DA VIAREGGIO A GAZA, un lavoro che “tocca il cuore”.

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di Mariangela Loreto
Khan Younis, marzo 2016 

Una delle strutture ospedaliere più grandi e più belle della striscia di Gaza è l’European Gaza Hospital di Khan Younis, a sud della Striscia. Durante l’ultima aggressione, quella definita da Israele – son so bene se per  tracotanza o ironia – “margine protettivo” anche quest’ospedale ha subito l’attenzione dell’aeronautica militare israeliana ed è stato necessario evacuare alcuni reparti, tra cui quello pediatrico, per evitare il peggio. In quest’ospedale, da quattro anni, opera il PCRF (Palestinian Children’s Relief Fund) una fondazione più o meno ventennale con sede in Ramalla, presieduta dallo statunitense Steve Sosebee. E’ proprio attraverso il PCRF che ogni anno vengono organizzate missioni umanitarie che riescono a salvare decine di vite. La missione che in questi giorni sta operando nel nuovo reparto di cardiochirurgia, costruito proprio grazie al progetti del PCRF è composta da italiani e palestinesi ed  è finanziata dalla Regione Toscana e dalla Chiesa Valdese. 


Invitata dalla missione italiana a vedere il nuovo reparto e il lavoro che vi viene svolto, mi sono trovata di fronte una situazione umanamente bellissima. Il team, guidato dal cardiochirurgo viareggino Vincenzo Luisi, opera qui con tutto il suo team per una decina di giorni (tanto dura la missione) per tutto il giorno e del tutto gratuitamente tutti i bambini affetti da patologie cardiache che sono il lista d’attesa in ospedale. 



Il team fa parte del PCRF e non è un gruppo di attivisti, per caso medici e infermieri. Al contrario, è un gruppo di medici e infermieri che credono semplicemente nel rispetto della vita e nel diritto di tutti ad essere curati e quindi svolgono una missione che non finisce sotto i riflettori, ma che restituisce al mondo decine e decine di vite che altrimenti, “grazie” all’assedio e all’occupazione sarebbero destinate a spegnersi.

Dell’équipe, oltre ad altri medici e infermieri italiani, fa parte anche un medico palestinese che si è specializzato nel policlinico milanese di San Donato in “cateterismo”, un trattamento poco invasivo atto a sostituire, ove possibile, la chirurgia tradizionale. Si chiama Momad e mi dice che si è trovato molto bene in Italia ma che mai ci sarebbe rimasto perché si sarebbe sentito un traditore della sua gente se avesse utilizzato all’estero le competenze capaci di salvare vite nel suo paese.



Per questo cerca di trasmettere ad altri medici quanto appreso in Italia. Gli chiedo se ha un sogno particolare rispetto al futuro e scopro che il suo sogno è simile a quello di Shadi, un infermiere professionista venuto a specializzarsi anche lui in Italia e tornato tra mille problemi di natura politico-burocratica perché non solo l’uscita da Gaza è un’avventura, ma a lo è anche il rientro. Shadi ha 32 anni e in questi 32 anni di vita solo una volta è potuto uscire da questa gabbia per seguire un corso di specializzazione rischiando di non riuscire a rientrare e non poter rivedere sua moglie e i suoi bambini, l’ultima nata mentre era all’estero e non riusciva a rientrare. Mi racconta che in passato voleva studiare medicina in Algeria, perché  lì l’università era gratis e poteva permetterselo, ma quando è arrivato il momento hanno chiuso gli accessi e così ora non è medico, ma è un capo-sala, peraltro stimatissimo, nel reparto di cardiologia.  Il sogno di Shadi è identico a quello di Mamod: non dover più mandare i pazienti fuori Gaza per mancanza di strutture o di personale specializzato e, soprattutto,  non doverli più veder morire per il divieto di uscire e l’impossibilità di curarsi.



Perché l’assedio è sempre lì, presente anche nel pensiero.   

In ospedale mi infilano gli abiti sterili perché ci tengono a farmi assistere, ovviamente a dovuta distanza, all’operazione a cuore aperto di un bimbo di quattro anni, poi mi portano a vedere il “risultato” di alcune operazioni eseguite solo poche ore prima. Quella che mi colpisce di più è la piccola Habiba, nata da poco più di un anno, operata da meno di un giorno, ancora sotto ossigeno eppure vitale e allegra come se fosse già in grado di giocare a pallone. Le infermiere la coccolano
e lei ride con degli occhi che sembrano insieme un ringraziamento e una sfida alla vita. 



Mi piace vedere da vicino il lavoro del PCRF e sono contenta di poter fornire questa testimonianza. 
 
Vincenzo e Martina Luisi, padre e figlia, cardiochirurgo lui e coordinatrice dei progetti lei, sono arrivati da  Viareggio e hanno intorno a sé questa  straordinaria équipe italo-palestinese che sa coniugare professionalità e allegria. Mi invitano a cena nella guesthouse dell’ospedale dove alloggiano per questi dieci giorni. Se non sapessi che escono da una giornata di lavoro duro tra bisturi, garze, cannule e delicatissimi macchinari per salvare bambini  in precario equilibrio tra la vita e la morte direi che sono un gruppo di amici in vacanza. 

Sarà lo spirito toscano (prevalente nella composizione del gruppo)  a creare questo clima che coinvolge tutti? Non lo saprò mai. Quel che mi dicono è disarmante e non faccio altre domande, mi dicono semplicemente che questo è il loro lavoro e ogni vita salvata è un successo, e siccome in questi giorni ne hanno salvate e ne salveranno tante, davanti a tanti successi essere allegri è d’obbligo. 
 
Loro sono già venuti altre volte e torneranno ancora perché c’è qualcosa di forte in questo loro sentirsi “semplicemente umani” che li tiene legati a questo spicchio di mondo. So che a volte hanno dovuto portare in valigia strumentazioni costosissime ma introvabili nella Striscia, rischiando di vedersele sequestrare ai controlli israeliani. Ma hanno rischiato, perché “anche il solo tentativo di salvare delle vite ingiustamente ingabbiate vale più dei sette-otto mila euro che potevano vedersi portar via col sequestro del materiale in valigia”. Così, esattamente così, mi ha detto Vincenzo, il cardiochirurgo, e l’ha detto con quell’aria un po’ scanzonata che hanno i toscani e che fa sembrare normale quello che altri definirebbero straordinario. 

E così ho scoperto anche il bello di una missione “semplicemente” umanitaria che in silenzio rende omaggio alla vita impedendo - come può - che l’assedio mieta altre vittime in tempo cosiddetto di pace. 

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