Dietro un falso mito: la foto di Tienanmen, primo esempio di "terrorismo dell'indignazione"

Dietro un falso mito: la foto di Tienanmen, primo esempio di "terrorismo dell'indignazione"

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di Diego Angelo Bertozzi 

In relazione ai fatti di piazza Tienanmen del giugno del 1989 pubblichiamo un estratto del libro “Cina. Da sabbia informe a potenza globale” (Imprimatur, 2016) di Diego Angelo Bertozzi. Uno snodo storico fondamentale che, nella sua tragicità, ha influenzato la politica di riforma e la strategia egemonica del Partito comunista cinese.


Pur all'interno di un processo che garantisce la graduale uscita dalla povertà e lo sviluppo economico, sono diverse le contraddizioni prodotte dall'accelerazione del processo di riforma durante gli anni '90 e che portano insieme, anche se distinte, ai fatti drammatici del 1989. Da una parte c'è una classe operaia che deve fare i conti con l'impennata dell'inflazione e la riforma delle aziende statali, che ha ridotto pesantemente le garanzie sociali fino ad allora godute, e che chiede di essere tutelata sul luogo di lavoro; dall'altra c'è una agguerrita e giovane classe imprenditoriale che spinge per maggiori liberalizzazioni, privatizzazioni e riduzione del ruolo statale in economia e che, al contempo, appoggia e finanzia in prima persona nuovi e indipendenti organismi di rappresentanza di intellettuali e studenti che chiedono una profonda riforma del sistema politico in nome della democrazia e della fine del regime.


Differenze sostanziali che impediscono la nascita di un fronte comune, ma che riescono a mettere seriamente in discussione la tenuta del sistema politico imperniato sul partito comunista. Pur fallendo di fronte alla repressione, spingono la dirigenza comunista verso ulteriori riforme, aperture e adeguamenti ideologici al fine di governare la trasformazione economica e sociale in atto e controllare, ampliando la capacità di rappresentanza del sistema, le forze sociali che sono emerse e che possono diventare politicamente pericolose.


Detto questo, concentriamoci ora su un aspetto particolare degli eventi del 1989. Jay Mathews, giornalista del Washington Post, presente a Pechino ai giorni delle manifestazioni è uno dei giornalisti e studiosi che più ha insistito nell'affrontare l'esistenza, soprattutto in Occidente, di un “mito di Tienanmen”, di una “versione mitica” della notte del massacro degli studenti del 4 giugno “accettata da giornalisti e redattori statunitensi”. Siamo davvero sicuri, in un quadro di indubbio spiegamento dell'apparato repressivo, che quella notte nella grande piazza di Pechino, sia avvenuto il massacro che da ormai vent'anni diamo per acquisito? Secondo il giornalista – primo capo dell'Ufficio di Pechino del celebre giornale statunitense e assai critico nei confronti del “regime sanguinario” cinese – “in base alle prove disponibili, nessuno è morto in quella piazza”. E prosegue: “Alcune persone potrebbero essere state uccise dal tiro casuale proveniente da strade vicino alla piazza, ma tutte le testimonianze oculari verificate dicono che agli studenti che sono rimasti nella piazza quando le truppe sono arrivate è stato permesso di abbandonarla in pace. Centinaia di persone, la maggior parte dei quali lavoratori e passanti, sono morte quella notte, ma in un luogo diverso e in circostanze diverse”. Cosa rimprovera questo giornalista ai propri colleghi? Nella sostanza di essersi fidati di resoconti senza curarsi dell'attendibilità e della provenienza; di non aver seguito, quindi, i basilari doveri del proprio lavoro: Il racconto del massacro proviene, infatti, da “false testimonianze oculari nelle ore confuse e nei giorni successivi alla repressione. Probabilmente il racconto più ampiamente diffuso apparve sulla stampa di Hong Kong. Uno studente dell’Università Tsinghua parla di mitragliatrici che falciano gli studenti davanti al Monumento degli Eroi del Popolo nel centro della piazza e il New York Times ha preso questa versione dandole grande visibilità nell’edizione del 12 giugno appena una settimana dopo l'evento, ma nessuna prova è stata mai trovata per confermare la testimonianza e verificare l'esistenza del presunto testimone. Il leader degli studenti Wu'er Kaixi ha detto di aver visto 200 studenti uccisi da armi da fuoco, ma successivamente è stato dimostrato che aveva lasciato la piazza diverse ore prima che degli eventi da lui descritti si verificassero”. [1]


