The National Interest: "La Cina non è uno 'stato missionario'. Non vuole guidare il mondo"

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Il confronto Usa-Cina è troppo spesso innervato da isteria. Un nervosismo folle e stralunato che discende dallo stato d’animo di certo potere americano e internazionale che ha avuto la pretesa di gestire il mondo (delirio di onnipotenza giustificato dal dilatarsi irrefrenabile della sua influenza) e che ora vede quella pretesa sgretolarsi giorno dopo giorno, in maniera che “appare” irreversibile.

E tutto il dilemma, il dramma geopolitico del mondo, sta in questo “appare”: se, cioè, tale irreversibilità sia più o meno reale, e se sia ancora possibile ricacciare la Cina nei bassifondi della geopolitica, preservando così il sogno folle del dominio globale di quella ristretta élite.

La loro isteria è dovuta al fatto che ogni tentativo esperito finora non ha dato i frutti sperati, né è possibile sciogliere il nodo gordiano con la spada, ché ormai è troppo tardi per pensare a una guerra diretta contro la Cina.

Per fortuna non tutto il potere d’Occidente è consegnato a tale potere e alla sua follia. Così riportiamo la conclusione di una nota del National Interest, che brilla per lucidità e senso della misura.

“Qualunque approccio politico nei confronti della Cina deve essere basato su una valutazione realistica delle intenzioni e delle capacità di Pechino. Come ha notato Paul Heer, ex ufficiale dell’NSA per l’Asia orientale e illustre collega del Center for the National Interest, la Cina non cerca di guidare un nuovo ordine globale e non ha problemi a ricercare una convivenza pacifica con il capitalismo democratico”.

A differenza dell’ex Unione Sovietica, non è uno ‘Stato missionario’ [non ha il problema, cioè, di esportare la rivoluzione comunista al mondo, come l’Urss, ndr]. Piuttosto, con realismo, aspira a massimizzare il suo potere e la sua influenza, ogni volta e dove può, evitando costi insostenibili o di impegnarsi in avventure temerarie, cosa che hanno caratterizzato invece gran parte della politica estera americana degli ultimi decenni”.

Quindi, fa un cenno alla Guerra dell’Oppio, che ha esacerbato l’animo cinese verso l’Occidente, che gli fece guerra per predarne le ricchezze e devastare la sua popolazione con la droga (commercio che arricchì ancor più i suoi carnefici). E conclude: “In altre parole, Xi non sta inventando il risentimento cinese, lo sta esprimendo. Polemizzare pubblicamente con la Cina e denigrarla alimenta quegli impulsi nazionalisti che l’Occidente dovrebbe invece cercare di placare”.

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