Venezuela, sconfitta tattica o strategica?

Venezuela, sconfitta tattica o strategica?

Il cammino verso un cambiamento di paradigma sembra pieno di insormontabili ostacoli.

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di Miguel Angel Núñez
Agroecologo, docente e autore di saggi sull’ecosocialismo, fra cui Vivir despierto entre los cambios sociales. 
            
 
La riflessioni che seguono si riferiscono a una congiuntura all’interno della quale si colloca la sconfitta elettorale in Venezuela, il 6 dicembre 2015, che mette a repentaglio la sopravvivenza stessa del processo rivoluzionario venezuelano. Più in generale, se guardiamo oltre i nostri confini, un pericolo imminente sembra gravare sulla stessa sopravvivenza del pianeta, delle società, della specie umana. 
 
I principali distruttori del pianeta Terra continuano a imporre il proprio modello di dominio e a controllare la scena mediatica e i modelli educativi, culturali e politici, come i settori economici, finanziari e industriali. E in definitiva, impongono al mondo governi e stili di vita che finiranno per portarci a un suicidio collettivo. Il cammino verso un cambiamento di paradigma, per costruire un’altra società possibile, che dia risposta a queste sfide, sembra pieno di insormontabili ostacoli.
 
I recenti risultati, davvero frustranti, della Cop 21 sui cambiamenti climatici in Francia fanno presagire che il pianeta Terra continuerà a essere sottoposto a gravi prove ecologico-ambientali, che già si manifestano. Dobbiamo dunque prepararci a una nuova tappa. 
 
Il lemma della Cop 21, «Trasformando il nostro mondo», e l’agenda 2030 per uno sviluppo economico sostenibile è quantomeno ingannevole. Non tiene conto del fatto che le risorse naturali del pianeta Terra sono limitate e che dunque è impossibile parlare di crescita economica infinita e al tempo stesso sostenibile. Sembra che non si riesca a trarre lezione da quanto già indagato, verificato, progettato e proposto; dati concreti come quelli sulle carestie e sulle gravi diseguaglianze sociali, sul deterioramento degli ecosistemi, sull’erosione dei suoli e la perdita della biodiversità sembrano non suscitare allarme a sufficienza.  Aggiungiamo a tutto questo il grave stress idrico, la contaminazione alimentare, le diverse implicazioni sociali e culturali legate all’estrattivismo di ogni tipo. 
 
Quest’ultimo, l’estrattivismo, è il modello di sviluppo dominante nel mondo attuale. Lo sfruttamento irrazionale di ogni risorsa naturale, compreso l’essere umano. Si cerca così di aumentare la produttività, lo spreco totale, l’accumulazione mercantista-finanziaria e il consumismo. Ecco il modello che continua a imporci il trend globalizzato, in tutto il mondo. Da qui il risultato precario della Cop21. Sembra che ai governanti del mondo non importi il fatto che per mantenere il ritmo di crescita economica attuale, avremmo bisogno di consumare tre pianeti come la Terra. 
 
Anche i risultati del dibattito sull’aumento della temperatura e sui cambiamenti climatici sono stati precari. E’ illusorio pensare di contenere l’aumento totale entro i 2°C da qui al 2100. Secondo il rapporto della Pricewaterhouse Coopers, (PwC 2012), la diminuzione reale delle emissioni di CO2 nel 2011 è stata dello 0,8%. E lo studio spiega che, anche se questa passasse all’1,6% all’anno, nel 2100 la temperatura globale sarà cresciuta di 6°C. Con conseguenze devastanti per la vita sul pianeta. 
 
Né si è tenuto conto dei danni associati a un aumento media di temperatura di 2°C - rispetto ai livelli preindustriali. Diversi esperti segnalano: «Non si sta facendo niente (…) per diminuire davvero le emissioni globali, che continuano a crescere. Si prevede una crescita rapidissima e sostenuta delle emissioni al ritmo del 6% all’anno, per quattro decenni, a partire dal 2013!» (Hansen e altri, 2013).
 
Questo modello globale, estrarre-produrre.consumare-sprecare-riscaldare-esaurire la vita sul pianeta Terra ha anche altre gravi conseguenze ideologiche, politiche e sociali. Certo, sono nate e cresciute proposte di progresso in diversi ambiti di società, per iniziare processi di superamento, mitigazione e adattamento alle tensioni ambientali e sociali e affermare un nuovo senso della vita diverso da quello che stiamo mettendo in discussione; ma è certo che molte di queste iniziative mostrano problemi di natura e contenuto. 
 
Un esempio: nei primi 15 anni di questo secolo abbiamo celebrato i progressi nel campo dell’inclusione sociale in tanti paesi dell’America latina. Argentina, Bolivia, Brasile, Caraibi, Ecuador, Nicaragua, Venezuela. In diversi paesi, però, questi progressi sono stati congelati e su altri grava la spada di Damocle di un ritorno al passato. In alcuni paesi più che in altri la minaccia permanente di una corruzione «smisurata» delinea un rapporto causa-effetto, rispetto agli antivalori che questo senso globalizzato della vita ci ha imposto.  E quando si combinano l’impunità e l’incapacità di applicare politiche economiche e finanziarie adatte alle circostanze, si crea un brodo di coltura per la recrudescenza delle azioni delittuose e della corruzione. 
 
