LA SCONFITTA DI UN PREMIER ACCECATO DALL’EGO

LA SCONFITTA DI UN PREMIER ACCECATO DALL’EGO

Le dichiarazioni post-referendarie di Renzi, il disprezzo per le ragioni del No e la nascita del governo “Scorcelletti”

I nostri articoli saranno gratuiti per sempre. Il tuo contributo fa la differenza: preserva la libera informazione. L'ANTIDIPLOMATICO SEI ANCHE TU!


di Michel Fonte 

Matteo Renzi ha confermato tanto nella breve conferenza nell’immediatezza dello scrutinio referendario quanto nei venti minuti scarsi di discorso in seno alla direzione del PD del 7 dicembre, di non aver compreso, politicamente parlando, il voto di rigetto che ha asfaltato le sue ambizioni, l’unica realtà che è riuscito a cogliere è quando ha detto che “se sei stato indicato dal Pd a fare il premier hai la fortuna di poter governare e per come la vedo non hai il diritto di mettere il broncio”. 
Con queste parole colui che si era presentato come il “rottamatore”, ha involontariamente stigmatizzato il peccato originale di un mandato ricoperto non in virtù di un’investitura elettorale, quella che viene definita oggi con molto fastidio sovranità popolare, ma in forza dei soliti giochini di potere e delle vecchie faide di correnti partitiche, e pensare che si era presentato come politico duro e puro che non avrebbe mai accettato di dirigere un governo nato nei corridoi e nelle stanze oscure di intrallazzatori istituzionali. Come spesso accaduto durante la sua esperienza politica di presidente del consiglio, ha  rinnegato le sue stesse affermazioni con splendidi artifici di retorica: “Io ho preso un fracco di voti alle primarie, mentre in Parlamento c'è chi stato eletto con 122 click”; aggiungendo a questa dichiarazione un’altra non meno piccata in cui affermava che “nessun presidente del consiglio viene direttamente eletto, il punto vero è che io sono andato a guidare il governo su richiesta di Giorgio Napolitano e su voto parlamentare: da un punto di vista costituzionale è tutto perfetto,  era una situazione di emergenza”.
Se è vero che nessun presidente del consiglio è eletto direttamente dal popolo, è altrettanto vero che negli ultimi 22 anni, cioè a partire dal 1994, con l’entrata nell’agone politico di Silvio Berlusconi e Romano Prodi,  il leader del partito di maggioranza dentro della coalizione vincente alle elezioni politiche ha sempre acquisito il ruolo di guida dell’esecutivo in forza di un programma presentato agli elettori (Silvio Berlusconi I maggio 1994 – gennaio 1995, Romano Prodi I maggio 1996 – ottobre 1998, Silvio Berlusconi II giugno 2001- aprile 2005, Silvio Berlusconi III aprile 2005 – maggio 2006, Romano Prodi II maggio 2006 – maggio 2008, Silvio Berlusconi IV maggio 2008 – novembre 2011), al netto di perniciosi ribaltoni, si era creata una prassi non scritta né costituzionalizzata ma perfettamente istituzionalizzata e apprezzata dal corpo elettorale. Non è un caso che l’interruzione del primo governo Berlusconi con lo zampino dell’allora presidente Oscar Luigi Scalfaro, che portò alla nascita del governo Dini (gennaio 1995 – maggio 1996), e la successiva defenestrazione del primo governo Prodi con la salita a Palazzo Chigi di Massimo D’Alema (D’Alema I ottobre 1998 – dicembre 1999, D’Alema II dicembre 1999 – aprile 2000) sempre con il beneplacito di Scalfaro, furono vissuti come un tradimento non solo da parte dei diretti interessati ma anche dagli stessi elettori, segnando un progressivo scollamento tra la classe politica e la società civile, al punto che la lenta ma inarrestabile crescita dell’astensionismo inizia proprio con il nuovo millennio e specificamente con il 18.62% nelle elezioni politiche 2001, 16.38% nelle elezioni politiche 2006, 19.49% nelle elezioni politiche 2008 e 24.8% nelle elezioni politiche 2013* (*per il dato si fa riferimento agli elettori della Camera), il dato è ancora peggiore se si guarda alle elezioni regionali ed europee (26.96% nelle elezioni regionali 2000, 28.61% nelle regionali 2005, 35.81% nelle regionali 2010, 46.1% nelle regionali 2015; 26.91% nelle elezioni europee 2004, 33.53% nelle elezioni europee 2009, 41.31% nelle elezioni europee 2014* [*astensione Italia senza comprendere Circoscrizione Estero] Fonte Ministero Dell’Interno). Questi numeri sono tutt’altro che irrisori, soprattutto se si considerano due aspetti, il primo è che Renzi ha sempre rimproverato a Massimo D’Alema di essersi impadronito del governo nel 1998 con un colpo di mano, salvo poi adottare la medesima condotta per silurare Enrico Letta, ma c’è di più, come si evince dalle sue stesse dichiarazioni, il premier uscente ha confuso il consenso alle primarie, quindi di una parte politica costituita da simpatizzanti ed iscritti del PD, come adesione dell’intero corpo elettorale, il secondo aspetto è che il risultato alle elezioni europee (23 maggio 2014) ad appena tre mesi dall’inizio del suo mandato (22 febbraio 2014), con il plebiscitario voto raccolto dal PD, ha generato uno straordinario delirio di onnipotenza ad un ego già smisurato, eppure bastava dare uno sguardo attento all’entità dei votanti (58.68%) per comprendere che si trattava di un successo sopravvalutato, a maggior ragione considerando la peculiarità delle consultazioni per l’elezione dei rappresentanti di Strasburgo, che sovente hanno prodotto esiti singolari o insperati, vale la pena ricordarne due, l’exploit della lista Emma Bonino nel 1999 con l’8.46% di voti, quando il bacino di voti alle politiche dei Radicali due anni prima, nel 1996, era stato inferiore al 2% e alle precedenti europee del 1994 avevano raccolto solo il 2.14%, e il  gran balzo in avanti del movimento Italia Dei Valori di Di Pietro con il 7.99% nel 2009, mentre alle politiche del 2008 aveva ottenuto il 4.37% di voti e alle precedenti europee (2004) aveva raggranellato appena il 2.13% dei consensi. Ma Renzi, come suo costume, non si è fermato a riflettere, è andato avanti come un carro armato, sospinto dai consigli del gran vecchio Giorgio Napolitano, sicuro di essere sempre dalla parte corretta, l’uomo giusto al posto giusto, il depositario di un verbo indefettibile e il protagonista del fare, in questo è stato appoggiato da una stampa amica che in nessun periodo repubblicano, nemmeno durante il lungo e indiscutibile dominio democristiano, si è sdraiata ai piedi dell’esecutivo come un  morbido tappetino, è un dato di fatto che Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, Il Mattino, Il Sole 24 Ore si sono schierati senza se e senza ma a favore del Sì. Di fronte alla tremenda batosta direttori e firme di punta di tali quotidiani hanno cercato di smarcarsi dal negativo esito e minimizzare il loro sostegno sciorinando un’imparzialità che non hanno mai avuto, come si deduce leggendo editoriali e articoli di questi interminabili mesi di campagna referendaria, è andata perfino peggio in televisione, dove il duopolio Mediaset - Rai, fatta eccezione per alcuni isolatissimi atolli, ha concesso una visibilità indiscriminata ai propugnatori dell’adesione alla riforma che hanno occupato tutti gli spazi mediatici a loro disposizione relegando i fautori del No agli angoli del ring elettorale, in particolare, il premier ha imperversato nell’etere superando perfino il Berlusconi mediatico dei giorni migliori. Questa sovraesposizione ha generato l’effetto contrario, determinando una crisi di rigetto non solo verso il leader democratico ma anche verso una categoria di giornalisti, consiglieri politici e personaggi dello spettacolo apertamente schierati con Renzi, che però sono risultati più onesti intellettualmente rispetto a quelli che prendendo a prestito le parole di Sciascia si sono rivelati dei “pigliainculo”, mi riferisco a quei politici da riporto e a quegli intellettuali organici, tra gli altri Massimo Cacciari, Paolo Mieli, Romano Prodi e Roberto Benigni, ben lontani dai compagni di strada del vecchio Pci, che hanno assunto serrate posizioni di critica alla modifica costituzionale, ma poi si sono adeguati alla natura del riordino renziano adducendo l’assenza di alternative politiche e pronosticando immaginari salti nel buio, in tal senso, è sembrato di rileggere il romanzo noir già narrato durante quello che avrebbe dovuto essere il salvifico governo Monti, l’unico secondo gli osservatori economici e gli analisti nazionali e internazionali in grado di evitare il baratro, abbiamo poi visto com’è andata a finire, se non fosse stato mandato a casa dagli elettori, “gli irriconoscenti populisti”, con l’austerità pompata a dosi da cavallo nel sistema economico il paese sarebbe morto per accanimento terapeutico, come dimostrano tutti i dati statistici, ebbene, questi “pigliainculo” hanno generato negli elettori il sospetto che più che difendere ragioni oggettive tutelassero piccole rendite personali da riscuotere al momento opportuno, e così che, come Nerone, hanno deciso che se il filosofo non può servire la piccola patria non è nemmeno adatto a servire la grande patria, invitandolo con il loro voto a sgomberare il campo da ipocrisia e cinismo.
La scoppola subita dai riformatori ha messo in circolo due narrazioni del paese che meritano di essere trattate, la prima, riguarda attributi e inclinazioni dell’elettore del No. Dall’analisi dei flussi di voto appare che il rifiuto alla modifica costituzionale si sia manifestato in maniera segnata negli elettori con un’età compresa tra i 18 e i 34 anni, che nella stragrande maggioranza, 81%, hanno espresso un secco dissenso, altrettanto schiacciante è stato il rigetto palesato nel segmento di età 35-54 anni con il 67% di no, mentre, una breccia la riforma l’ha incontrata, con uno scarto contenuto, tra i votanti con un’età che va dai 55 anni e oltre, in cui prevalgono i favorevoli con il 53% contro il 47% dei contrari. La prima considerazione che la lettura dei dati ha suggerito al cerchio renziano è stata l’esaltazione della lungimiranza degli anziani rispetto all’immaturità dei giovani, lo stesso premier nell’immediatezza dei commenti al voto non ha mancato con il suo abituale scherno di far riferimento alla festa che l’aspettava con i suoi nonni, alludendo in maniera velata al voltafaccia dei giovani, peccato che la gioventù non possa essere criminalizzata, perché sarebbe come sputare in faccia al futuro da parte di un ex presidente del consiglio che si è autorappresentato come il paladino di questa nuova classe di millenium, riportando in auge lo stile yuppie (Young Urban Professional)  degli anni 80’, che ha sublimato nella spregiudicatezza, che da sinistra, ha mostrato abbracciando l’elite capitalista – basti pensare agli esordi al fianco di Marchionne – nella certezza di trovarvi non solo la realizzazione personale ma anche la terza via di un improponibile cammino progressista verso un liberismo sui generis. Renzi non ha fatto che battere lo stesso sentiero, e con i medesimi errori, battuto da tutti i governi degli ultimi vent’anni, cioè propugnare una fede cieca e assoluta nel liberismo quando si è trattato di approcciare il tema del lavoro, della piccola impresa, dei lavoratori autonomi, del mondo artigiano, e una dottrina di ripiego, ultrareazionaria, quando si doveva amministrare il settore dell’alta finanza, delle banche, dei fondi comuni d’investimento, delle grandi imprese e delle varie caste professionali, detto in parole semplici, liberista e forte con i deboli, ultraconservatore e debole con i forti, lo ha fatto scientemente, così come consapevolmente ha portato avanti la battaglia referendaria, anche se ora qualcuno cerca di sgravarlo dalle responsabilità tirando in ballo Giorgio Napolitano, che pure ha avuto il suo ruolo di mentore e sceneggiatore dell’operazione, ma che ha trovato nel formalmente ex premier un superbo regista e interprete, pronto a conquistare l’intera scena politica. Non potendo utilizzare l’argomento generazionale com’era avvenuto durante la Brexit, in cui si erano tacciate le persone anziane e di mezza età delle zone rurali di aver inclinato con il loro analfabetismo culturale il voto verso l’uscita dall’UE, rubando in tal modo ai giovani della City e dei grandi centri urbani un futuro di prosperità e di scambi formativi all’interno del grande mercato europeo, si è giocata dapprima la carta del razzismo, allorquando diversi esponenti del PD, con a capo il redivivo Chicco Testa, hanno stigmatizzato che la sconfitta era dovuta essenzialmente al voto meridionale, ma a mano a mano che si completava lo spoglio ed il quadro si delineava con chiarezza, si  è compreso che anche al nord e al centro la prevalenza dei contrari era in alcuni casi schiacciante (Friuli Venezia Giulia 60.97%, Veneto 61.94%, Liguria 60.8%, Lazio 63.32%, Abruzzo 64.39%) in altri palese (Piemonte 56.47%, Lombardia 55.49%, Valle d’Aosta 56.75%, Marche 55.05%), e che il partito del Sì solo aveva prevalso in tre regioni, in Emilia Romagna con uno scarto minimo (50.39% contro il 49.61%), e in Toscana (52.51%) e Trentino Alto Adige (53.87%) con un margine più consistente. 