Veniamo proprio al New York Times. Il 12 novembre del 1989 il quotidiano pubblica un lungo reportage, a firma del capo dell'ufficio del quotidiano a Pechino, che traccia la storia della vittoria della linea dura all'interno del Partito comunista cinese. Quando si passa alla cronaca degli scontri l'autore riporta come “non vi sia stato alcun massacro nella piazza Tienanmen, mentre uccisioni si segnalano altrove”. [2]


Di nascita di un “mito” legato a Tienanmen parla anche Gregory Clark, vice presidente della Akita International University ed ex funzionario per la Cina del Foreign Service australiano. A suo parere ci troviamo ancora di fronte ad un mito utilizzato a corrente alternata per denunciare il regime cinese e giustificare il divieto di vendita di armi occidentali e tenute antisommossa alla Cina; un racconto non veritiero tenuto in vita, quindi, per ragioni politiche a differenza di altri massacri con centinaia di morti, come quello di Città del Messico del 1968, che hanno subito un trattamento ben diverso. Sul Japan Times lo studioso ripropone altre testimonianze come quella del corrispondente della Reuters Graham Earnshaw, che ha trascorso nella piazza la notte tra il 3 e il 4 giugno, e che nelle sue memorie ha confermato come la maggior parte degli studenti avesse “lasciato pacificamente la piazza molto prima e che quelli rimasti sono stati convinti a fare altrettanto dai militari intervenuti”. Un racconto, questo, confermato anche dal dissidente cinese Xiaoping Li ora residente in Canada: "Alcune persone hanno parlato di 200 morti in piazza e altri hanno sostenuto che che il numero è stato di 2.000 morti. Ci sono state anche storie di carri armati che hanno investito studenti che cercavano di lasciare la piazza. Devo dire che non ho visto niente di tutto questo. Sono stato in piazza fino alle 6.30 del mattino". [3]


Ora abbiamo a disposizione anche i rapporti pubblicati in questi anni nell'ambito del progetto Wikileaks e ripresi in esclusiva dal quotidiano britannico Telegraph. Secondo i cablogrammi riportati l'esercito cinese ha aperto sì il fuoco, ma non nella piazza. Tra i testimoni oculari è citato un diplomatico cileno che ha visto “l’esercito entrare nella piazza e non ha osservato nessuno sparare sulla folla, anche se spari sporadici si erano sentiti ha detto che la maggior parte delle truppe entrate nella piazza erano effettivamente armate solo di armi anti-sommossa come manganelli e mazze di legno, sostenute alle spalle da soldati armati”, aggiungendo che “nessuno sparava sulla folla di studenti presso il monumento”. Infine, lo stesso diplomatico, riporta come, una volta raggiunto un accordo “gli studenti lasciavano la piazza dall’angolo sud-est stringendosi per mano e formando una colonna”. [4]


C'è poi la storia di una foto sulla quale si è fissata, fin dall'inizio, una precisa lettura degli avvenimenti. Quella che ritrae il giovane che impedisce al carro armato di avanzare, la cui continua riproposizione risponde bene alla volontà di dividere chiaramente, senza sfumature, il campo della contesa: da una parte una pacifica e disarmata protesta di popolo, dall'altra la forza brutale della repressione. Una precisa operazione è alla base di questa scelta e l'ha analizzata un attento studioso dei “linguaggi” dell'impero e del “terrorismo dell'indignazione” come Domenico Losurdo: “È possibile per così dire impiccare a un’immagine, vera o falsa e comunque accuratamente e strumentalmente selezionata, un concorrente, un potenziale nemico, un nemico da screditare o, più esattamente, da additare al pubblico ludibrio dell’opinione pubblica internazionale” [5]. Già perché una selezione è stata compiuta nel racconto di quegli avvenimenti anche nella rappresentazione simbolica. Dovremmo, infatti, chiederci il motivo per il quale altre foto – tra l'altro facilmente reperibili in rete – come quelle che ritraggono un soldato cinese bruciato e poi appeso ad un lampione e il corpo di un suo commilitone, sempre bruciato, esposto pubblicamente, con una corda al collo, sul lato di un autobus - non abbiano avuto ugual fortuna. La risposta potrebbe essere persino banale: contraddirebbe il racconto, il “mito” sorto sulla tragedia, farebbe riflettere, rischierebbe di suscitare una sorta di simpatia verso l'orribile fine di quei soldati.