In materia economica, il Venezuela del dicembre 2015 ha evidenziato una serie di problemi: l’enorme corruzione, l’impunità, e una notevole incapacità tecnico-politica quanto a direzionalità e razionalità economica. Nel riconoscere questa realtà, dobbiamo poi sottolineare le permanenti deviazioni ideologiche e indolenze operative che prevalgono nelle istituzioni pubbliche e private nella terra di Bolivar. 
 
Su queste deviazioni è stato scritto molto. La grande burocrazia, l’opportunismo e il protagonismo; la prepotenza individuale; il nepotismo di gruppo e famiglia sono stati elementi negativi che hanno contribuito al rifiuto da parte dei milioni di venezuelani non recatisi a votare. In questa protesta civica è stato anche messo in evidenza che negli ultimi 17 anni di rivoluzione bolivariana i diversi e innumerevoli processi di formazione ideologico-politica messi in atto sono stati carenti dal punto di vista della coerenza, ponderazione, modestia e impegno che ogni vero rivoluzionario deve avere, nella pratica della trasformazione rivoluzionaria per la costruzione della nostra nuova società.
 
La formazione ideologica ricevuta non è riuscita a resistere alle forze gravitazionali che promuovevano uno smisurato consumismo e individualismo e la frammentazione sociale. La formazione non si è mostrata al livello della sfida di saper spiegare, chiarire gli elementi di confusione, e che cosa sono e che cosa debbono essere le giuste rivendicazioni  espresse, nello stato di diritto, per l’inclusione sociale. 
 
La precaria formazione ideologica si collega anche al fatto che non possiamo importare e imporre proposte o modelli di condizionamento ideologico e politico da altre latitudini. Questo non implica un rifiuto a priori di elementi e progressi altrui. Ma è necessario che emergano, dai nostri propri valori, nuove proposte formative e ideologiche, basate sulle nostre condizioni e sull’identità culturale e integrale dell’essere venezuelani. Da lì devono sorgere valori ideologici che ci aiutino a superare la confusione. Uno Stato rivoluzionario non può sostituire con regali e assistenzialismo il compimento dei suoi diritti e doveri, per andare avanti nelle politiche di inclusione sociale e saldare il debito storico sociale in America latina.
 
Iniziamo il 2016 con l’imperiosa necessità di rielaborare un progetto socio-politico-economico proprio che, in definitiva, ci dia luce e orientamento, a sud, per frenare il saccheggio delle nostre risorse naturali ed energetiche. Così si esprime in effetti l’acuto scrittore e ricercatore Luis Brito García (2015): «Por ahora.  Non inganniamoci. La contesa per il potere politico in Venezuela è solo un mezzo per arrivare a controllare un quinto degli idrocarburi del pianeta» (http://www.alainet.org/es/articulo/174469#sthash.hlFypgxS.dpuf)
 
E’ importante riflettere e approfondire queste affermazioni. Non solo per le conseguenze ideologiche e culturali determinate dal «rentismo petrolifero» che ha imposto alla società venezuelana un carattere strutturalmente parassitario e improduttivo. Dobbiamo discutere anche delle conseguenze e contraddizioni ecologico-ambientali, inerenti a questo tipo di politica. 
 
Le difficoltà sono tante. Specialmente quando valutiamo la volatilità dei mercati e del prezzo del petrolio, la scarsità di risorse minerarie ed energetiche per il loro sfruttamento e gli accordi internazionali da rispettare per mitigare le emissioni di CO2 e le loro ripercussioni sulla temperatura dell’atmosfera. Lo si creda o no, il «rentismo petrolifero» inizia a presentare problemi tecnico-politici che le classi sociali da decenni evitano di riconoscere. Occorre pensare in un altro modo, credere che sia possibile un altro stile e modello di società e per questo ora più che mai non possiamo abbandonare il nostro Plan de la Patria e il suo Quinto obiettivo storico: la necessità di costruire un modello economico produttivo ecosocialista autonomo, fondato su un rapporto armonioso fra esseri umani e natura, che garantisca un uso razionale ed ecologico delle risorse naturali.  
 
Tutti i miei auspici per questo cambio di pensiero, nel nuovo anno. E attendiamo suggerimenti per l’opera permanente di miglioramento del nostro processo di cambiamento. 
 
Brito, G L. (2015). Por Ahora. On line: http://luisbrittogarcia.blogspot.com/2015/12/por-ahora.html
 
HANSEN J, Kharecha P, Sato M, Masson-Delmotte V, Ackerman F, et al. “Assessing Dangerous Climate Change: Required Reduction of Carbon Emissions to Protect Young People, Future Generations and Nature”. PLoS ONE 8(12), 2013. Su:
 http://www.plos.org/wp-content/uploads/2013/05/pone-8-12-hansen.pdf
 
PwC, Too Late For Two Degrees? Low Carbon Economy Index 2012, PwC, noviembre de 2012. Su  http://www.pwc.com/gx/en/sustainability/publications/low-carbon-
economy-index/index.jhtm

Fonte originale
Traduzione di Marinella Correggia

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