Che cosa significa realmente ‘democrazia’ negli Stati Uniti e il gergo del New York Times

Che cosa significa realmente ‘democrazia’ negli Stati Uniti e il gergo del New York Times

Washington è "preoccupata" per lo stato della democrazia in America Latina in generale e in particolare in Bolivia

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Uno dei resoconti giornalistici più rivelatori del "vero significato di democrazia” per gli Stati Uniti, scrive Glenn Greenwald su The Intercept, è un editoriale del New York Times del 2002 ma ancora notevole, riguardo al colpo di stato militare sostenuto dagli Stati Uniti in Venezuela, che aveva temporaneamente rimosso il presidente eletto, Hugo Chávez. Invece di definire quel golpe per quello che è stato per definizione – un attacco diretto alla democrazia da parte di una nazione straniera e di forze militari interne che non gradivano il presidente eletto in modo popolare – il Times, nella maniera più orwelliana possibile, ha letteralmente esaltato il golpe come una vittoria per la democrazia:
 
"Con le dimissioni del presidente Hugo Chávez, presentate ieri, la democrazia venezuelana non è più minacciata da un mancato dittatore. Il Signor Chávez, un disastroso demagogo, si è dimesso dopo che i militari sono intervenuti e hanno passato il potere a un rispettabile imprenditore: Pedro Carmona.
 
Fortunatamente, scriveva il Nyt, la democrazia in Venezuela non era più in pericolo…perché il leader democraticamente eletto era stato rimosso dall’Esercito e sostituito da un “imprenditore” non eletto ma favorevole agli Stati Uniti. I campioni della democrazia nel Nyt hanno allora chiesto un governante che fosse più di loro gusto: “Il Venezuela ha urgente necessità di un leader che abbia un forte mandato democratico per ripulire il pasticcio, incoraggiare la libertà imprenditoriale, snellire la burocrazia e renderla più professionale.”
 
Cosa ancora più sorprendente, gli editori del Times hanno detto ai loro lettori che la “rimozione di Chávez è stata una faccenda puramente venezuelana,” anche se è stato rivelato rapidamente e come era prevedibile, che i funzionari neoconservatori dell’amministrazione Bush hanno avuto un ruolo centrale in quella faccenda.

Undici anni dopo, alla morte di Chávez, gli editori del Times hanno ammesso che “l'amministrazione Bush aveva gravemente danneggiato la reputazione di Washington in tutta l’America Latina quando imprudentemente aveva benedetto un tentativo fallito di colpo di stato militare contro Chávez” [il giornale ha dimenticato di citare che anche esso ha benedetto ( e ha ingannato al riguardo i suoi lettori) quel golpe].

Gli editori hanno anche riconosciuto che le “politiche di Chávez per la redistribuzione hanno portato migliori condizioni di vita a milioni di venezuelani poveri” e che “non si può negare la popolarità di Chávez tra la maggioranza indigente del Venezuela".
 
Se però pensaste che il New York Times abbia imparato qualche lezione da quel fiasco, vi sbaglierate. Oggi hanno pubblicato un editoriale che esprime una seria preoccupazione sullo stato della democrazia in America Latina in generale e in particolare in Bolivia. La causa prossima di questa preoccupazione? La vittoria schiacciante del Presidente boliviano Evo Morales, che, come ha scritto il Guardian, “è molto popolare in patria per una gestione economica   pragmatica che ha permesso la redistribuzione della ricchezza che proviene dal gas naturale e dai minerali.”
 
Tuttavia, gli editori del Times considerano l’elezione di Morales per un terzo mandato non come una convalida della democrazia, ma come una minaccia a questa, in cui “la forza dei valori democratici nella regione è stata indebolita negli anni passati da colpi di stato e da irregolarità elettorali.” Anche quando ammettono che “è facile capire perché molti boliviani vorrebbero vedere Morales, il primo presidente del paese che ha radici indigene, rimanere alla guida della nazione: durante il suo mandato l’economia del paese, uno dei meno sviluppati dell’emisfero, ha avuto una crescita gagliarda, il livello di disuguaglianza si è ridotto, e il numero delle persone che vivevano in povertà è calato in modo significativo – tuttavia rimproverano i vicini della Bolivia per aver avallato il governo in corso di Morales: “è sconvolgente che democrazie più forti in America Latina sembrino contente di legittimarlo.”
 