Ma torniamo alla celebre foto (e filmato), quella detta del “Tank man” che ritrae un ragazzo che ostacola con il corpo l'avanzata di un tank, perché da essa scaturisce un altro messaggio poco considerato: la volontà del carrista cinese – che sta uscendo da Piazza Tienanmen - di evitare a tutti i costi di schiacciare sotto il peso dei cingolati il giovane manifestante. Non potrebbe, quindi, essere immediatamente esplicativa della volontà delle autorità cinesi di evitare ogni inutile spargimento di sangue e di ricorrere il meno possibile alla forza? Una disposizione che è frutto di espliciti ordini che arrivano dalle autorità civili e militari e che possiamo conoscere da tempo grazie alle rivelazioni contenute nei “Tienanman papers”, presentati all'epoca come le prove risolutive per la condanna della dirigenza cinese. È tra le pagine che troviamo indicazioni come queste: “Il 20 maggio Yang Shangkun (presidente della Repubblica popolare e stretto collaboratore di Deng Xiaoping) promulgò una serie di ordini simili, in cui intimava ai soldati di non rivolgere le armi sui civili inermi anche se provocati”; durante una riunione allargata della Commissione centrale militare dello stesso giorno si ribadisce che “se dovesse capitare che le truppe subiscano percosse o maltrattamenti fino alla morte da parte delle masse oscurantiste, o se dovessero subire l'attacco di elementi fuorilegge con spranghe, mattoni o bombe molotov, esse devono mantenere il controllo e difendersi senza usare le armi. I manganelli saranno le loro armi di autodifesa e le truppe non devono aprire il fuoco contro le masse. Le trasgressioni verranno prontamente punite” [6]. E sempre dalle rivelazioni e dai rapporti contenuti nel poderoso volume possiamo comprendere come poco corrisponda al vero la descrizione oleografica di un movimento pacifico. I soldati dell'Esercito di liberazione nazionale si trovano di fronte a veri e propri assalti, attacchi armati, posti di blocco. Sono giorni nei quali i manifestanti si impadroniscono di armi, le distribuiscono e ne fanno mostra (anche in questo caso le tante foto disponibili hanno ricevuto poca attenzione). Stando alle descrizioni, non c'è dubbio sul fatto che i soldati chiamati a fare mostra di moderazione siano esposti al concreto pericolo di morte: “Più di cinquecento camion dell'esercito sono stati incendiati in corrispondenza di decine di incroci […]. All'incrocio Cuiwei, un camion che trasportava sei soldati ha rallentato per evitare di colpire la folla. Allora un gruppo di dimostranti ha cominciato a lasciare sassi, bombe molotov e torce contro di quello, che a un certo punto si è inclinato sul lato sinistro perché uno dei suoi pneumatici si è forato a causa dei chiodi che i rivoltosi avevano sparso. Allora i manifestanti hanno dato fuoco ad alcuni oggetti e li hanno lanciati contro il veicolo, il cui serbatoio è esploso. Tutti e sei i soldati sono morti tra le fiamme”. [7]


In tutto questo il Partito comunista cinese – al cui interno si producono divisioni sulla decisione di attuare la legge marziale e su come affrontare il dialogo con i manifestanti – vede messi sempre più in discussione sia il proprio ruolo che il sistema socialista. E monta anche il timore che che gli eventi che si stanno sviluppando nel Paese possano essere sfruttati anche da forze esterne per destabilizzare e appoggiare un cambio di governo favorendo le forze più liberali e più vicine all'Occidente.


