Scappiamo dalla città, portiamo via i soldi e vi lasciamo nella merda

Scappiamo dalla città, portiamo via i soldi e vi lasciamo nella merda

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La parola d’ordine giunta direttamente dalla Bay Area e indirizzata agli Startupper di tutto il mondo è «Freedom to work from anywhere». Creativi, uomini in lupetto e occhiali tartaruga, esistenzialisti a piede libero, nerd di tutte le pezzature, vegetariani coi soldi, Freak coi Bond, contrordine: ri-torritorializzarsi nei piccoli borghi, anche montani, abbandonare gli open-space delle città globalizzate, colonizzare le campagne, i piccoli paesi, ritirarsi in casolari, anche diroccati, purché forniti di banda larga e tele-visione. 

Il San Francisco Examiner oggi parla di «colonizers who leave a country when they can’t get what they want anymore», di colonizzatori che abbandonano un paese quando non possono più ottenere ciò che bramano. 

Amministratori delegati e programmatori di alto profilo stanno abbandonando la Bay Area. Qualcuno sta già tirando un sospiro di sollievo. Non solo all’idea che una barcata di stronzi si sta togliendo dai cabasisi; stronzi che sono stati un grado di vendere tecnologia vecchia quasi mezzo secolo, come se fosse uscita fresca fresca dai loro crani creativi. 

È una liberazione, ha gridato Chirag Bhakta, attivista di Mission Housing, un’organizzazione non-profit che si occupa di reperire alloggi a prezzi contenuti, esperto dell’impatto sismico che la crescita dell’industria tecnologica ha avuto sulla città di San Francisco. 

L’espansione delle società di software negli ultimi dieci anni ha attirato migliaia di nuovi arrivati benestanti i quali hanno fatto lievitare gli affitti e hanno ridisegnato l’economia e la cultura della città. 

La loro partenza repentina, ha detto Chirag Bhakta a CNBC.Com, rivela che il rapporto di questa gente con San Francisco era tenuto assieme solo dal business; che non c’era nessun legame con i luoghi, con la comunità, con la vita vera della città. 

Se cambi città come cambi i calzini, vuol dire che il tuo legame con il luogo non ha mai avuto valore – sei completamente deterritorializzato, spaesato - la tua patria è il mondo, ma il mondo, nel frattempo, per una sorta di big bang inverso, si è rinchiuso in un bit, sta tutto in una memoria ssd. 

Poi ci sono i poveri cristi, la gente comune, ci siamo noi, con i nostri carichi di panni sporchi da lavare e pavimenti da spazzare, con i nostri vecchi allettati; noi, sempre di corsa, sulle tangenziali fordiste, a respirare smog, ad accendere e spegnere i condizionatori che garantiscono quell’atmosfera artificiale che permette ai server di macinare i Terabyte di realtà virtuale abitati dai Boy-Tech e dai Bro-Twitter.

Gli spacconi dell’informatica, dice Stuart Schuffman sull’Examiner, hanno dimenticato che prima del loro arrivo qui c’era una città che funzionava. Prima che San Francisco diventasse "Silicon City", c’era una città viva e vegeta, lustro dell'intero occidente.

Persone come Keith Rabois (Yelp, PayPal, LinkedIn), Drew Houston (Dropbox), Henrique Dubugras (Brex) e altri, dice Schuffman, si stanno trasferendo da San Francisco, mentre si lamentano dei problemi della qualità della vita, del governo locale, delle tasse e di una serie di altre storture causate proprio da ciò che li ha resi miliardari.

Quindi, scrive Schuffman, dico buon viaggio. Sperando che le città in cui queste locuste pianificano l'atterraggio guardino a San Francisco e vedano la nostra follia. Mi sento come un ex fidanzato sedotto e abbandonato. In questo momento vi dico: «Se siete in ascolto, città future, non concedete a questa gente agevolazioni fiscali solo per tenerla nella vostra città. Finiranno per andarsene comunque, ma non prima di aver distrutto parte di ciò che vi rende speciali».
Non lasciatevi fregare dalle immagini di terrore che vi propinano. Non credetegli quando dicono che San Francisco diventerà come Detroit. E se dicono che i prezzi della case stanno scendendo, che gli affitti stanno scendendo, e che tra poco i quartieri di San Francisco avranno quell'aria triste e derelitta dei quartieri di Detroit, che tutto andrà a catafascio, non dategli retta. Non sarà così. Anzi, sarà anche così. Ci sarà da pagare un prezzo, ma ne varrà la pena. Liberarsi da queste locuste, distruggere il loro modello di vita avrà un costo, ma non sarà più alto di quello che pagheremo se decideremo di abbassare la testa e accettare il loro ricatto. 

Tu, povero cristo, se ti capita di leggere su Redifin (immobiliare) che le ricerche di case sono aumentate del 200% e che tutti cercano casa in zone rurali, tanto che queste ricerche sono aumentate del 235%, e quelle nelle piccole città del 218%, non sentirti abbandonato, non deprimenti, non sentire il peso del tuo legame col territorio. 

Tutti sono su Redfin, scrive Larry Rosen sull’Examiner, perché vogliono vivere, ma in pillole, il loro sogno di realtà virtuale, di tele-visione. 
Portami da qualche parte, Redfin. Portami in un attico a Central Park West. Portami in un allevamento di cavalli in Virginia. Portami in una baita a Big Sur. Non ho davvero intenzione di morire qui. Voglio bere una Stella Artois a Saintes-Maries-de-la-Mer, voglio scoppiare di salute sulle montagne della Sila.

Leo Essen

Leo Essen

Ha studiato all’università di Bologna con Gianfranco Bonola e Manlio Iofrida. È autore di Come si ruba una tesi di laurea (K Inc, 1997) e Quattro racconti al dottor Cacciatutto (Emir, 2000). È tra i fondatori delle riviste Il Gigio e Da Panico. Scrive su Contropiano e L’Antidiplomatico.

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