Sprovvisti di questa ennesima arma di propaganda, i seguaci del “rottamatore” hanno dovuto inventarsi altro, e hanno pensato bene di offendere i sostenitori del No addebitando la loro scelta a un’esplosione di livore sociale, in tal senso, non si sono preoccupati di mostrare la faccia più truce e irrispettosa che la politica abbia esibito negli ultimi anni nei confronti di cittadini, che hanno soltanto esercitato il loro libero, personale e segreto diritto di voto. È chiaramente un sintomo dei tempi malati che viviamo, in cui il principio “una testa un voto”, conquista della rivoluzione francese che sancisce un’assoluta eguaglianza di voto tra ricchi e poveri, alti e bassi, belli e brutti, meridionali e settentrionali, istruiti e illetterati, è giudicato come uno scandalo insopportabile, d’altronde, il continuo riferimento ai quartieri bene di Roma, nello specifico ai Parioli, o al centro di Milano, come distretti avanguardisti di adesione alla riforma di una presunta classe sociale di illuminati soggiogata dai “brutti, sporchi e cattivi” dei quartieri popolari e periferici contrari al cambiamento, è un altro tassello di quella narrazione edulcorata ad arte per addolcire il sapore agro di una disfatta e, soprattutto, rispolverare gli abusati concetti di populismo e rabbia sociale che si sarebbero opposti  al rinnovamento. La realtà è ben altra, all’evidente vulnus di conoscenza sull’origine del vocabolo che si deduce dal rimando disinvolto che se ne fa, si unisce l’incapacità di comprendere che non esiste, nell’accezione negativa che si vuole dare al termine, il populismo, ma “i populismi”, di destra,  sinistra e centro (nei fatti è esistito anche un populismo democristiano appiattito su posizioni di stretta osservanza cattolica), di base e di vertice, anti-elitari e elitari, ed è proprio su quest’ultimi che occorre soffermarsi, perché a schiumare risentimento e irritazione al cospetto di una libera e democratica consultazione conclusasi con un esito diverso da quello sperato, sono stati proprio i ceti benestanti, le cricche e i cerchi magici, che si presentano come depositari di un populismo demagogico di natura oligarchica, in cui la collettività è considerata, come nella filosofia cuochiana, un fanciullo che non sa cosa è buono e giusto per il proprio bene, motivo per il quale va educato secondo un paternalismo tipico del padrone d’azienda ottocentesco, che può fare delle concessioni quando lo ritiene opportuno alla stessa maniera in cui può ritirarle sulla scorta di un giudizio puramente soggettivo. Questo pensiero spinto all’estremo può arrivare a privare il popolo del diritto di scegliere, in effetti,  è ciò che si è tentato di realizzare con il combinato riforma costituzionale – legge elettorale (in merito si veda Napolitano e la lobby del “No Brexit”), è da tempo che si sta assecondando una concezione elitaria che fa coincidere il bene del paese con i legittimi interessi di una classe sociale formata da rentier, finanzieri, confindustriali e banchieri, considerati portatori di valori razionali, mentre, dall’altro lato, la altrettanto legittima rivendicazione di interessi di lavoratori, disoccupati, precari e piccola-media borghesia, è considerata irrazionale e contraria al benessere della nazione, fa rabbrividire che questa visione sia propugnata da una forza post-comunista e dalla quale derivano tre dure accuse ai vincitori della contesa referendaria: quella di aver soltanto voluto disarcionare l’uomo al comando lasciato da solo a combattere contro tutti, di non aver votato nel merito della riforma, di aver politicizzato e personalizzato la contesa.
Procedendo per ordine, è molto difficile, se non impossibile, credere che chi detenendo il più alto ruolo apicale di un paese e concentrando nelle proprie mani il massimo del potere politico (presidente del consiglio e segretario del partito di maggioranza relativa) possa ritrovarsi solo, ed in effetti Renzi non è stato per niente da solo, al netto di quanto già detto, cioè del sostegno incondizionato della quasi totalità dei media nazionali che invece a Berlusconi hanno sovente riservato un atteggiamento astioso, al suo fianco si sono allineati Confindustria,  per bocca del suo stesso presidente Vincenzo Boccia e con relativo fuori onda in cui chiedeva al ministro Del Rio di usare le maniere forti con diversi amministratori locali recalcitranti (Michele Emiliano e Rosario Crocetta), Confagricoltura e Coldiretti, il presidente e amministratore delegato di FCA Sergio Marchionne nauseato dal dibattito democratico (27 agosto 2016), l’ambasciatore statunitense in Italia John Phillips (13 settembre 2016), il cancelliere tedesco Angela Merkel (14 settembre 2016), l’amministratore delegato di Pirelli Tronchetti Provera (10 ottobre 2016), il presidente degli Stati Uniti Barack Obama (18 ottobre 2016), il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker (27 novembre 2016),  un bel po’ di stampa internazionale (Financial Time, Wall Street Journal, Time) e intellettuali e artisti in ordine sparso e quelli con relativo manifesto di proselitismo (la scrittrice Susanna Tamaro, i filosofi Umberto Galimberti e Angelo Bolaffi, lo psicanalista Paolo Crepet, gli storici Giuseppe Galasso e Lucio Villari, i registi Paolo Sorrentino, Giovanni Veronesi e Cristina Comencini, quest’ultima in pieno conflitto d’interessi dato che suo figlio Carlo Calenda ricopriva il ruolo di ministro dello sviluppo economico nel dimissionario esecutivo e segue nel dicastero anche nel nuovo governo Gentiloni, il cantante Andrea Bocelli, l’attore Giuseppe Fiorello, la ballerina Carla Fracci e diversi altri), per non parlare poi della silenziosa acquiescenza di Cgil, Cisl e Uil. Renzi non ha mai avuto tanto seguito come in questa occasione, anzi, si è perfino giovato dell’eclisse di Berlusconi, venuto fuori solo negli ultimi giorni quando ha subodorato la vittoria del No, d’altronde, per Verdini e il leader di Arcore,  momentaneamente su sponde opposte, comunque fosse andata sarebbero caduti in piedi, il primo potendo ritornare in caso di insuccesso nel polo di centrodestra come naturale approdo di Ala, ed il secondo, a