Gli editori spiegano che la loro preoccupazione si basa sul lungo mandato di Morales e sui capi democraticamente eletti dell’Ecuador e del Venezuela: “forse la tendenza più inquietante è che i protetti di Chávez sembrano propensi ad emulare la sua riluttanza a cedere il potere.” Però il vero motivo per cui il NYT detesta con tale veemenza questi leader eletti e ironicamente li considera delle minacce per la “democrazia”, diventa chiarissimo verso la fine dell’editoriale:
 
"Questa dinamica regionale è stata deleteria per l’influenza di Washington nella regione. In Venezuela, Bolivia ed Ecuador, la nuova generazione di caudillosha tenuto d’occhio le politiche anti-americane e ha limitato l’impegno per lo sviluppo, la collaborazione militare e gli sforzi contro i traffici di droga. Questo ha danneggiato le prospettive di una cooperazione per il commercio e la sicurezza".
 
Non si può avere una dichiarazione più sfacciata di questa. I leader eletti democraticamente di queste nazioni sovrane che non si piegano ai dettami degli Stati Uniti, ostacolano l’imperialismo americano, e sovvertono i piani neoliberali dell’industria statunitense legati alle risorse della regione. Pertanto, nonostante il livello di popolarità che hanno tra i loro cittadini e anche se hanno molto migliorato le vite di milioni di persone, vengono dipinti come serie minacce alla “democrazia.”
 
Naturalmente è vero che dei leader eletti democraticamente sono capaci di adottare misure autoritarie. Sono, per esempio, i leader degli Stati Uniti democraticamente eletti che mettono in prigione per anni delle persone senza accuse, costruiscono sistemi segreti di spionaggio interno e dichiarano di avere il potere di assassinare i loro stessi cittadini senza giusto processo. Le elezioni non sono una garanzia contro la tirannia. Ci sono delle critiche legittime da fare riguardo a ognuno di questi leader a proposito di misure domestiche e di libertà civili, come ci sono praticamente per ogni governo del pianeta.
 
Ma proprio l’idea che il governo degli Stati Uniti e i media suoi alleati siano motivati da quelle pecche, è semplicemente ridicolo. Molti dei più stretti alleati del governo statunitense soni i peggiori regimi del mondo, a cominciare dal regno saudita straordinariamente oppressivo (proprio ieri condannato a morte un famoso dissidente sciita) e il brutale colpo di stato militare in Egitto, che diventa più popolare a Washington mentre diventa sempre più oppressivo. E, naturalmente, gli Stati Uniti appoggiano Israele in ogni modo che ci si possa immaginare, anche se il Segretario di Stato americano riconosce espressamente la natura di “apartheid” del suo percorso di politiche.
 
Proprio come ha fatto il NYT nel caso del colpo di stato del regime venezuelano, il governo degli Stati Uniti saluta il regime al potere dopo il colpo di stato egiziano come salvatore della democrazia. Ecco perché “democrazia” nel discorso degli Stati Uniti significa: “servire gli interessi statunitensi” e “obbedire agli ordini degli Stati Uniti,” indipendentemente dal modo in cui come i leader ottengano e mantengano il potere. Al contrario, “tirannia” significa opporsi all’agenda degli Stati Uniti” e “rifiutare gli ordini degli Stati Uniti, indipendentemente da quanto siano giuste e libere le elezioni che danno il potere al governo. I regimi più tirannici vengono esaltati fino a quando si dimostrano remissivi, mentre i governi più popolari e democratici sono condannati come dispotici nella misura in cui esercitano l’indipendenza.
 

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