Ancora una volta i “sensazionali” documenti ci descrivono come una parte del partito, quella più vicina al segretario Zhao Ziyang e riunita attorno alla Commissione statale per la ristrutturazione del sistema economico, ipotizza azioni per bloccare le colonne militari e propone la compilazione di dossier per smascherare i propri avversari e di convocare una riunione di emergenza dell'assemblea nazionale popolare, non rivelandosi estranea alla pubblicazione di una edizione straordinaria non ufficiale del Quotidiano del popolo . È facile ipotizzare che si sarebbe potuta aprire una pericolosa fase di conflitto tra poteri. Fermiamoci un attimo proprio sulla figura di Zhao Ziyang, già segretario del Partito comunista cinese, e da noi in precedenza incontrato in relazione ai “paletti” messi per delimitare il processo di democratizzazione, e nei giorni di Tienanmen (ma ancora oggi) lodato in Occidente come campione della democrazia e come una sorta di Gorbaciov cinese. Ebbene, la sua visione politica è legata alla corrente di pensiero denominata “neo-autoritaria” per la quale l'approfondimento delle riforme economiche e l'apertura al mercato necessitano di “una forte centralizzazione del potere nella sfera politica”, di un potere autoritario capace di imporre le riforme strutturali senza preoccuparsi di doverne rendere conto. E quali sono gli ostacoli che si frappongono alla liberalizzazione economica? Non solo i conservatori all'interno del partito, ma la burocrazia centralizzata e le imprese di Stato. Campione della democrazia o del liberismo economico autoritario tanto apprezzato in Occidente? Il dubbio è lecito. È sempre lui a rifiutare ogni ipotesi di separazione dei poteri, la competizione multipartitica e la libertà di espressione che troppo ricordano i disordini della rivoluzione culturale: “non si potrà dunque abbandonare – afferma nel rapporto presentato al congresso del partito nel 1987 – la dittatura della democrazia popolare. […] non dobbiamo permettere mai più lo sviluppo di quella “grande democrazia” che minò la legge dello Stato e la stabilità sociale”. [10]


Senza dubbio si sviluppa una lotta tra fazioni nella quale i manifestanti, appoggiati da una parte, si inseriscono mettendo in mostra una invidiabile capacità strategica: “considerando l'abilissima strategia impiegata dagli studenti nelle loro prime manifestazioni, sembra proprio che il movimento contestatario sia stato incoraggiato all'interno del Partito da militanti e politici esperti, i quali condividevano alcune delle sue aspirazioni e che speravano di servirsene per ottenere il potere”. [11]


Sempre leggendo tra le oltre cinquecento pagine di quello che è stato definito “il primo racconto diretto della primavera di Pechino e della sua sanguinosa repressione”, ci si imbatte in un'altra preoccupazione del vertice del partito: quella che potenze straniere possano approfittare della situazione e intervenire a fini di destabilizzazione. Ci troviamo di fronte ad uno spauracchio alimentato ad arte per sostenere la repressione e la denuncia della sovversione interna? Può essere, ma diversi elementi portano a dire che non tutto fosse il frutto di una fantasiosa propaganda. Sono giorni nei quali le trasmissioni di Voice of America [12] sono utilizzate per diffondere notizie e voci “non confermate”, tramite traduzioni su volantini, tra i manifestanti. E sono sempre giorni nei quali è presente a Pechino Gene Sharp, oggi assai noto nel ruolo di teorico delle “rivoluzioni colorate”. Le autorità hanno di fronte a loro una situazione di caos che impedisce di controllare l'afflusso di persone a Pechino per la partecipazione alle manifestazioni. Una situazione ideale per chi ha in mente progetti di destabilizzazione come racconta – in presa diretta – il giornalista italiano Ilario Fiore, insospettabile vista la sua simpatia nei confronti del movimento studentesco: “A Hong Kong il governo centrale mantiene l'equivalente di un'ambasciata che ufficialmente appare sotto l'etichetta dell'ufficio dell'agenzia Nuova Cina. Il direttore della sede non è naturalmente un corrispondente ma un funzionario governativo col rango di ambasciatore straordinario. La sua agenzia non ha certo mancato al suo compito di informare il governo sulle voci che corrono e sulle iniziative che si prendono a sostegno della protesta. Di qui la campagna dei servizi di sicurezza per identificare gli agenti segreti che sarebbero arrivati a Pechino e a Shanghai da Hong Kong e da Taiwan. Va anche detto che non si tratta di una battuta contro i fantasmi per due ragioni particolari: la prima è che nella confusione delle ultime settimane il controllo degli arrivi e delle partenze negli aeroporti, più che rilassato, si è letteralmente disintegrato, non solo per i documenti ma anche per i bagagli. Chiunque può arrivare da Hong Kong con documenti falsi e valuta estera col minimo rischio di essere scoperto. La seconda ragione sta nel fatto che molte iniziative di solidarietà e di appoggio materiale sono state rese pubbliche sui giornali, alla televisione e durante le manifestazioni che i cinesi di Hong Kong hanno organizzato a favore degli studenti di Pechino. E dunque possibile che oggi a Pechino si muovano "i clandestini" nella loro assurda missione di spingere la protesta popolare verso la controrivoluzione armata”. [13]


