Sognare Gerusalemme e non potersi svegliare...

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Patrizia Cecconi,
28 aprile 2016
 
E’ successo ieri. E’ successo a due fratelli di circa 16 anni lui e di 24 lei. 

Erano felici, avevano avuto il permesso dagli occupanti della loro terra, di andare a Gerusalemme. Era la prima volta. Così mi racconta un amico palestinese. Venivano da Alram, un paese  vicino Ramallah. La giovane signora, perché di signora sposata e con due bambini si tratta, era incinta di 5 mesi quando, entrando per la prima volta nel check point di Qalandia, ha sbagliato percorso. Il timore e l’emozione infatti possono far sbagliare percorso, soprattutto quando ci si trova in stato di cattività, come si fosse animali in gabbia, con tanti guardiani armati intorno. 

L’errore è stato fatale. Il soldato israeliano, che ovviamente nessun sincero democratico amico di Israele chiamerà mai assassino, il soldato israeliano le ha gridato qualcosa nella sua lingua. La sua, quella dell’occupante, non quella della vittima, e Maram Salih, la giovane donna disorientata dalla situazione non ha capito cosa le stavano urlando. Ha fatto l’errore di correre, così raccontano dei testimoni, e i soldati del democratico stato occupante di Israele l’hanno crivellata di colpi. Stessa sorte è toccata a suo fratello, il suo accompagnatore in questo primo e ultimo viaggio nella sognata Gerusalemme.

La Mezzaluna Rossa Palestinese denuncia (inutilmente è ovvio!) che gli occupanti non hanno fatto neanche avvicinare i soccorsi. Ma nessuno pagherà per questi due fratelli assassinati. I piccoli orfani sapranno che la loro mamma e il loro giovane zio non potranno più portare il  regalino promesso dalla città santa, semplicemente perché  le loro vite sono state fermate prima di varcare il maledetto e illegale check point di Qalandia. 

Maram Salih e il suo fratello minore sono stati uccisi perché non conoscevano la lingua dell’occupante!  Tragico e assurdo, ma per essere più precisi, sono stati uccisi perché le complicità internazionali consentono a Israele di mantenere il suo stato di illegalità sulla Palestina e di assassinare, sempre impunemente, i palestinesi ad ogni occasione.

Qualcuno dirà che i soldati erano spaventati e per questo hanno aperto il fuoco. Qualcun altro dirà che Maram aveva un coltello o che forse ne aveva due, chissà. 

Il mio amico di Alram, o la mia “fonte” per usare un termine giornalistico, mi dice che non c’è stata alcuna eco da parte della dirigenza palestinese, come se in questo periodo questi crimini debbano essere coperti da un immenso silenzio “per non disturbare” perché, aggiunge, utilizzando quella che sembra una metafora , “il nostro percorso è segnato nei minimi particolari e non si può fare il più piccolo errore”. Con amarezza profonda mi dice “hanno disegnato un percorso per la nostra vita, non solo dentro i check point, ma in tutta la Palestina, ci hanno disegnato una vita in cui non possiamo muoverci come persone normali. Hanno disegnato le nostre strade, dove dobbiamo vivere e anche dove dovremo morire”. Una metafora tragicamente perfetta, putroppo!

Poi mi informa che la bambina di Maram si chiama Sara. Sara come la moglie di Abramo, il patriarca di cui parla la Bibbia e che gli islamici, come i cristiani, rispettano al pari degli ebrei.

Proprio Sara, come la donna che secondo la Bibbia fece cacciare Agar e Ismaele a morire nel deserto, laddove, però, il Dio di entrambi i popoli semiti ebbe pietà e fece zampillare una sorgente. Ma questo la moglie di Abramo non lo aveva previsto. E’ feroce l’Antico Testamento in certi  suoi passi, e certi suoi personaggi non rispondono davvero  a quell’umanità che, almeno a parole, è oggi  dichiarata valore condiviso. 

Eppure Maram aveva dato nome Sara alla sua bambina, in omaggio proprio alla moglie del patriarca Abramo, la prima madre di quel popolo i cui soldati armati ieri l’hanno uccisa. Lei certo non poteva sapere, scegliendo quel nome, che l’avrebbero uccisa proprio mentre andava a visitare il luogo dove si dice che il comune Patriarca avesse costruito il suo primo tempio. 

Forse Sara, la piccola orfana di Maram, crescendo penserà al significato del suo nome e forse chiamerà i suoi figli solo Mohammad e Kadija, o Ismail e Nour, non certo Ibrahim o Rachel per esempio. Di sicuro, se Sara prenderà coscienza  di dove può portare la mistura politico-religiosa di cui si nutre il sionismo, non potrà chiamare i suoi figli con quei nomi che santificano l’occupazione della sua terra e giustificano l’uccisione dei suoi legittimi abitanti, tra cui la mamma che sognava di andare a Gerusalemme per la prima volta nella sua vita e che non è riuscita ad arrivarci.

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