La svolta di Putin, lo Yemen filorusso e il fallimento di Obama

La svolta di Putin, lo Yemen filorusso e il fallimento di Obama

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di Eugenio Cipolla

C’è una guerra, oltre quella in Ucraina, deliberatamente tenuta sotto traccia dai media convenzionali per non mettere in risalto il fallimento e l’inadeguatezza della diplomazia occidentale di fronte a crisi di portata epocale, che sta colpendo migliaia di civili e cambiando gli equilibri dello scacchiere internazionale: quella tra Yemen e Arabia Saudita. Che parte del Medio Oriente abbia abbandonato da tempo ogni speranza nei confronti della politica estera statunitense lo si è capito da tempo, più esattamente da quando Iran, Siria e per ultima Turchia hanno abbracciato l’idea putiniana di un mondo meno schiacciato dall’egemonia a stelle e strisce. Rohani, Assad ed Erdogan (quest’ultimo solamente dopo qualche pesante “incomprensione” con Mosca) hanno trovato nel presidente russo un alleato ideale per liberarsi dalle pressioni e dalle ingerenze delle amministrazioni presidenziali Usa che si sono susseguite negli anni. E lo hanno fatto non solo idealmente, ma anche concretamente, attraverso accordi militari, diplomatici e commerciali che hanno trasformato la Russia in un punto di riferimento nello scacchiere geopolitico mediorientale.

L’ultimo di questi accordi in ordine cronologico, siglato giusto ieri, è quello che riguarda il Turkish Stream, il gasdotto che dovrebbe collegare la regione russa di Krasnodar a quella turca della Tracia, consentendo alla Russia di monetizzare al massimo uno dei suoi capitoli di bilancio più corposi: il gas. La cosa, ovviamente, non può che dispiacere l’Unione Europea e gli Stati Uniti, i quali avevano visto nella rottura dello scorso anno tra Putin ed Erdogan un’opportunità per strappare all’odiato Vladimir un pezzo di terra strategico del mediterraneo sud-orientale.

Assieme al trio sopra citato, si sta pian piano unendo anche lo Yemen, paese che dal marzo del 2015 soffre una guerra cruenta contro l’Arabia Saudita (con il benestare degli Stati Uniti) e che ha trovato in Mosca un amico prezioso attraverso il quale mostrare al mondo i crimini commessi da Riyad. E non è un caso che lo scorso agosto l’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh, nel corso di un’intervista tv, abbiamo esortato il governo Houthi (ossia la parte sciita del paese) a dare ai militari russi l’accesso a tutti le basi, i porti e gli aereoporti dello Yemen. Saleh ha lodato l’atteggiamento positivo di Putin durante l’ultimo Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e lo ha definito come “l’alleato più vicino” dello Yemen nell’intera comunità internazionale. Sebbene sia molto difficile che la Russia possa intervenire direttamente nel conflitto tra Yemen e Arabia Saudita, appare piuttosto evidente come Putin stia appoggiando il governo Houthi che controlla la capitale Sana’a.

Di tutti i paesi civilizzati, d’altronde, la Russia è l’unico che ha lanciato una vera e propria guerra di informazione contro Riyad, denunciando e condannando i crimini commessi dalle forze saudite in Yemen, criticando la vendita di armi occidentali a un paese che sta facendo strage di civili. L’ultima è di qualche giorno fa. Sabato, infatti, il funerale del padre di un ministro del governo sostenuto dagli Houthi è stato bombardato dall’aviazione saudita, provocando una vera e propria strage: 140 morti e oltre 500 feriti. La Casa Bianca è subito corsa a prendere le distanze, con il portavoce Ned Price costretto a dichiarare che l’amministrazione statunitense «è molto disturbata dalle notizie che giungono dalla Yemen e che la cooperazione americana con Riad non è un assegno in bianco». Parole che evidenziano una certa difficoltà da parte della presidenza Obama nel giustificare un atteggiamento “morbido” contro i sauditi rispetto a uno inflessibile contro i russi, accusati da mesi di bombardare civili e ribelli moderati ad Aleppo.

Il risultato è che le autorità yemenite sono sempre più vicine a quelle russe in tutto e per tutto. Oltre a un’azione prettamente mediatica, Mosca, parallelamente, ne ha avviato una diplomatica e sta cercando di convincere la comunità internazionale a condannare le azioni dell’Arabia Saudita contro lo Yemen, sottolineando come continuare a vendere armi a Riyad alimenti solamente una guerra che va avanti da oltre un anno e mezzo. Politicamente parlando «anche se il governo Houthi ha preso il potere in Yemen attraverso una rivoluzione», ha scritto Samuel Ramani dell’Università di Oxford su Huffington Post qualche giorno fa, ricordando che in Libia e Siria la posizione di Mosca è sempre stata quella di sostenere i governi in carica e non le rivoluzioni, «i politici russi hanno tacitamente acconsentito agli Houthi di rimanere al potere, perché li ritengono la migliore soluzione per la futura stabilità politica dello Yemen». Questa sorta di autoritarismo stabile viene infatti incontro all’ampia strategia messo in campo da Putin per il Medio Oriente negli ultimi anni.

C’è anche motivo storico rispetto a questo atteggiamento, ha ricordato Ramani. «Durante la guerra fredda l’Unione Sovietica sostenne il governo comunista nel sud dello Yemen, mantenendo buoni rapporti anche con il Nord del paese. […] La vicinanza del personale militare sovietico ai confini dell’Arabia Saudita fu particolarmente rilevante nel 1980. Durante la guerra in Afghanistan, tra il 1979 e il 1988, le relazioni tra Riyad e Mosca furono tese a causa del sostegno saudita ai mujaheddin anti-sovietici. E il consolidamento dell’alleanza tra Urss e Yemen provocò nei politici sauditi il timore di una ritorsione per l’interferenza di Riyadh in Afghanistan. Per tenersi buona Mosca, l’Arabia Saudita concesse a Breznev di utilizzare il suo territorio per consentire ai russi di concedere sostegno militare all’Iraq di Saddam Hussein, dopo lo scoppio della guerra tra Iran e Iraq». Ma i rapporti tra Mosca e Riyad non si sono mai appianati veramente e le divergenze sono venute nuovamente fuori dopo lo scoppio della guerra civile in Siria. Situazione che con il protrarsi del tempo e con l’alleanza Washington-Riyad ha condotto Putin ad abbracciare (per adesso) la causa yemenita, conquistando un altro satellite in medio oriente e mettendo in risalto l’ennesimo fallimento della politica estera obamiana.

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