi, a tutte le fasi di riforma dello SREL. Entrando nei particolari, nel 1990, il primo ministro lussemburghese, Jacques Santer, diede l’ordine di sciogliere la cellula locale della rete internazionale nordatlantica nota come Stay Behind[II], dato che, però, la stessa era in possesso di una riserva finanziaria in monete d’oro e argento, nel 1995, il nuovo premier, Juncker per l’appunto, decise di mantenerla nella disponibilità del servizio di intelligence in attesa di nuovi scopi cui destinarla. Un’operazione che la commissione d’inchiesta parlamentare ha giudicato opaca, imponendo l’immediato conferimento della dotazione all’erario, tuttavia, nel frattempo, parte dei fondi era già stata utilizzata con il beneplacito dell’esecutivo per l’acquisizione di materiale funzionale all’attività di sicurezza, vale a dire, la realizzazione di un’enorme banca dati su supporto informatico, che ha consentito la digitalizzazione di una quantità abnorme di documenti e microfilm fino ad allora contenuti in cartelle individuali ordinate con criteri alfabetici, per l’esattezza, 4.168 schedature individuali e 2.270 di società e associazioni elaborate dallo SREL, e 6.645 dossier nominativi messi insieme dall’Autorità Nazionale per la Sicurezza[III]. Le prove accumulate avvalorano la tesi che il primo ministro favorisse una costante attività di rastrellamento e immagazzinamento di informazioni a fini personali, oltretutto, introducendo nel servizio di sicurezza nazionale il proprio autista (anziano funzionario di polizia) e coprendo i contatti della famiglia reale con i servizi segreti britannici per l’estero (MI6 o SIS, Secret Intelligence Service), scaturiti dalla necessità di bloccare un’inchiesta giudiziaria sui diciotto attentati avvenuti nel paese tra il maggio del 1984 e il marzo del 1986, passati alla cronaca con il nome di “Bommeleeër Affär” (“The Bombers Affair”). Come si evince dal rapporto parlamentare, uomini dello SREL coinvolti in azioni eversive attraverso una struttura sotto copertura connessa con Stay Behind – una specie di clone della Gladio italiana – avevano proceduto, nel 2004, a far scomparire, non si sa su ordine di chi, buona parte dei faldoni sugli atti terroristici conservati nella sede di Château de Senningen[IV], inoltre, nel 2008, allo stesso Juncker era stata consegnata una relazione d’indagine sulla natura dell’azione sovversiva avvenuta in quel periodo, nella quale tra l’altro si rilevava la presenza di Licio Gelli, il gran maestro della loggia P2, in territorio lussemburghese negli anni 80’. In tale occasione, il premier aveva inspiegabilmente scelto di mantenere il silenzio senza informarne, come da prassi e nel rispetto della legge, i membri della Commissione di Controllo[V].

Il principale accusatore di Juncker, l’ex direttore dell’unità di intelligence e ora a capo del dipartimento di sicurezza della Siemens, Marco Mille, ha sempre affermato che il primo ministro era a conoscenza di tutte le operazioni, e di come lui stesso lo informasse sui particolari delle investigazioni, fra queste, la supposta presenza del fratello del Granduca Henri, il Principe Jean, su uno dei luoghi degli attacchi dinamitardi. Non a caso, la commissione rivela tra le principali disfunzioni accertate nel funzionamento dello SREL, un arbitrario scambio di vedute tra il responsabile del servizio di spionaggio e Juncker, peraltro archiviato in un dispositivo di registrazione celato in un orologio da polso. Il procedere dell’investigazione ha svelato, al contempo, situazioni di pantouflage, ossia, commistioni di interessi pubblici e privati; adozione di procedure non autorizzate di intercettazione di attività di comunicazione, di cui il capo dell’esecutivo, sempre secondo Mille, ne era perfettamente consapevole; realizzazione di una missione di spionaggio in violazione delle norme di legge (operazione nota con la sigla “SAM”, Surface-to-Air Missile); numerose attività compiute alla stregua di polizia segreta, in particolare la raccolta di dati sugli orientamenti sessuali di cariche pubbliche, tra cui il Procuratore di Stato M. Bevier; tentativi di corruzione (un’azienda privata si propose per mettere a disposizione degli agenti segreti voli e camere d’hotel in tutto il mondo); garanzia di un alloggio in affitto a titolo gratuito per M. Gérard Reuter, Presidente della Corte dei Conti (Chambre  des comptes).[VI]

