Siria, vivere sotto il cappio dei "ribelli moderati". Le testimonianze

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Siria, vivere sotto il cappio dei "ribelli moderati". Le testimonianze

di Pierangela Zanzottera - Sibialiria


Al-Foua' e Kefraya sono due villaggi a nord di Idleb. Si tratta di due villaggi come tanti, in Siria, se non fosse per un particolare: da tre anni la popolazione vive sotto costante e incessante assedio da parte di Jabhat al-Nusra (ora Jabhat Fateh al-Sham) e altri gruppi che i nostri media definiscono "moderati".


I più giovani tra gli abitanti di queste due cittadine a maggioranza sciita nemmeno ricordano una vita prima dell'assedio.


In un primo tempo, si sono ritrovati circondati da al-Nusra, Jaysh al-Fatah, Ahrar al-Sham e Jabhat al-Islamiyah, ma con ancora una possibilità – per quanto complessa – di avere un accesso alle forniture alimentari e mediche grazie all'aiuto dell'esercito siriano, poi, dal marzo 2016, completamente imprigionati e isolati dal mondo attraverso una serie di posti di blocco e cecchini posti ai confini dei due
centri abitati.


Circa 20.000 civili intrappolati, senza acqua, elettricità, comunicazioni, forniture mediche e cibo, il cui destino è rimasto sospeso per lunghissimi mesi.


Le poche notizie riuscite ad arrivare all'esterno parlano di colpi di mortaio lanciati quotidianamente dal vicino villaggio di Binnish e da Maarrat Misrin.


"I rigorosi checkpoint del gruppo armato di Jaysh al-Fatah, sostenuti da Arabia Saudita e Turchia, non permettono l’ingresso né di cibo né di aiuti medici. Il pane è arrivato a costare fino a 13 dollari. 27 dollari per un litro di olio, 17 dollari per un chilo di fagioli. La mancanza di combustibile e lievito ha potenziato il mercato nero. E i prezzi del pane sono aumentati di otto volte rispetto a quelli nella capitale Damasco. Centinaia i casi di malnutrizione. Decine i morti. Si mangiano erba e insetti per la sopravvivenza.

'Gli uomini di Ahrar al-Sham ci hanno impedito di accedere alle aree sotto il controllo del regime, tranne casi particolari dietro pagamenti di enormi somme di denaro. Più di 100.000 lire siriane per soldati e ufficiali (nda l’equivalente di 450 dollari)', ci racconta Majd, giovane odontoiatra di al-Fu’ah, ora improvvisato fotografo per alcune testate arabe.

Dallo scorso marzo, l’elettricità non entra nelle case se non grazie a generatori che forniscono i villaggi solo per poche ore al giorno.

Anche l’acqua potabile è un lusso. 'I filtri per pulire l’acqua funzionano solo per otto ore, ogni quattro giorni' ci spiega Majd. 'La fornitura di acqua è solo per tre ore a settimana'.

Dopo due cessate il fuoco e ogni accordo fallito a al-Fu’ah e Kefraya, nessuno dei centri sanitari è funzionante, decine le segnalazioni di casi di leishmaniosi e tifo."


Questo il quadro riportato da Nena News nel gennaio 2016 e da allora le condizioni sono andate deteriorandosi, dal momento che i gruppi armati hanno sempre impedito in ogni modo agli aiuti umanitari di raggiungere la popolazione sempre più sofferente.


I primi accordi tra le autorità siriane e i gruppi takfiri per la liberazione della popolazione dei due villaggi risalgono già al 2015 e sono numerosi, ma risultano tutti falliti o rinviati all'ultimo e così il destino di questi civili è rimasto sospeso.


Ogni cessate il fuoco che doveva comprendere Zabadani, da un lato, e Al-Foua' e Kefraya, dall'altro, è stato violato e l'ultima notizia di aiuti umanitari risale al febbraio del 2016.


