La morte di Giulio Regeni, la ragione dei forti e la sottomissione dei deboli

La morte di Giulio Regeni, la ragione dei forti e la sottomissione dei deboli

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di Giovanni Barbieri

La morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano dapprima scomparso e poi ritrovato morto in Egitto, rientra nell’ambito delle discussioni di politica internazionale, che questo piaccia o no. Al di là del balletto indecoroso di versioni ufficiali, ufficiose e complottismi vari che si sono addensati intorno a questa vicenda, rimane il fatto in sé: in Egitto, un giovane ricercatore occidentale, impegnato nella raccolta di informazioni e documenti sui movimenti sindacali indipendenti, è morto. Questo fatto, da solo, parla molto più di tutte le versioni ufficiali e di tutte le ipotesi che fino ad ora sono state date in pasto ai media. Quello che emerge con chiarezza, in un quadro che chiaro non lo è per niente, è che questo cadavere fa comodo a molti. Questo per una serie di ragioni.
 
In primo luogo, c’è da chiedersi per quale motivo un governo che certamente non gode di buona salute per quel che riguarda la propria reputazione regionale e globale dovrebbe sequestrare, torturare ed uccidere un giovane occidentale. Regeni aveva molte amicizie “difficili” in Egitto, principalmente con attivisti per i diritti sindacali che operano in un paese nel quale, come nella maggior parte dei paesi arabi, i diritti dei lavoratori non sono propriamente al primo punto all’ordine del giorno dell’agenda governativa. Quale pericolo avrebbe costituito Regeni per il governo Al-Sisi? Forse la sua collaborazione con il Manifesto, nota testata giornalistica di risonanza internazionale, avrebbe potuto mettere il governo egiziano in grave imbarazzo davanti al resto del mondo in relazione alla sua tendenza, largamente diffusa in quella zona del mondo, a reprimere e contenere le rivendicazioni di natura sindacale? O forse la prossima pubblicazione della sua tesi di Dottorato avrebbe provocato un danno d’immagine talmente grave da rendere necessario fare sparire nel nulla il ricercatore, insieme a tutto il suo lavoro? O ancora, questo povero “pasionario” inconsapevole era diventato il leader di un movimento sindacale anti-governativo in grado di minare le fondamenta della giunta militare, al punto di rendere necessaria la sua eliminazione fisica? Certo, sono ipotesi possibili, per quanto altamente improbabili, dal momento che, da che mondo è mondo, i personaggi scomodi vengono fatti sparire così come i loro cadaveri. E per un governo medio-orientale, sequestrare un occidentale, ucciderlo e poi far ritrovare il corpo sarebbe la mossa più stupida da fare in un mondo di avvoltoi. Se fosse stato un personaggio veramente scomodo, sarebbe bastato prelevarlo, interrogarlo ed espellerlo. Esattamente come avviene quotidianamente in paesi come Israele, considerati campioni della democrazia.
 
L’ipotesi che è sicuramente da scartare è quella di un suo ruolo come agente dell’AISE in servizio all’estero. Secondo questo filone, Regeni sarebbe stato “reclutato” qualche anno fa, quando l’AISE era alla ricerca di nuovi “talenti” selezionati tramite curriculum. La sua collaborazione con il Manifesto sarebbe stata dunque una copertura, per allontanare da lui i sospetti circa un suo coinvolgimento con i servizi d’informazione italiani. Se non fosse stata resa pubblica, questa versione potrebbe essere tranquillamente raccontata come una barzelletta. L’AISE, rispetto ai suoi omologhi nel mondo, è celebre per la sua impermeabilità rispetto al coinvolgimento di civili nell’alveo delle proprie attività. Quello che accade più spesso è che chi opera sul campo per motivi che nulla hanno a che fare con lo spionaggio, inconsapevolmente diventa una pedina di un intricato sistema di reperimento di informazioni, costruito su una struttura multilivello che dal vertice si propala verso la base attraverso intermediari, diplomatici e ONG. Forse Regeni era vittima di questo sistema, ma certamente sembra spropositata l’ipotesi che fosse un agente dell’AISE. La sua morte, con la serie di eventi che ha messo in moto, dà la possibilità di percorrere un ulteriore sentiero, fatto di sporchi interessi economici, geopolitici e militari.
 