cui l’eventuale vittoria del sì avrebbe consegnato una riforma copiata per filo e per segno su un suo originario progetto, a dirla tutta, al premier di Rignano sull’Arno mancava solo l’appoggio di Topo Gigio e Biancaneve e avrebbe fatto en plein. D’altra parte, è una caratteristica di Renzi quella di non fare prigionieri, per il suo modo di concepire la politica non basta essere maggioritario, ma è necessario abbracciare la totalità annientando ogni forma di dissenso, il personaggio ha bisogno di essere al contempo protagonista e antagonista, John Rambo e lo sceriffo Teasle, Rocky Balboa e Ivan Drago, ne sa qualcosa la minoranza interna del Pd, minoranza appunto e non opposizione, e l’ultimo dei “pigliainculo”, quel Giovanni Cuperlo arrivato in zona cesarini alla corte del sì (5 novembre 2016), in cambio, almeno ufficialmente, della promessa, successivamente non mantenuta da parte del segretario del suo partito, di modifica della legge elettorale. La realtà è che i veri isolati nella contesa referendaria sono stati i sostenitori del No, che epurati dai media, hanno dovuto produrre uno sforzo enorme, combinando la tradizionale maniera di fare campagna, casa per casa e di piazza in piazza, con i moderni mezzi del web, l’accozzaglia ha vinto contro un esercito super organizzato, la gioiosa macchina da guerra renziana ha sperimentato la stessa disfatta di quella occhettiana. 
Il secondo argomento che dal fronte governativo si è rilanciato nel campo avversario, si ricollega al precedente, nello specifico si rimprovera ai signori del No di non essere entrati nel merito della riforma, sarebbe opportuno partire dalle dichiarazioni di uno dei sostenitori del disegno Boschi, lo storico Villari, secondo il quale dato che non si toccava la prima parte della Costituzione, quella relativa ai principi, si poteva affrontare a cuor leggero un cambio per,  a suo dire, “modernizzare” il paese, occorre rilevare che in questo ragionamento c’è un’evidente carenza di cultura giuridica, perché significa considerare la Costituzione un insieme di pezzi obnubilando che è un corpo unico dotato di una sua precisa identità, in cui le norme si definiscono e si applicano non solo sulla base di un’interpretazione autentica, letterale e logica, ma anche sistematica e teleologica. Prendiamo ad esempio l’art 5: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento”; in riferimento a questa norma di principio il Ddl A. C. 2613-D, a parte l’abolizione delle province senza prevedere un passaggio organico delle loro funzioni (pianificazione territoriale provinciale di coordinamento,  tutela e valorizzazione ambientale, pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, manutenzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale, pianificazione provinciale della rete scolastica e gestione dell’edilizia scolastica nel rispetto della programmazione regionale, raccolta ed elaborazione di dati e fornitura di assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali;) a regioni e comuni, come sempre rimandato ad un futuro riallocamento con apposita legge e senza alcuna previsione di fondi, produceva la disintegrazione  pressoché totale della legislazione concorrente (art.117 Cost.), quella in cui lo Stato detta solo i principi ma a legiferare sono le regioni, sottraendo a tali enti materie come i rapporti con l’UE e il commercio con  l’estero, la  tutela  e sicurezza del lavoro, la ricerca scientifica e tecnologica e il sostegno all’innovazione per i settori produttivi, le grandi reti di trasporto e di navigazione, porti e aeroporti civili, l’ordinamento della comunicazione, la produzione il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia, la protezione civile, la previdenza complementare e integrativa,  il coordinamento  della  finanza  pubblica  e  del  sistema tributario,  le casse di risparmio, le casse rurali e le aziende di credito a carattere regionale nonché gli enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. In sostanza, con l’approvazione della riforma Boschi il principio del più ampio decentramento amministrativo e il riconoscimento e la  promozione delle autonomie locali previsto dal citato art. 5 Cost., sarebbe stato cancellato portando l’Italia indietro di quarantasei anni, era infatti il 1970, quando si diede vita alla nascita delle regioni e ad una prima attuazione dell’enunciato costituzionale, vale a dire, ventidue anni dopo la promulgazione della carta. Il Ddl  A.C. 2613-D, all’art.31, prevedeva perfino qualcosa di peggio in termini di compressione dell’autonomia locale, laddove recita che “su   proposta   del   Governo,  la   legge   dello   Stato   può   intervenire   in   materie   non   riservate   alla   legislazione  esclusiva  (quelle regionali Nda)  quando  lo  richieda  la  tutela  dell’unità  giuridica  o  economica  della  Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”, cioè, una vera e propria inversione di tendenza rispetto alla precedente normativa (“Spetta  alle  Regioni  la  potestà  legislativa  in  riferimento  ad  ogni  materia  non  espressamente riservata alla legislazione dello Stato”), che avrebbe permesso allo Stato centrale di prevalere con una clausola di supremazia finanche in quelle residuali e meno importanti materie lasciate alla legislazione regionale (minoranze linguistiche, pianificazione del  territorio  regionale  e  mobilità  al  suo  interno,   programmazione  e  organizzazione dei servizi sanitari e sociali, promozione dello sviluppo economico locale  e  organizzazione  in  ambito  regionale dei servizi alle imprese e della formazione professionale; servizi scolastici, attività culturali e della promozione dei beni  ambientali,  culturali e paesaggistici, attività  di  valorizzazione e organizzazione regionale del turismo). L’approvazione della legge di revisione costituzionale avrebbe mortificato anche il principio di sussidiarietà contemplato dall’art. 118 Cost. (“Le  funzioni  amministrative  sono  attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne  l’esercizio  unitario,  siano  conferite  a  Province, Città  metropolitane,  Regioni  e  Stato,  sulla  base  dei  principi  di  sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”), principio statuito in ambito europeo tanto nel trattato di Maastricht (7 febbraio 1992, art. 3 B, par. 3) quanto nel successivo Trattato CE (13 dicembre 2007 art. 5).   