Nel dicembre scorso, dopo che i gruppi armati avevano dato alle fiamme 7 bus destinati all'evacuazione di 1.200 civili, 700 persone (soprattutto donne e bambini feriti) sono riusciti ad arrivare ad Aleppo scortati dalla Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa siriana.


Con la liberazione degli abitanti, emergono testimonianze del loro calvario sotto l'assedio.


"I terroristi hanno preso i miei figli. Uno è morto,…. Un chilo di grano costa 7.000 lire siriane. Sono grata per gli aiuti umanitari che ci sono stati paracadutati. Un chilo di carne costa 32.000 lire siriane", ha raccontato dice la novantatreenne Fatima Muhammed Najar, "Vivevamo come prigionieri, ci negavano le cose più semplici e necessarie:.. Il cibo e l'acqua… Non c'era modo di ottenere le cure mediche… ho mangiato qualsiasi cibo che ho potuto trovare".


Un mese dopo, a gennaio, viene tentata una nuova tregua, ma, ancora una volta, i 23 bus che dovevano portare in salvo i civili vengono bloccati dai gruppi takfiri.


L'ultimo accordo risale a marzo, ma è stato attuato solo in questi giorni.


Il 14 aprile, infatti, i civili hanno cominciato a lasciare i villaggi di al-Foua' e Kefraya sui 75 pullman, mentre i miliziani lasciavano Zabadani e Madaya (circondate dall'esercito siriano).


L'accordo prevedeva la liberazione di 16.000 persone dalla provincia di Idleb, che avrebbero dovuto rifugiarsi alla periferia di Aleppo, nella provincia costiera di Latakia o di Damasco, in cambio della possibilità per i miliziani e le loro famiglie di lasciare le cittadine nella campagna di Damasco e dirigersi a Idleb. La transazione – definita come il più grande scambio nel suo genere – era supervisionata dalla Mezzaluna Rossa Araba Siriana.


Tutto sembrava procedere finalmente per il meglio, fino al 15 aprile, quando una terribile esplosione ha colpito la zona Rashidin alla periferia di Aleppo, nei pressi di un distributore di benzina, proprio nel punto in cui il convoglio di autobus era in attesa di entrare nella città.


Le prime testimonianze, diffuse da diverse fonti arabe (come il quotidiano Tishreen) e dalla reporter Vanessa Beeley, raccontano dettagli inquietanti, avvalorati da un video:


I terroristi stavano colpendo le finestre degli autobus, cercando di intimidire gli uomini sopra per provocarli… Poi i terroristi hanno aperto un sacco di patatine. I nostri figli sono stati privati di cose simili per 2 anni … hanno invitato i bambini a venire a mangiare … bambini di soli 3-4 anni … chiamavano i bambini, cercando di raccoglierne il maggior numero possibile. Subito dopo abbiamo sentito un’esplosione molto grande. Non abbiamo capito in un primo momento cos'era accaduto. Molti bambini sono saltati in aria e molti altri sono rimasti feriti. Mio nipote era tra loro. Non sappiamo più niente di lui…”.


Ben 68 sono, infatti, i bambini coinvolti nel vile attentato, che ha lasciato almeno un centinaio di morti e altrettanti feriti.


Un bilancio aggravato dal fatto che i miliziani hanno impedito alle ambulanze di raggiungere il luogo dell'esplosione, impedendo di soccorrere tempestivamente i civili inermi.


L'ultima nota desolante: in queste ore la rete sta diffondendo immagini di bambini feriti in cerca dei loro familiari, che ancora non sanno se sono diventati orfani o se potranno riabbracciare qualcuno dei loro cari. Piccole vittime che speravano solo di poter fuggire da un inferno e si sono ritrovate in un altro, in quello che è un evidente crimine di guerra, ma che sembra non avere abbastanza eco per scandalizzare le organizzazioni internazionali e i media occidentali.

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