Il governo egiziano odierno, come risaputo, ha raccolto l’eredità del Generale Mubarak, perpetuando la forma di governo basato sulla giunta militare, che è l’unica in grado di tenere insieme un paese che, soprattutto all’indomani dell’ondata pseudo-rivoluzionaria delle primavere arabe, ha visto crescere l’instabilità del suo sistema politico. Tutto questo con buona pace degli osservatori occidentali che si perdono nella vuota retorica del rispetto dei diritti umani (vuota perché autoreferenziale). Nella società egiziana esistono molti scontenti, soprattutto tra gli attivisti dei Fratelli Musulmani, una componente islamica fondamentalista che aborre la forma laica dello Stato ed è ansiosa di instaurare una repubblica confessionale. Lo stop imposto a questa corrente politica dalla nomina presidenziale di Al-Sisi ha certamente irritato non solo gli egiziani pro Fratelli Musulmani, ma anche quei governi arabi che attraverso cospicui esborsi di denaro avevano supportato attivamente l’avanzata politica di questi movimenti islamici fondamentalisti in tutto il Maghreb, ed in particolare quella dei Salafiti. 
 
A complicare la posizione di sostanziale isolamento regionale del governo Al-Sisi sta anche la sua politica attiva, e passata sotto silenzio, di sostegno al governo di Tobruk, in Libia, ovvero uno di quei tre governi esistenti in Libia che si pone in continuità con l’eredità, laicista, del Colonnello Muhammar Gheddafi. Al-Sisi, infatti, non ha mai celato la propria vicinanza politica al governo libico del generale Khalifa Haftar, realizzando di fatto un asse diplomatico tripartito che da Tobruk va Al Cairo, estendendosi fino a Mosca, da dove Vladimir Putin benedice il modello egiziano di lotta al terrorismo fornendo assistenza militare, almeno dal 15 Febbraio 2015, giorno del primo intervento armato egiziano in Cirenaica. 
In questa “liaison” diplomatica si è inserita anche l’Italia. In occasione dell’Egypt Economic Development Conference del 13 Marzo 2015, Matteo Renzi ha dato l’endorsement italiano al governo Al-Sisi, sottolineando come il governo Al-Sisi, garantendo la stabilità politica dell’Egitto, fosse un alleato fondamentale nella lotta al terrorismo in Libia. Un alleato fondamentale soprattutto per l’Italia, che in Egitto mantiene rilevanti interessi economici, ampliati dalla recente scoperta da parte dell’ENI di un bacino gasifero sottomarino prospiciente le coste egiziane, teoricamente il più grande mai scoperto. Di fatto, l’Italia in un colpo solo ha assunto una postura diplomatica mediamente decisa per quel che riguarda la condizione internazionale del governo egiziano, le sue modalità di azione in Libia e le sue relazioni diplomatiche con la Federazione Russa. Di fatto, l’Italia ha riconosciuto all’Egitto il ruolo di pivot regionale nella lotta al terrorismo nel Maghreb. 
 
Fin qui nulla di strano, si dirà. Ogni governo ha il diritto di tutelare i propri interessi, specie se questi assurgono al rango di interessi di rilevanza nazionale. Questo avrà anche pensato John Kerry, segretario di Stato USA, presente al Forum, nel momento in cui Matteo Renzi e l’Italia rilasciavano queste dichiarazioni, riflettendo anche sul risibile ruolo internazionale della Penisola. Tuttavia, tanto per l’Egitto che per l’Italia, questa rete di relazioni è diventata una maglia troppo stretta nel momento in cui la Federazione Russa, a partire da Ottobre 2015, ha ritenuto che fosse giunto il momento di dimostrare, manu militari, quale fosse la propria idea di lotta al terrorismo in Siria, senza arretrare di un passo nonostante le vibrate proteste e le velate minacce susseguitesi fino ad oggi dalla maggior parte dei governi occidentali, esclusa l’Italia. 
Cosa c’entra tutto questo con la morte di Giulio Regeni? O meglio, quale legame potrebbe esserci? Mettendo insieme tutti gli elementi, la risposta non è certo delle più esaltanti. Anzi, per dirla tutta, dà il voltastomaco, almeno a chi non abbia abbastanza pelo sullo stomaco da ammettere che la politica internazionale non è una questione di diritto o moralità, ma di ragione dei forti e di sottomissione dei deboli.
 
E’ possibile ipotizzare che Giulio Regeni sia stato ucciso e il suo cadavere fatto ritrovare con un duplice scopo.
 
