"Bisogna agire alla radice dell'immigrazione con accordi in Africa, soprattutto con il Sudan". Arduino Paniccia

"Bisogna agire alla radice dell'immigrazione con accordi in Africa, soprattutto con il Sudan". Arduino Paniccia

Il direttore dell’ASCE: “Con tutti i mezzi satellitari che abbiamo a disposizione, è impossibile non intercettare i camion con i migranti prima che arrivino al Mediterraneo. Fermiamoli prima”

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di Francesca Morandi

 
“Bisogna agire alla radice dell’immigrazione massiccia alla quale stiamo assistendo, facendo accordi con i Paesi africani dai quali partono i migranti, primo fra tutti il Sudan, che chiude gli occhi su quei camion, stracolmi di disperati, che dai propri confini si dirigono verso il deserto per raggiungere prima la Libia e poi l’Europa”. Arduino Paniccia, direttore della Scuola di Competizione Economica Internazionale di Venezia (ASCE) e docente di Studi Strategici presso l’Università di Trieste, rileva l’urgenza di “mettere al centro dell’azione di Italia e Europa la cooperazione con gli Stati africani” e “spostare il punto di vista del problema, che oggi è troppo legato alla visione occidentale”.

Professor Paniccia, che cosa intende quando parla di “visione troppo occidentale” sull’immigrazione?
 
“Si è troppo concentrati sugli effetti dei flussi migratori in Europa ma non sulla causa, sulla quale bisogna invece lavorare. Ho l’impressione che non ci sia una conoscenza adeguata delle problematiche di cui sono afflitti gli Stati africani, che bisogna sostenere, anche sotto il profilo economico, in cambio di impegni precisi. Certamente Paesi come Sudan, Somalia e Eritrea vivono situazioni molto difficili, di povertà e conflitto, ma si possono individuare percorsi di cooperazione, affiché le popolazioni di questi Paesi non si spostino in massa versa l’Europa come sta accadendo. E’ ormai chiaro che i migranti che arrivano da noi non solo siriani in fuga dalla guerra, ma persone che, dall’Africa subsahariana, scappano dalla fame. Inoltre, il traffico di esseri umani non nasce in Libia, che, tuttavia, resta lo snodo principale. Le strade che dall’Africa sub-sahariana portano al deserto libico non sono infinite, sono principalmente due: dal Sudan e dal Niger. Non è realistico che il governo di Khartoum non sappia che cosa ci sia “dietro” quei camion che, carichi di individui – sudanesi, etiopi, eritrei, somali -  si spostano verso la Libia, uno o due ogni mezza giornata. E poi, parliamoci chiaro, con tutti i mezzi satellitari che abbiamo a disposizione, è impossibile non intercettare i camion con i migranti, prima che arrivino al Mediterraneo. Fermiamoli prima”.  
 
Si sente parlare dell’ipotesi di un “blocco navale” davanti alle coste libiche. Che cosa significa esattamente?
 
“Purtroppo c’è molta confusione quando si parla di ‘blocco navale’, che, sulla base delle Convenzioni e leggi internazionali, si attua in uno stato di guerra. Nel corso della Storia abbiamo assistito a ‘blocchi navali’ tra Paesi in stato di belligeranza, l’ultimo risale a 55 anni fa, quando gli Stati Uniti dichiararono un ‘blocco’ ai danni di Cuba, una situazione che portò il mondo a sfiorare una guerra nucleare. E’ un blocco aero-navale anche quello israeliano a Gaza. Il ‘blocco navale’ è quindi una misura bellica e deve essere deliberata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove, come è noto siedono Paesi con diritto di veto, come Cina e Russia. Chi, dai teleschermi tv, parla di ‘blocco navale’ dovrebbe anche spiegare che in questo tipo di operazioni devono essere coinvolte molteplici nazioni, organismi sovranazionali come l’ONU e l’UE, con i rispettivi meccanismi decisionali. Ottenuti i via libera ufficiali, potrebbero allora essere mobilitate le Marine di diversi Stati e alleati, e quindi ad intervenire sarebbe anche la NATO, di cui fa parte anche la Turchia. A schierarsi sarebbero centinaia di mezzi navali e aerei, con un notevole dispendio economico, logistico e di personale addestrato. E’ evidente che si tratta di un’operazione imponente, che non si può concretizzare nel giro di poche settimane e che richiede l’uso della forza militare. Tra le regole di ingaggio di queste azioni è infatti contemplata la possibilità di aprire il fuoco contro chiunque tenti di forzare il blocco”.
 
I politici che parlano di un “blocco navale” davanti alle coste libiche si riferiscono a un’azione di questo tipo?
 
“Credo che la confusione porti a definire come ‘blocco navale’ un’azione che in realtà non lo è, intendendo piuttosto una sorta di ‘blocco navale parziale’ il cui obiettivo sarebbe agire a scopo di deterrenza. Una tale misura richiederebbe comunque il dispiegamento di navi della nostra Marina Militare, oltre a una mobilitazione aerea, con il diritto ad aprire il fuoco contro chi, come è capitato, ci spari addosso.  Eventualità che senz’altro accadrebbe in quanto i nostri militari agirebbero in situazioni in cui operano i nuovi spietati schiavisti che usano il traffico di esseri umani per arricchirsi o comprare armi. E’ altresì chiaro che l’azione dovrebbe essere condivisa da Paesi limitrofi come Egitto, Algeria e Tunisia e non è affatto scontato che questi Stati accetterebbero che una delle loro navi, in talune circostanze, possa essere perquisite a forza dai nostri militari. Insomma, stiamo parlando di un’operazione complessa e costosa, i cui risultati rischiano di essere modesti”.

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