Proprio a Taiwan – veniamo a sapere dai resoconti giudicati attendibili – che il comitato permanente centrale del Kuomintang ha approvato una risoluzione che invita il governo e il popolo della isola ad essere “piùintraprendenti” nell'aiutare gli studenti cinesi ad ottenere “più velocemente la democrazia e la libertà”.[14] C'è poi l'attività senza sosta dell'attaché militare all'ambasciata Usa Jack Leide che istituisce posti di ascolto in diversi luoghi della capitale, equipaggia i suoi uomini con radiotelefoni portatili “contrabbandatiall'estero”, mentre lo staff diplomatico stabilisce solidi rapporti con membri dell'esercito, del movimento studentesco e diversi intellettuali. [15]


Sono fatti, tra l'altro poco conosciuti dall'opinione pubblica, che aprono dubbi e interpretazioni diverse, formando un quadro più ampio di quel che è avvenuto in quei giorni; lasciano, inoltre, aperta l'ipotesi che in quella primavera si stesse consumando il primo esperimento di “rivoluzione colorata” - il successo sul campo sarebbe giunto solo un decennio dopo a Belgrado [16] - in grado di favorire una parte dell'establishment nella presa del potere.


Ancora oggi il numero dei morti dell'intervento dell'esercito a Pechino il 3 e 4 giugno del 1989 non è accertato, visto che le stime variano dalle centinaia alle migliaia. Le conseguenze per il governo cinese sono senza dubbio pesanti, soprattutto nei rapporti internazionali e nella collaborazione con le potenze occidentali, entrambi fondamentali per la prosecuzione della politica di riforma. Per alcuni anni si interrompono gli scambi culturali, vengono sospesi temporaneamente gli investimenti stranieri, ed è decretato l'embargo sulla fornitura di armi. Al di là delle critiche e delle condanne politiche, più di tutto si rischia un pericolo isolamento economico perché gli Stati Uniti e gli alleati europei fanno pressione sulla Banca mondiale per il congelamento dei crediti, mentre il Giappone rimette in discussione un aiuto accordato l'anno precedente. E la cronaca di quei giorni, il racconto della protesta e dell'intervento dei carri armati, rischiano di minare nelle fondamenta la credibilità internazionale del tassello fondamentale per il compimento dell'unificazione nazionale quale quello sintetizzato nella formula “un Paese due sistemi”.


NOTE

1 Mathews J., The Myth of Tiananmen. And the price of a passive press, Columbia Journalism Review, settembre/ottobre 1998.

2 Kristof N. D., China update: how the hardliners won, The New York Times, 12 novembre 1989.

3 Clark G., Birth of a massacre myth, The Japan Times, 21 luglio 2008.

4 Moore M., Wikileaks: no bloodshed inside Tiananmen Square, cables claim, The Telegraph, 4 giugno 2011.

5 Losurdo D., 2014, 

6 Nathan A. J. E Link P., 2001, 274, 293.

7 Ivi, 444-445.

8 Ivi, 286.

9 Baum R., 1986, 238.

10 Congiu F., 2012, 78.

11 Bergère M-C., 1994, 317.

12 Si tratta di una radio, interamente finanziata dagli Stati Uniti attraverso fondi stanziati ogni anno dal Congresso, le cui trasmissioni negli anni della guerra fredda dovevano essere di supporto alla politica estera Usa nella denuncia del regime sovietico. Proprio nel 1989 ha ampliato la sua programmazione in cinese mandarino e cantonese per informare sul movimento pro-democrazia nel Paese. Si rinvia a Whiten J. B., Cold War Propaganda, The American Journal of International Law Vol. 45, No. 1 (gennaio, 1951), pp. 151-153.

13 Fiore I., 1990, 250.

14 Nathan A. J. E Link P., 2001, 258-259.

15 Losurdo D., 2014, 115-118.

16 Per un quadro storico e ideologico delle rivoluzioni colorate si rinvia a Macchi A., Metodo Belgrado: i segreti delle rivoluzioni colorate in A che servono i Servizi, Limes, n. 7, 2014.

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