Non appare fondata, pertanto, l’argomentazione  che i comitati del No non fossero pienamente coscienti del contenuto della legge e delle sue conseguenze, altri due indizi lo confermano. Innanzitutto, la modifica dell’art. 71 da parte dell’art. 11 Ddl A. C. 2613-D in cui si legge “il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno centocinquantamila elettori, di un progetto  redatto  in  articoli.  La  discussione  e  la  deliberazione  conclusiva  sulle  proposte di legge d’iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari”; in poche parole dalle precedenti 50 mila firme necessarie per la presentazione di un progetto di legge di iniziativa popolare si sarebbe passati a 150 mila, una lesione rispetto a quanto stabilito dall’art. 50 Cost.: “Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità”. In secondo luogo, una delle modifiche più significative dell’intera impalcatura della riforma, l’introduzione di un codicillo proposto nell’art. 38 con cui si emendava l’art. 117 Cost., sottomettendo la potestà legislativa nazionale ai vincoli dell’UE (La  potestà  legislativa  è  esercitata  dallo  Stato  e  dalle  Regioni  nel  rispetto  della  Costituzione, nonché  dei  vincoli  derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea e dagli obblighi internazionali), nei fatti, un elemento che non solo sbugiarda la finta opposizione sfoderata da Renzi nelle ultime settimane di campagna contro la Commissione europea con lo spregiudicato obiettivo di conquistare e sottrarre voti alle forze antieuropeiste (Lega), ma, al contempo, una prova di quel processo di annichilimento dell’ispirazione socialdemocratica della Costituzione che si voleva portare a compimento con una trasformazione in chiave ordoliberista, peraltro, già iniziata con l’approvazione della l. cost. 1/2012 (“Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”), con la quale il governo Monti rifacendosi a un accordo trasversale tra maggioranza e opposizione, poté modificare l’art. 81 Cost. (Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale) senza passare per il referendum confermativo grazie a una maggioranza qualificata (2/3 dei componenti di ciascuna delle Camere in seconda votazione che così si espressero: alla Camera dei deputati su 511 presenti, 489 favorevoli, 19 astenuti, e soli 3 voti contrari, nello specifico, Elio Vittorio Belcastro e Arturo Iannaccone di Noi Sud e Domenico Scilipoti, tra gli assenti diversi esponenti di punta come Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, Luca Barbareschi, Michela Brambilla, Maria Rosaria Carfagna, Giuliano Cazzola, Edmondo Cirielli, Nunzia Di Girolamo, Antonio Di Pietro, Mariastella Gelmini, Niccolò Ghedini, Calogero Mannino, Roberto Maroni, Antonio Martino, Gianfranco Miccichè, Alfonso Papa, Barbara Pollastrini, Paolo Romani, Mariarosaria Rossi, Denis Verdini, Santo Domenico Versace e Adolfo Urso, ufficialmente in missione Deborah  Bergamini, Rosy Bindi, Giulia Bongiorno, Rocco Buttiglione, Giorgio La Malfa, Fiamma Nirenstein, Leoluca Orlando; al Senato presenti 281, favorevoli 235, contrari 11 [Idv], astenuti 34, in congedo o missione Carlo Azeglio Ciampi, Giuseppe Ciarrapico, Marcello Dell’Utri, Marcello Pera e Adriana Polibortone). 
Nemmeno poi vale la pena indugiare sul trittico Italicum – nuovo Senato elettivo di secondo grado – statuto delle opposizioni nel regolamento della nuova Camera dei deputati (gli ultimi due cancellati dall’esito referendario), che potenziava, per effetto di una legge elettorale come l’Italicum, una triplice violazione della Costituzione, e precisamente degli artt. 1, comma 2 (La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione), 48, comma 2 (“Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”), e 67 (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”).
Venendo all’ultimo punto, quello concernente la personalizzazione e politicizzazione della competizione referendaria, è stata scatenata una gazzarra da parte di esponenti piddini dimenticando che lo stesso Renzi si è posto come promotore della sfida “o con me o contro di me”, sicuro che tutto il mondo lo amasse, e per farlo non si è preoccupato di essere l’artefice di un progetto politico che ha imbarcato di tutto e di più, sottacendo sopra indagati, condannati e collusi del PD, sorvolando sugli scandali Guidi e Lupi, reclutando senatori e deputati a destra e a manca (Alfano, Verdini, Migliore, giusto per fare qualche nome), e affiliando consorterie politiche clientelari, soprattutto al sud, quando disponibili a traghettare verso la sua persona pacchetti di voti, tutto ciò in virtù di una realpolitik, cioè di una presa di potere per la preservazione del potere, che nella sua accusa alle vetuste dottrine novecentesche, ha prodotto una semplificazione culturale che ha portato al consolidamento di una filosofia dell’indefinito in cui si è profilata una proposta politica priva di qualsiasi orizzonte morale e ideale. Renzi e i suoi, non contenti, hanno dapprima spacciato la riduzione del numero dei senatori come abolizione del Senato, poi hanno bollato la camera alta come un covo di trasformisti e traditori causa della presunta caduta di tutti i governi degli ultimi anni, motivo per il quale si era deciso di ridimensionarla ed escluderla dal rapporto fiduciario con l’esecutivo, in quest’ultima accusa si è palesata oltre alla malafede una forte lacuna aritmetica, perché in data 24 settembre 2016 i cambi di casacca registrati da inizio legislatura erano stati 117 al Senato e ben 146 alla Camera dei deputati (non possiamo garantire se nel frattempo ci siano stati altri passaggi data la peculiarità dei rappresentanti parlamentari di cambiare più spesso gruppo politico che calzini, anche se gli ultimi movimenti in data 7 dicembre mostrano 3 transizioni verso il Gruppo Misto di deputati di Area Popolare [Giuseppe De Mita, Angelo Cera e Paola Binetti]), e dimenticando di dire che tra i partiti che più si è avvantaggiato da questa transumanza opportunista è stato proprio il Pd del segretario Renzi con l’acquisizione di 10 deputati e 8 senatori, oltre all’allargamento a destra della maggioranza governativa con l’incorporazione di 18 esponenti di Ala e 29 di Area Popolare [Ncd + Udc] al Senato, e 16 di Ala-Scelta Civica, 13 di Democrazia Solidale e Centro Democratico, 26 di Area Popolare e 17 di Civici e Innovatori alla Camera. Non si può