L'euro e la svendita delle aziende italiane
Ide ed austerità: il danno e la beffa per il lavoratore medio
In uno dei suoi ultimi posti su Goofynomics, Smoke sales, Alberto Bagnai risponde ai diversi economisti che considerano l'euro come una forma di protezione fondamentale da una massiccia acquisizione delle imprese italiane da parte dell’estero, i cosiddetti fire sales. La ragione risiederebbe nel valore nominale della moneta: quanto più è costoso l’euro, tanto più gli investitori esteri dovrebbero pagare per le aziende italiane.
Ma l’euro ci protegge veramente? Secondo Bagnai le evidenze macroeconomiche non lasciano adito a dubbi: l’entrata nella moneta unica prima, e la crisi poi, hanno determinato un’impennata delle acquisizioni di aziende italiane da parte dell’estero. Il flusso medio di IDE in entrata è stato di 2593 milioni di dollari all’anno dal 1979 al 1998, e di 16912 milioni di dollari dal 1999 al 2011. Prima dell’euro il picco delle acquisizioni non si è avuto dopo la svalutazione del 1992, come sostengono i teorici del “fire sales”, ma nel 1988, in Sme “credibile” con la lira “forte” in un rapporto di cambio rigido con l’Ecu.
L'errore di fondo della tesi “l'euro protegge le aziende nazionali”, prosegue Bagnai nella sua analisi, è in una mancanza di conoscenze solide dell'economia internazionale, ed in particolare della letteratura teorica ed empirica sul commercio internazionale. E' noto come i vantaggi dell’introduzione dell'euro in termini di benefici per i turisti e per i costi di transizione sarebbero stati irrisori, come aveva ammesso la stessa Commissione Europea. Le transazioni commerciali risentivano (e risentono) del rischio di cambio in modo molto limitato, dato che i mercati finanziari consentono efficaci coperture a breve da questo rischio. L’euro, sostiene Bagnai, è stato fatto per proteggere i movimenti di capitale a medio-lungo termine dal rischio di cambio, cioè per favorire la circolazione indiscriminata dei capitali all’interno dell’Eurozona. Ed un progetto fatto per favorire la circolazione (cioè i deflussi e gli afflussi) di capitali crea evidentemente un ambiente favorevole all’acquisizione di aziende da parte dei capitali esteri.
Distruggendo la redditività delle aziende italiane (attraverso la chiusura dei mercati di sbocco, il collasso del mercato interno favorito dalle riforme a base di flessibilità...), l'euro ha fatto crollare il prezzo delle aziende italiane. Un crollo della quotazione di un’azienda del 20% la rende del 20% più conveniente per l’investitore estero ma, spiega il professore d'economia, non aumenta la sua competitività di prezzo e quindi non le dà strumenti per resistere a offerte di acquisizione. Una svalutazione del 20% rende l’azienda più conveniente del 20% per l’investitore estero, ma allo stesso tempo rilancia la sua competitività di prezzo, la sua capacità di generare fatturato e profitti, e quindi di resistere. In Italia sta succedendo la prima cosa ma non può succedere la seconda.
Chi difende l’euro vuole la svendita delle aziende italiane. Finché l’Italia, in altri termini, usa una moneta straniera (l’euro), se un’azienda di proprietà estera deve fare pagamenti all’estero (ad esempio per corrispondere alla casa madre estera dei profitti conseguiti in Italia), prima bisogna che la valuta straniera (l’euro) utilizzata sia entrata in Italia in qualche modo. Il deficit di pagamenti con l’estero determinato dalla necessità di rimpatriare i profitti all’estero deve essere compensato da un surplus da qualche altra parte. E il saldo delle partite correnti si corregge con l’austerità.
Quindi, conclude Bagnai, chi vuole l’euro vuole un lavoratore licenziato dall’investitore che ha acquistato l’azienda italiana, e tartassato, a valle, dallo Stato italiano, perché bisogna fare sacrifici per onorare i vari impegni con l’estero, fra i quali anche quello di remunerare il capitale del capitalista (estero) che ti ha licenziato. Il danno e la beffa.