Gerusalemme, fonte israeliana denuncia l'"ultimatum" di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti contro Abu Mazen

Gerusalemme, fonte israeliana denuncia l'"ultimatum" di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti contro Abu Mazen

Secondo quanto riferisce il sito israeliano Debka, e non solo, i due paesi stanno lavorando attivamente nel segreto per piegare il presidente palestinese alle ragioni (sic) del presidente americano.

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PICCOLE NOTE


La controversia su Gerusalemme vede intrecciarsi manovre oscure. Ne riferisce Debkafile, sito israeliano ben informato, che in due articoli rivela le indebite pressioni da parte dei principi ereditari dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti (rispettivamente Mohamed bin Salman e Mohamed bin Zayed) sul presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen per convincerlo a non contrastare Trump.


Sul punto Debka riporta due inconsueti incontri tra Abu Mazen e i principi di cui sopra.


Il primo avviene a metà dicembre. Abu Mazen, dopo aver partecipato alla Conferenza per la cooperazione islamica a Istanbul, che ha condannato la dichiarazione unilaterale di Trump su Gerusalemme, si trova in Francia per un appuntamento con Emmanuel Macron, il leader occidentale che più si è speso per rivendicare il destino di Gerusalemme come capitale di due Stati (di Israele e della  Palestina).


In questa temperie, i due principi «ordinano» al presidente dell’Autorità nazionale palestinese di troncare la sua visita in Francia per recarsi immediatamente a Ryad. Abu Mazen si precipita.


A «persuadere» il presidente palestinese a ottemperare, riferisce Debka, è l’arresto, avvenuto nella capitale saudita, di Sabih al-Masri, un magnate con doppia cittadinanza, giordana e saudita, presidente dell’Arab Bank e uomo cardine dell’economia e della finanza della Giordania e della Palestina.


Il magnate rischia di fare la fine degli illustri quanto ricchissimi dignitari sauditi, che bin Salman ha mandato in carcere in un’operazione anti-corruzione, di fatto una purga per guadagnare a sé il controllo completo della monarchia e parte del loro patrimonio, che devono versare se vogliono essere rimessi in libertà.


Giunto a Ryad, i principi pongono un «ultimatum» al presidente palestinese, chiedendogli di  «desistere dalle proteste pubbliche contro i piani di pace del presidente Donald Trump e di porre fine alla sua collaborazione in questa campagna [per Gerusalemme ndr] condotta con il re Abdullah di Giordania e il presidente turco Tayyip Erdogan».


La ricostruzione di Debka fa il paio con quanto riporta al Jazeera. Nel riferire l’arresto del magnate giordano-saudita, il media arabo riporta il commento del parlamentare giordano Wafa Bani Mustafa: «Mohamed Bin Salman e gli Emirati Arabi Uniti stanno cercando di strangolare l’economia della Giordania perché accetti le loro condizioni, si sottometta alla loro leadership nella regione e accetti il cosiddetto “accordo definitivo” di Trump».


Pressioni indebite che vengono reiterate. Quando il 21 dicembre l’Onu condanna le dichiarazioni di Trump sullo status di Gerusalemme, pochi notano un’assenza più che significativa. Abu Mazen infatti diserta la seduta, nonostante sia più che significativa per la causa palestinese.


Egli infatti, riferisce un’altra nota di Debka, è ad Abu Dhabi, dove il principe ereditario Mohamed bin Zayed gli ribadisce che deve porre fine alla sua contrapposizione con Trump e deve «prendere le distanze in fretta» da Erdogan, che sta cavalcando l’ondata delle proteste arabe contro il presidente americano.


Un avvertimento che segue quello che il giorno prima aveva ricevuto a Ryad, stavolta dal principe Mohamed Bin Salman. Al di là dei contenuti non troppo commendevoli dei colloqui, quel che più importa è che i due principi hanno costretto Abu Mazen a disertare la votazione alle Nazione Unite, così importante per la sua causa.


Ryad e Abu Dhabi sono strette alleate di Washington e Tel Aviv, anche in funzione anti-iraniana. Non hanno potuto non condannare pubblicamente la dichiarazione di Trump, pena l’isolamento nel mondo arabo.


Ma quanto riferisce Debka, e non solo, indica che stanno lavorando attivamente nel segreto per piegare il presidente palestinese alle ragioni (sic) del presidente americano.


E per accettare una pace da loro sponsorizzata. Probabilmente una rielaborazione del piano saudita del 2002, che sia ben accetta sia a Washington che a Tel Aviv.


La posizione dei due principi è in linea con la loro priorità del momento, che è appunto quella di contenere l’influenza iraniana – e della Turchia – nel mondo arabo.


Quel che lascia più che perplessi sono le modalità con le quali si dipana la loro azione diplomatica, fatta di pressioni occulte quanto indebite. Immaginare di realizzare la sospirata pace tra israeliani e palestinesi attraverso tali mezzi suscita non poche perplessità. Peraltro c’è il rischio di innescare nuove e più profonde tensioni in un’area fin troppo tormentata.

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