negare che negli ultimi venti anni due governi siano caduti per i risicati numeri al Senato, ma sarebbe un falso storico attribuirlo alla maggiore indisciplina dei suoi rappresentati, la realtà è che la fragilità delle maggioranze nella camera alta è sempre stata la conseguenza di pasticciate leggi elettorali, a cominciare dal famoso Mattarellum (leggi 4 agosto 1993 n. 276 e n. 277). L’attuale presidente della repubblica fu colui che in barba all’esito dei referendum abrogativi del 18 aprile 1993, con i quali gli Italiani avevano approvato la cancellazione del sistema proporzionale al Senato (abrogazione l. n. 29, 6 febbraio 1948), decise di utilizzare uno stratagemma per salvare per piccoli interessi di bottega i pochi superstiti della nave democristiana che affondava nelle inchieste giudiziarie di Mani Pulite, permettendo alla scialuppa di salvataggio del Ppi (Partito Popolare Italiano) di portarli in porto, cioè in Parlamento, grazie alla quota di proporzionale, il famoso 25% che temperava le sfide del sistema maggioritario nei collegi uninominali dove ne uscivano puntualmente perdenti. Fu proprio quella correzione con il meccanismo dello scorporo a creare nelle prime elezioni con la nuova legge elettorale (1994) una maggioranza disomogenea e traballante al Senato, una tara che Marco Pannella, promotore del referendum con i Radicali, definì “un tradimento del risultato referendario perché gli elettori sono invitati a votare più per i simboli che per le persone”, mentre il politologo Sartori la soprannominò “Minotauro”, un riferimento alla sua mostruosità che si ripercosse sul primo governo Berlusconi (in fase di fiducia ottenne solo 159 voti a favore, 153 contrari e 2 astenuti), contro cui però, ad onor del vero, a giocare un ruolo di rottura fu anche la difficile coesistenza con la Lega Nord, forte di 117 deputati. Successivamente, fu la legge Calderoli (2005) meglio conosciuta come “Porcellum” ad introdurre un sistema proporzionale puro e senza preferenze, che al Senato si caratterizzava per dei premi di maggioranza su base regionale con l’auspicio di creare numeri molto fragili al Senato, cosa che avvenne per il governo Prodi II (2006-2008), che ottenne la fiducia con 165 voti a favore e 155 contrari che si trasformarono, in data 24 gennaio 2008, in 156 voti favorevoli, 161 contrari e 1 astenuto, al contrario, il primo governo Prodi (1996-1998) fu sfiduciato alla Camera con 322 voti favorevoli e 299 contrari, così come il Berlusconi IV (2008-2011), che dovette abbandonare dopo aver constatato, in data 8 novembre 2011, di non avere una maggioranza alla Camera (308 voti a favore sui 316 necessari). Infine, un discorso a parte meritano le consultazioni politiche del 2013, nelle quali l’affermazione di un sistema tripolare (Fi-Pd-M5s) non poteva che esasperare le pecche di una pessima legge elettorale, a cui l’Italicum non solo non apporta migliorie, ma, per certi versi, le aggrava con uno sproporzionato premio di maggioranza al partito vincente e non risolvendo la questione di un’adeguata rappresentanza della volontà popolale. Sembra strano che il presidente della repubblica Sergio Mattarella abbia promulgato la legge senza muovere alcun rilievo sostanziale, strano perché si tratta dello stesso Mattarella che in quanto membro della Consulta ha contribuito a dichiarare, in data 4 dicembre 2014, l’incostituzionalità della legge elettorale Calderoli (“Porcellum”) a causa dell’eccessivo premio di maggioranza che concede e della presentazione di liste elettorali bloccate che non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Un’ultima argomentazione, prettamente politica, avanzata dai promotori del Sì per spingere all’approvazione popolare della riforma e che merita di essere menzionata, concerne l’elaborazione di un mitico racconto istituzionale per cui il senato e la presenza della navetta parlamentare impedirebbero un iter spedito delle leggi, normalmente l’esecutivo, e questo esecutivo più degli altri, con il ricorso sistematico alla questione di fiducia e ad altri strumenti (canguro, ghigliottina) ha sempre visto approvare le leggi che ha voluto nei tempi voluti, senza che i senatori opponessero la pur minima resistenza, ultima, in ordine di tempo, la manovra fiscale di un Consiglio dei Ministri dimissionario che si è avvalso di una solida maggioranza, maggioranza che l’ex titolare del dicastero esteri Gentiloni auspica di confermare per la nascita di un esecutivo, che come la Maya del falsario Scorcelletti è una copia conforme del precedente Governo di cui si pensa di coprire le nudità, bocciate dal popolo, ponendole una camicia rappresentata da tre striminziti stracci (Minniti, Finocchiaro e Fedeli) e cambiando un po’ di sfumature che non tengono conto né della volontà elettorale né del significato politico del voto. Al secco rifiuto delle politiche governative, si risponde con la spudoratezza delle dichiarazioni di Gentiloni – “il governo proseguirà nell'azione di innovazione svolta dal governo Renzi” – e la promozione di Maria Elena Boschi, la principale intestataria insieme al capo di governo uscente della disfatta referendaria, a sottosegretario della presidenza, questo conferma che il Pd dalla ditta di Bersani, che almeno ci metteva la faccia, si è trasformato nell’azienda con imprenditore occulto di Renzi, finto dimissionario dal governo mentre continua a tirare le fila servendosi di una testa di legno, e finto moralizzatore, che lungi dall’abbandonare la politica come più volte annunciato, si tiene stretta segreteria e poltrone. Qualcuno nell’immediatezza del voto ha asserito che il leader toscano non è stato il peggiore presidente del consiglio degli ultimi 175 anni, come dire con un astuto gioco di parole, non tanto riuscito, che è stato il migliore, guardando con onestà alla storia repubblicana di questo paese, a Moro, a Zoli, a Parri, perfino a Craxi, non ci sarebbero dubbi su chi far ricadere la scelta, anche esaminando la questione morale, non sembra che si siano fatti dei grandi passi in avanti con la nuova repubblica, semmai il contrario, basti pensare al trasformismo, dal 1994 ad oggi si sono verificati in media 55 passaggi all’anno che hanno coinvolto il 13% dei parlamentari, mentre durante la Prima Repubblica i passaggi annuali erano stati in media 12 coinvolgendo il 7% dei rappresentanti istituzionali. Non va meglio per il livello