Alle infrazioni gestionali si sono sommate deficienze di ordine strutturale, che ancora una volta chiamano in causa l’attuale Presidente della Commissione europea durante la guida del governo lussemburghese (1995-2013), in particolare queste sono riassunte in:
- inadeguato controllo contabile;
- opache procedure di gara per l’acquisto di autoveicoli dello SREL;
- dubbie modalità di reclutamento del personale;
- presenza di strutture gerarchiche diffuse;
- assenza di un quadro legislativo delle procedure di trattamento informatico dei dati;
- mancata coordinazione interministeriale nella conduzione del servizio di intelligence;
- insufficiente controllo parlamentare;
- deludenti risultati delle misure promosse da Juncker con la legge 15 giugno 2014 per migliorare l’organizzazione e la gestione dello SREL.[VII]

Purtroppo per Juncker, non è l’unico episodio che ne mette in discussione la caratura morale, infatti, l’uomo che insieme a Moscovici sta incalzando il governo Conte affinché cambi entità e soprattutto natura dei provvedimenti della manovra – fatto grave perché mina il principio di sovranità di un esecutivo chiamato prioritariamente a rispettare il patto con gli elettori – è lo stesso soggetto promotore del più grande caso di evasione fiscale massiva, una condizione di privilegio che ha garantito negli anni a più di 340 multinazionali una tassazione agevolata al di sotto dell’1% sugli utili conseguiti. In virtù di una legislazione fiscale fondata su artate deficienze, il Granducato, tra il 2002 e il 2010, si è convertito per imprese come Apple, Blackstone, Coca-Cola, Axa, Unicredit Group, Burberry, Intesa Sanpaolo, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banca delle Marche, Vodafone, Volkswagen, Amazon, Ikea, Procter & Gamble, JP Morgan, Deutsche Bank, Pepsi e molte altre[VIII], nel “Paese dei balocchi”, con un primo ministro a proprio agio nel ruolo di Lucignolo[IX]. A confermarlo l’arroganza con cui Juncker si è sempre rivolto nei confronti di chi stigmatizzava il meccanismo di elusione escogitato da società madri con sede in Lussemburgo, per trasferire utili dalle filiali estere e sottoporli con la consulenza contabile e fiscale della londinese PricewaterhouseCoopers (PwC), una delle cosiddette big four (le altre sono Deloitte & Touche, Ernst & Young e KPMG), ad un procedimento che, attraverso insoliti prestiti infragruppo, i cosiddetti “hybrid loans”, permetteva di sopprimere quasi del tutto ogni forma di tassazione. La circostanza che la vicenda sia passata alla cronaca senza lasciare strascichi, induce a riflettere sul ruolo di un’intera categoria di politici al servizio diligente e profittevole di un gruppo ristretto di potentati transnazionali e, per converso, incuranti degli interessi della collettività, in tal modo, non solo gli scandali non hanno indebolito la posizione dell’avvocato lussemburghese, ma addirittura ne hanno favorito la corsa allo scranno più ambito dell’UE (Presidente della Commissione a partire dal 1° novembre 2014),

 
L’Antenora, i traditori della patria

Se c’è una cosa di cui ringraziare Vincenzo Boccia è di aver ricordato agli Italiani che Antenora è ancora viva e pullulante di traditori, bisogna dire che in questo senso la posizione del Presidente di Confindustria (25 maggio 2016) è coerentemente in linea con quella dei suoi predecessori, il re della maiolica Giorgio Squinzi (2012-2016), e la signora Emma Marcegaglia (2008-2012), che da sempre ha buone relazioni con i governi e le imprese pubbliche, a partire dall’acquisto del Centro Vacanze Eni di Pugnochiuso[x], nel Gargano, ad opera della Marcegaglia Tourism, passando per i vari condoni e scudi fiscali[xi] che le hanno permesso di sanare delle situazioni di irregolarità tributarie generate da quote patrimoniali della Marcegaglia S.p.A. allocate in Irlanda (25%) e Lussemburgo (la controllata Sipac SA), e dai circa 17 conti esteri in cui si accumulavano fondi neri provenienti dall’acquisto di acciaio e altre materie prime per il tramite di società offshore, dei quali risultava titolare insieme al fratello Antonio e al padre Steno[xii]. A coronamento di una fulgida carriera di discutibile contribuente, la manager di Mantova è stata premiata ascendendo alla carica di presidente dell’Eni (8 maggio 2014), un’azienda a prevalente  partecipazione pubblica incappata in diversi casi di corruzione internazionale (Nigeria e Algeria)[xiii].

