Francesco Erspamer - Aprire le «scatole nere»

Francesco Erspamer - Aprire le «scatole nere»

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Quando si siano subite delle dure sconfitte ci sono due opzioni: la prima è arrendersi, rifugiandosi nella rassegnazione (e feticizzando la disfatta) o addirittura passando al nemico (per sentirsi dei vincenti). Entrambe le modalità sono facili e per questo praticate dai più, spesso a partire da coloro che un tempo sfoggiavano intransigenza. La seconda strada, più difficile perché richiede una tenacia priva però di fanatismo, è invece quella di riconoscere la propria condizione di debolezza e dunque ritirarsi e se necessario fuggire, ma per ricompattarsi un po’ più in là dopo aver ragionato sui motivi del proprio fallimento e sulla nuova strategia da seguire.

A me pare la soluzione più logica ma forse è una questione di carattere. Comunque è ciò che ho fatto negli scorsi mesi; ho riflettuto su come si possa continuare a resistere in un mondo in cui l’invadenza dei media e delle tecnologie, con i loro deliberati effetti individualizzanti (è l’unica ragione per cui abbiano assunto una tale importanza economica), sta inibendo e in prospettiva eliminerà qualsiasi coscienza, ossia qualsiasi sapere davvero collettivo, partecipato, aggregante (come Foscolo alle storie, io vi invito alle etimologie: in questo caso «cum + scire») e dunque politicamente efficace e, per i potenti e i ricchi, minaccioso.

In tale contingenza mi pare vano persistere in un’opposizione sui singoli eventi, che tanto vengono e passano in tempi ormai brevissimi, senza lasciare tracce. Visto per di più che proprio il dare importanza a tali eventi, tutti resi rilevanti dai media e dalle loro tecnologie (le vuote ma seguitissime «breaking news» generalmente riprese da CNN, le sparate degli «influencer», meglio se adolescenti, nonché le bufale che infiammano le sette diffuse sui sedicenti «social»), è una dimostrazione di subordinazione al loro potere modellizzante.

Occorre invece aggredire direttamente i dispositivi di manipolazione, aprire le «scatole nere» per comprenderne il funzionamento invece di accontentarsi di accettarne gli effetti, manco fossero (e come tali vengono spacciati) naturali.
 
Un esempio calcistico: il VAR. Indignarsi quando gli arbitri ne abusano per favorire la squadra più influente, serve solo ad accrescerne l’autorità; infatti molto spesso tali errori o abusi sono usati per invocare l’introduzione di un’intelligenza artificiale (e come tale neutrale ancor più che esatta) che escluda del tutto il giudizio umano, imperfetto e corruttibile. Ma dopo, quis custodiet ipsos custodes, alieni e onniscienti? Davvero vi fidate di macchine programmate da esperti milionari al servizio di miliardari e delle loro multinazionali californiane (o magari cinesi, ma almeno in Cina la politica ancora controlla la tecnologia, e non viceversa come in America e nelle sue colonie)? Per non dire, a mio parere ancora più pericolosa, la riduzione della giustizia (qui sportiva ma in prospettiva della giustizia in generale) a una questione di millesimi di millimetro nella valutazione di un fuorigioco, indifferenti al fatto che poi a vincere siano sempre o quasi le stesse società, le più ricche, e che vincendo diventino ancora più ricche, e in quanto ancora più ricche ancora più vincenti.

Magari non siete d’accordo però questo è quello che mi propongo di fare: rifiutarmi di giocare sul terreno e nei termini scelti dal potere liberista e provare invece a decostruirne le strutture e i metodi, e possibilmente farlo insieme ad altri e così riuscire addirittura a divertirmi. Solo così riesco a giustificare la decisione di tornare a intervenire su una piattaforma, facebook, che dopo le ultime trasformazioni considero, al pari del suo padrone, una macchina di disumanizzazione al servizio del peggior neoliberismo americano, consapevole della crisi che sta per colpire il pianeta a causa delle proprie pratiche e intenzionato ad accelerare la deriva per raggiungere al più presto il punto di non ritorno.

Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

 

Professore di studi italiani e romanzi a Harvard; in precedenza ha insegnato alla II Università di Roma e alla New York University, e come visiting professor alla Arizona State University, alla University of Toronto, a UCLA, a Johns Hopkins e a McGill

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