Il primo è quello di minare, questa volta sul serio, le fondamenta del potere del governo Al-Sisi. Gli scontenti nella società egiziana non sono soltanto civili che rivendicano diritti sociali. Sono, prima di tutto, gli attivisti dei Fratelli Musulmani, che negli ultimi anni hanno messo a ferro e fuoco l’Egitto con attentati ed episodi degni del peggiore Cile di Pinochet (a titolo di esempio, il 13 Agosto 2013, i Fratelli Musulmani in Piazza Rabi’a fucilarono membri delle forze dell’ordine ad un mese dalla deposizione dalla carica di Presidente di Mohamed Morsi, loro “confratello”). I Fratelli Musulmani, nonostante l’efferatezza delle loro azioni, sono considerati dalla stampa occidentale i più genuini oppositori legittimi del governo Al-Sisi, considerato quest’ultimo come una dittatura arrivata al potere in maniera illegale. I Fratelli Musulmani, inoltre, sono attivamente coinvolti nel coordinamento di questi movimenti sindacali “indipendenti”, agendo al pari di qualsiasi forza politica che cavalca il malcontento popolare per conquistare il potere e realizzare la propria idea di Stato. Data l’impossibilità di prendere il potere con la violenza, considerata la determinazione con cui il governo egiziano reprime la componente violenta dei Fratelli Musulmani, quale opportunità migliore di indebolirlo attraverso il “public shaming” addossandogli la responsabilità della morte di un giovane occidentale? Beninteso, questa sarebbe soltanto un’ipotesi, ed anche bizzarra, se non fosse per l’interessamento attivo di tutta la Comunità Internazionale e per le ultime dichiarazioni di John Kerry, che ha parlato apertamente di un interessamento diretto degli USA nella vicenda. Queste circostanze, dovrebbero quantomeno contribuire a sollevare dei dubbi sulla reale responsabilità del governo egiziano. 
Quanto alla nazionalità del ricercatore, ci piace parafrasare Giulio Andreotti, nella convinzione che “a pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”. Sarà veramente un caso, dei più strani, che a morire in Egitto sia stato un italiano, cittadino di uno Stato che nelle ultime settimane ha mostrato più di qualche resistenza ad accettare l’ipotesi di un’azione Nato in Libia? 
Di certo l’Italia non ha superato l’affronto della liquidazione di un suo partner strategico nel mediterraneo, con annesso il saccheggio di tutti i suoi asset energetici da parte dei “fratelli” europei francesi e britannici. Ma da piccola, qual è, l’Italia ha subìto ciò che doveva subire ad opera dei forti. In questo caso, però, a frapporsi tra i piani Nato e la Libia c’è un’intesa politica tra Italia ed Egitto sui metodi di lotta al terrorismo in Libia, che finché esiste implica un coinvolgimento italiano che vada al di là del semplice uso delle basi sparse sul suo territorio: implica una partecipazione paritaria dell’Italia in seno al Consiglio Atlantico in merito alla definizione delle strategie e dei piani operativi. La visione italiana della stabilità libica, non combacia esattamente con quella Atlantica, prevedendo il supporto attivo al governo di Tobruk che invece, dall’altro lato dell’Atlantico, è considerato parte del problema. A complicare il quadro, l’attivismo egiziano in Cirenaica, a supporto del governo di Tobruk, e l’endorsement italiano a questo tipo di attività, con la “benedizione” della Federazione Russa la quale, con il suo attivismo in Siria, costringe la Nato a marcare il territorio altrove per non perdere posizioni. L’omicidio di Regeni potrebbe avere risvolti interessanti esattamente in questo senso. Esponendo il governo egiziano ad una ingiustificata pressione internazionale (nell’ipotesi che sia effettivamente estraneo alla vicenda), la Federazione Russa, in virtù del suo ben noto realismo in politica estera, sarebbe indotta ad allentare la presa sull’Egitto lasciando il suo governo al proprio destino con il risultato di alleggerire la pressione geopolitica nella regione e rendere politicamente sostenibile un intervento Nato in Libia. Allo stesso tempo, l’incidente diplomatico tra Italia ed Egitto potrebbe avere l’effetto, già visibile all’orizzonte, di raffreddare i rapporti tra i due paesi, spingendo l’Italia verso una posizione, se non di ostilità, almeno di neutralità, non fosse altro per la convenienza di non appoggiare politicamente un governo che si è macchiato dell’omicidio di un connazionale. A questo punto, però, il governo Italiano avrebbe molto meno potere contrattuale in seno al Consiglio Atlantico relativamente alla possibilità di dettare termini e condizioni di un intervento in Libia, per due ragioni: non potrebbe più sostenere pubblicamente la politica, condivisa, dell’Egitto a sostegno del governo di Tobruk, indebolendo di fatto questa visione strategica. In secondo luogo, la possibilità di un “regime change” in Egitto potrebbe trasformarsi in una minaccia agli asset strategici italiani nel paese, non ultimi quelli dell’ENI sui quali, da tempo, si addensano gli appetiti di molti osservatori, soprattutto tedeschi. E dati i trascorsi libici, è ragionevole ritenere che un qualsiasi governo italiano valuterebbe molto attentamente questa eventualità.
 
Oppure, in estrema conclusione, si può tornare all’ipotesi iniziale, ovvero quella che Giulio Regeni sia stato ucciso da una dittatura militare a causa della sua attività a favore della promozione e dello sviluppo dei diritti umani e sociali in Egitto. Un’ipotesi plausibile ma che, per chi osserva e studia la politica internazionale, è altamente insoddisfacente.  
 

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