Ciò che ulteriormente unisce Boccia, Squinzi e Marcegaglia, è l’idea che la competitività imprenditoriale vada perseguita esclusivamente sul versante del lavoro, la famosa ricetta tedesca, che tradotta in parole semplici, significa peggioramento del salario base, aumento della produttività creando un differenziale a favore del capitale tra ore di lavoro e reddito corrisposto ai prestatori d’opera, precarizzazione incentivata dall’esasperazione di forme di lavoro interinale e parziale (part-time verticale e orizzontale, contratti a chiamata, voucher, tirocini e collaborazioni a progetto), riduzione delle tutele collettive nazionali per dare spazio alla contrattazione decentrata (territoriale ed aziendale) con conseguente implementazione delle storiche gabbie salariali, facilità di espulsione dei soggetti dal processo produttivo (libertà di licenziamento), contrazione delle misure assistenziali e sociali (cassaintegrazione, contratti di solidarietà, indennità di disoccupazione, reddito di inclusione o di cittadinanza) e delle obbligazioni a carico delle imprese per la sicurezza sul lavoro. A fronte di queste richieste, in larga parte esaudite da tutti gli esecutivi alternatisi dal 1997 ad oggi (da Treu a Renzi), che non hanno avuto altro effetto che “di  accrescere  la segmentazione del mercato, mentre (N.d.A.) i recenti correttivi introdotti non sono stati efficaci nel migliorare  l’accesso  ad  un  lavoro  stabile  né  nell’aumentare  la  probabilità  di  transizione dal lavoro temporaneo a quello permanente[xiv] (periodo di riferimento 1999-2013), Confindustria e le altre associazioni imprenditoriali di categoria (Agci, Ance, Confesercenti, Confapi, Confcooperative Confagricoltura, Legacoop, Confartigianato, Casartigiani, Confcommercio Cna e altre) non solo non hanno messo sul piatto un bel nulla, ma, ad ogni scrittura del DEF, hanno sempre sollecitato e ottenuto misure a loro favore, dal cuneo fiscale al taglio dell’Irap e dell’Ires. Come se non bastasse, mentre aumentava il livello dei profitti delle aziende italiane rispetto alla media UEM (periodo 2008-2016), perfino durante la fase di recessione, il livello degli investimenti si è sempre mantenuto al di sotto, eccetto per il biennio 2010-2012, raggiungendo il massimo della forbice nel 2016[xv] (di circa il 3% inferiore). Per farla breve, i capitalisti hanno delegato al vituperato Stato il compito di investitore, visto che durante l’ultimo decennio si sono dedicati più a rimpinguare gli utili che che a pianificare il futuro, e lo hanno fatto imponendo sacrifici alla classe lavoratrice tanto che “al terzo trimestre del 2016, rispetto allo stesso periodo del 2014, il costo del lavoro per l’insieme delle attività economiche è diminuito dell’1,3 per cento in Italia e dello 0,2 per cento in Spagna, mentre in Francia e in Germania è aumentato rispettivamente del 2,6 e del 5,2 per cento. Nella manifattura, in particolare, in Italia si è avuta una riduzione pari al 2,4 per cento, a fronte di aumenti dello 0,7 per cento in Spagna e Francia e del 3,1 in Germania[xvi].