di corruzione parlamentare percepita, nella speciale graduatoria l’Italia si piazza all’8° posto, la stessa posizione è occupata dal governo in riferimento alla capacità di contrasto del fenomeno con una valutazione negativa del 70% degli intervistati (dati 2016 Transparency International Italy), mentre nella classifica CPI 2015 (Corruption Perceptiion Index), il paese è vero che scala 8 posizioni (da 68° a 61°), ma guadagna un solo punto rispetto al 2014, da 43 a 44, restando in fondo alla graduatoria europea dietro solo a Grecia e Romania, due realtà con un alto grado di corruzione, segno che la tanto decantata Anac (Autorità Nazionale Anticorruzione) voluta da Renzi non sta producendo alcun risultato di rilievo. Ignorando o sottacendo questi dati, l’autocritica dei renziani non si è risvegliata nemmeno davanti alla pesante sconfitta, si è preferito chiamare in causa la cattiva scuola che da anni non si insegna l’educazione civica, un modo non tanto velato per asserire che gli elettori del No sono degli ignoranti, scadendo così addirittura nell’offesa collettiva a 19 milioni di persone che hanno declinato il piatto presentato dall’esecutivo, nello stesso momento, però, si chiedeva rispetto per un premier che aveva canalizzato sulla sua persona, e per suo esclusivo merito, 12.708 milioni di voti, avendo, tra l’altro, la dignità di dimettersi. Per l’ennesima volta si è escluso di intraprendere una vera indagine sull’esito referendario per cercare di convertire, con la solita propaganda, una sonora batosta in un trionfo, infatti, avallando un’ipotesi peregrina, si è considerato il partito ancora in possesso di quel 40,81% di consensi (11.172.861 voti) raggiunto alle europee del 2014, che data la maggiore affluenza referendaria (68.48% in Italia, 65.47% Italia + Circoscrizione Estero) si sarebbe tradotto nei quasi 13 milioni di cui sopra, peccato però che, da un lato, si sottovaluti che l’ultima consultazione omogenea per testare i partiti per voti (regionali 2015 con affluenza al 53.90%) attestava il Pd al 25.18% (30% includendo i voti delle liste dei candidati presidenti), e dall’altro, che i flussi elettorali referendari hanno rivelato che tra gli elettori del Pd l’80.6% si è espressa per il sì e ben il 19.4% per il no, mentre il 14,4% si è astenuto, e che c’è tutto un arco di elettori di forze di centro-destra che pur votando sì al referendum (23.8% di FI, 48,7% di Ncd-Udc, 10.9% della Lega e 9.9% del M5, dati Quorum) è improbabile se non quasi impossibile che in un’elezione politica indirizzino il loro voto verso Renzi. 
Non si può non riconoscere all’ex premier una dote, la dialettica con la quale è riuscito a vendere la sua persona e a costruirsi come il paladino del nuovismo, una rappresentazione che si è premurato di riproporre anche nell’acceso scontro televisivo con Ciriaco De Mita, colpevolizzato, insieme ad altri parlamentari di lungo corso ostili al progetto di revisione costituzionale, di essere il rappresentante e continuatore di un vecchio modo di fare politica, funzionale al trasformismo, al debito pubblico allegro, alla conservazione della poltrona. Il problema di Renzi è che il suo procedere per slogan confidando in una verbosa e ininterrotta comunicazione, urta contro la logica e la realtà delle cifre, sono, infatti, condivisibili le controdeduzioni di De Mita, quando discetta che in politica la contrapposizione non è tra nuovo e vecchio, ma tra chi ha idee e chi non ne ha, aggiungerei tra chi ha buone idee e decide di operare coerentemente con le stesse, perché diversamente tutto si trasforma in sofismi da intellettuale della Magna Grecia in cui, come osservò Montanelli, perdendo la Grecia resta solo la gestione del potere (Magna) come esclusivo obiettivo, ma entrando più nello specifico, far passare la vittoria del No come restaurazione dell’establishment è un’ardita forzatura, perché sono stati i vari Bersani, D’Alema, Monti, Mastella ad aggregarsi al fronte popolare dei contrari e non viceversa, che date le proporzioni dell’affermazione avrebbe vinto lo stesso al netto del loro non richiesto supporto. Renzi, inoltre, finge di non ricordare che l’attempato De Mita è stato molto utile quando si è trattato di spostare un bel “fracco di voti”, per dirlo alla sua maniera, sul governatore campano delle fritture Vincenzo De Luca alle regionali del 2015, allora non gli riproverò il suo storico clientelismo e la circostanza di essere migrato all’ultimo momento dal centrodestra al centrosinistra. La sostanza è che le statistiche smentiscono la rappresentazione che l’ex premier dà del paese e della solida e pura maggioranza che ha sostenuto il suo governo, basterà rimarcare che la legislatura in corso (XVII) è stata l’apoteosi dei voltagabbana con un  numero di cambi al mese pari a 9.91 (8.36 cambi durante il mandato Renzi, il 25% in più rispetto a quello Berlusconi e più del 300% rispetto all’esecutivo Monti) e il 26.67% dei parlamentari coinvolti, dato in percentuale superiore a quello di tutte le cinque legislature che si sono susseguite dal 1996 ad oggi (fonte “Giro di Valzer” Openpolis maggio 2016) e lontana anni luce dal comportamento dei parlamentari della prima repubblica, che, al confronto, appaiono fedeli come Rin Tin Tin alla disciplina di partito, e chissà che il nodo non sia proprio questo. Dopo il 1989 in molti avevano elogiato l’inizio di un’era post-ideologica scevra da conflitti, un luogo comune, perché anche la de-ideologizzazione è ideologia quando si converte nel mito del consumo e della produzione infinita, nella fiducia illimitata nel mercato e nella concorrenza, è quello che è accaduto a molti comunisti, che perso ogni riferimento si sono consegnati al pensiero unico, questa resa rimanda a quando nei feudi meridionali i membri del Pci incolpavano il clientelismo democristiano delle ripetute sconfitte elettorali, però non si sporcavano le mani per arginarlo accompagnando un processo di mutamento antropologico e culturale nel cittadino, al contrario, o rimanevano minoranza limitandosi a raccogliere, con snobismo, consensi tra gli storici seguaci oppure incominciavano a emulare lo scambio di voto dei padrini democristiani, in questo Renzi gli assomiglia, alter ego di Berlusconi, ne ha adottato il “liberismo alla puttanesca” condendolo con una maggiore dose di spavalderia e cinismo sicuro di essere l’invincibile predestinato.
    