D’altra parte, tanto le dichiarazioni di Squinzi (“Agganciare la ripresa, più investimenti pubblici in infrastrutture[xvii]) quanto quelle del suo successore Boccia, non sono mai andate nella direzione del più volte invocato lasseiz faire, al contrario, si sono caratterizzate, anche con toni piuttosto minacciosi nel caso di quest’ultimo, per  battere cassa presso le compagini ministeriali di turno (“Se siamo qui significa che siamo a un punto quasi limite di pazienza”; “Siamo contro questa manovra perché non ha nulla di crescita[xviii];) e intromettersi in dinamiche istituzionali che non sono di pertinenza della corporazione padronale (“Se fossi in Conte chiamerei i due vicepremier e direi loro di togliere 2 miliardi l’uno e due l’altro. Se nessuno dei due volesse arretrare mi dimetterei e denuncerei all’opinione pubblica chi non vuole arretrare[xix]). L’attuale numero uno di Confindustria ha perfino rispolverato un vecchio cavallo di battaglia neoliberista, nel momento in cui ha affermato che “la politica è una cosa troppo importante per lasciarla solo ai politici[xx], il dato storico, però, indica, in maniera inequivocabile, che gli imprenditori alle prese con l’azione ammodernatrice del paese, hanno fallito a causa di inestricabili conflitti di interesse e una visione classista che ha distrutto la base dei consumi interni. D’altronde, anche con un Berlusconi ridotto ad ammennicolo elettorale, il berlusconismo, come ideologia, è duro a morire, e con esso la malsana abitudine di saccheggiare le finanze pubbliche per progetti che dovrebbero essere a carico esclusivo o prevalente di operatori privati. Si desume, quindi, che il problema non è il deficit, ma chi ne beneficia, ragion per cui, il livore che trasuda dalle parole di Boccia per un DEF che ripudia, si spiega non con riferimento ad un eccesso di debito, oltretutto da verificare in sede consuntiva, ma per misure che anziché privilegiare per l’ennesima volta il mondo delle imprese, o meglio di certe imprese (“La Tav è un cantiere non un progetto e quindi occorre spingere sui cantieri, proprio per quegli investimenti pubblici a cui il governo fa riferimento per attivare la crescita[xxi]), sono destinate a fornire un sostegno a quelli che fino ad ora sono stati immolati alla crisi, vale a dire, pensionati, lavoratori e disoccupati.

Nel discorso di Torino (“Infrastrutture per lo sviluppo TAV, l’Italia in Europa”, 3 dicembre 2018) del “Gorbaciov di Salerno”, che apre lo scenario su quello che può definirsi “capitalismo reale”, si ravvisa una lettura inquietante, perché si rigetta in maniera recisa la strategia di contribuire a migliorare il reddito di una parte dei cittadini italiani, accrescendo la capacità di spesa e innalzando di conseguenza il livello dei consumi e i ricavi delle imprese. La posizione assunta da conto del fatto che le aziende hanno sviluppato una cultura finanziaria per cui preferiscono “fare” soldi con i soldi, sovrapponendo al canale mediato il canale diretto rappresentato da investimenti pubblici che entrano direttamente nella loro disponibilità, e tanto meglio se con un’insignificante attività di controllo, peraltro avallata dal nuovo “codice dei contratti pubblici” (dl. 18 aprile 2016, n. 50[xxii]), che aveva come ambizione di snellire le procedure e combattere la piaga della corruzione, attraverso un approccio di soft law e un compito centrale di controllo affidato all’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac). A giudicare dalle statistiche diffuse da Transparency International, la riforma ha sortito risultati molto parziali, infatti, se è vero che l’Italia è passata dal 60° posto del 2016 al 54° del 2017 nella classifica mondiale e dal 31° e ultimo gradino del 2016 al 25° della graduatoria europea[xxiii], occorre rimarcare, innanzitutto, che è una posizione non dignitosa per una realtà che figura come 12° potenza mondiale per Pil[xxiv], in secondo luogo, che si tratta di corruzione percepita (CPI), cioè di un dato che risente della valutazione culturale e individuale del fenomeno e delle omesse denunce, due fattori che incidono sull’attendibilità della stima. Inoltre, come osservato dal membro togato del CSM, Piercamillo Davigo, l’Anac “è un’autorità amministrativa: non può avere alcun potere serio per reprimere la corruzione[xxv], e in effetti, in più di un caso, oltre alla debolezza della sua azione, si è avuta anche l’impressione di un ente incline ad interventi non lineari e non equilibrati, atti a screditare questa o quell’amministrazione, su determinate procedure di appalto, a seconda di convenienze politiche.

L’amara conclusione è che la classe manageriale del paese vuole agganciare la ripresa e migliorare produttività e redditività senza rischiare in proprio, ma confidando nelle risorse statali, basti pensare che nei mesi centrali del 2016 la spesa privata in investimenti, a prezzi correnti, era inferiore rispetto allo stesso periodo del 2007 di ben il 15%[xxvi], segno che unito a tutti gli altri e inverando una profetica riflessione pasoliniana sulla società italiana, mostra una nazione alle prese con: “Il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa” (Ricotta, in Ro.Go.Pa.G, 1963, P. P. Pasolini).
 
[III] Ibidem pag. 18
[IV] Ibidem pag. 19
[V] Ibidem pag. 89
[VI] Ibidem pagg. 50-51
[VII] Ibidem pag. 94
[xvi] Ibidem, pag. 22
[xix] Ibidem
[xx] Ibidem
[xxi] Ibidem

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