 

3 LIBRI PER "CAPIRE LA PALESTINA" LAD EDIZIONI 3 LIBRI PER "CAPIRE LA PALESTINA"

3 LIBRI PER "CAPIRE LA PALESTINA"

28 luglio: la (vera) posta in gioco in Venezuela di Geraldina Colotti 28 luglio: la (vera) posta in gioco in Venezuela

28 luglio: la (vera) posta in gioco in Venezuela

Il Congresso Usa ha deciso: "fino all'ultimo ucraino" di Clara Statello Il Congresso Usa ha deciso: "fino all'ultimo ucraino"

Il Congresso Usa ha deciso: "fino all'ultimo ucraino"

"11 BERSAGLI" di Giovanna Nigi di Giovanna Nigi "11 BERSAGLI" di Giovanna Nigi

"11 BERSAGLI" di Giovanna Nigi

25 aprile: la vera lotta oggi è contro il nichilismo storico di Leonardo Sinigaglia 25 aprile: la vera lotta oggi è contro il nichilismo storico

25 aprile: la vera lotta oggi è contro il nichilismo storico

Il PD e M5S votano per la guerra nel Mar Rosso di Giorgio Cremaschi Il PD e M5S votano per la guerra nel Mar Rosso

Il PD e M5S votano per la guerra nel Mar Rosso

Il caso "scientifico" dell'uomo vaccinato 217 volte di Francesco Santoianni Il caso "scientifico" dell'uomo vaccinato 217 volte

Il caso "scientifico" dell'uomo vaccinato 217 volte

L'austerità di Bruxelles e la repressione come spettri di Savino Balzano L'austerità di Bruxelles e la repressione come spettri

L'austerità di Bruxelles e la repressione come spettri

Ucraina. Il vero motivo di rottura tra Italia e Francia di Alberto Fazolo Ucraina. Il vero motivo di rottura tra Italia e Francia

Ucraina. Il vero motivo di rottura tra Italia e Francia

Difendere l'indifendibile (I partiti e le elezioni) di Giuseppe Giannini Difendere l'indifendibile (I partiti e le elezioni)

Difendere l'indifendibile (I partiti e le elezioni)

Autonomia differenziata e falsa sinistra di Antonio Di Siena Autonomia differenziata e falsa sinistra

Autonomia differenziata e falsa sinistra

Libia. 10 anni senza elezioni di Michelangelo Severgnini Libia. 10 anni senza elezioni

Libia. 10 anni senza elezioni

L'impatto che avrà il riarmo dell'Ue nelle nostre vite di Pasquale Cicalese L'impatto che avrà il riarmo dell'Ue nelle nostre vite

L'impatto che avrà il riarmo dell'Ue nelle nostre vite

Il "piano Draghi": ora sappiamo in cosa evolverà l'UE di Giuseppe Masala Il "piano Draghi": ora sappiamo in cosa evolverà l'UE

Il "piano Draghi": ora sappiamo in cosa evolverà l'UE

Lenin fuori dalla retorica di Paolo Pioppi Lenin fuori dalla retorica

Lenin fuori dalla retorica

Il nodo Israele fa scomparire l'Ucraina dai radar di Paolo Arigotti Il nodo Israele fa scomparire l'Ucraina dai radar

Il nodo Israele fa scomparire l'Ucraina dai radar

DRAGHI IL MAGGIORDOMO DI GOLDMAN & SACHS di Michele Blanco DRAGHI IL MAGGIORDOMO DI GOLDMAN & SACHS

DRAGHI IL MAGGIORDOMO DI GOLDMAN & SACHS

Registrati alla nostra newsletter

Iscriviti alla newsletter per ricevere tutti i nostri aggiornamenti