L’Africa e la Corte penale internazionale: quale giustizia globale?

L’Africa e la Corte penale internazionale: quale giustizia globale?

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di J. Kazadi Mpiana

Il recente summit dell’Unione africana svoltosi nel capoluogo etiope dal 11 al 12 ottobre ha aggiunto un nuovo capitolo alla relazione sempre più complicata tra le due Organizzazioni. Se è stato congiurato il rischio di un ritiro di massa degli Stati africani dallo Statuto della Corte penale internazionale (CPI) come auspicava qualcuno, la questione rimane per ora accantonata aspettando gli sviluppi dell’ultimatum lanciato in direzione del Consiglio di sicurezza - in virtù delle prerogative che lo Statuto della CPI gli riconosce sulla base dell’articolo 16 - affinché la Corte sospenda la procedura in atto nei confronti del vice-Presidente e del Presidente del Kenya. Il processo di quest’ultimo si apre all’Aia il 12 novembre.

Quindi l’Unione africana aspetta una risposta non equivoca da parte del Consiglio di sicurezza prima della data indicata. Un’altra proposta abbastanza ragionevole formulata dall’Unione africana in alternativa, consiste a congelare le inchieste e le indagini a carico dei capi di Stato e altri alti ufficiali durante l’esercizio del loro mandato, quindi di aggiornarle. Questa proposta riguarderebbe anche il caso del Presidente sudanese Al Bashir sotto mandato di cattura internazionale. Si evidenzia dal summit la preoccupazione dell’Unione africana di tutelare, dall’operato della CPI, i dirigenti africani attualmente in carica. Ne dà la prova il silenzio nei confronti dell’ex Presidente ivoriano Laurent Gbagbo detenuto al centro penitenziario dell’Aia aspettando il suo processo.


 
Breve analisi

 
     La delusione degli Stati africani circa il funzionamento della Corte penale internazionale è assai nota e risale ai tempi dell’emissione del mandato di arresto nei confronti del Presidente sudanese Al-Bashir, nel 2009. Da luglio di quell’anno, l’Unione africana ha assunto un atteggiamento “aggressivo” nei confronti della CPI invitando gli Stati africani a non cooperare con la CPI nell’esecuzione del mandato; presentando ufficialmente al Consiglio di sicurezza la richiesta di far sospendere la procedura a carico del Presidente sudanese in base all’articolo 16. 
 
Di fronte al non accoglimento della richiesta, è stata inoltrata, senza esito positivo, una proposta di modifica dell’articolo 16 per conferire all’assemblea generale delle Nazioni unite la competenza di far sospendere le inchieste e le indagini o ancora di sollecitare quest’ultima per adire la Corte internazionale di giustizia, per mezzo di un parere consultativo, ai fini di pronunciarsi circa la compatibilità con il diritto internazionale dei procedimenti a carico dei più alti organi costituzionali degli Stati non membri della CPI, quindi la questione della loro immunità. Anche questa richiesta non è stata fin qui accolta. L’ulteriore mossa dell’Unione africana per indebolire la CPI fu di suggerire agli Stati membri di concludere tra di loro, in base all’articolo 98, degli accordi d’immunità simili a quelli conclusi dall’amministrazione Bush, specialmente tra il 2002 e il 2003. Secondo i dati in nostro possesso nessun accordo del genere, come auspicato dall’Unione africana, è stato concluso. L’idea di dotare la nascitura Corte africana di giustizia e diritti umani di una camera per giudicare i crimini internazionali commessi in Africa da africani costituisce un altro tassello nell’offensiva dell’Unione africana nei confronti della Corte penale internazionale e per ribadire soprattutto il concetto che le soluzioni africane debbono essere trovate in Africa. 
 
     È vero che l’Unione africana abbia qualche ragione nel contestare l’operato della Corte penale internazionale tutto rivolto in direzione del continente africano. Però ci si dimentica che sono stati, nella maggioranza delle situazioni pendenti dinanzi alla CPI, gli Stati africani stessi, per motivi comprensibili (Uganda, RDC, Repubblica centrafricana, Mali) a sottoporre all’attenzione del Procuratore situazioni in loro paesi invitando quest’ultimo a valutare la possibilità di indagare. Si può discutere sul rinvio del Darfur e della Libia da parte del Consiglio di sicurezza essendo il Sudan e la Libia Stati no parti allo Statuto della CPI allo stesso titolo come gli Stati Uniti, la Cina e la Russia che però, pur non essendo disponibili a consentire alla CPI di agire contro i loro cittadini, si avallano della loro posizione in seno al Consiglio di sicurezza per sollecitare che la Corte possa indagare anche in alcuni Stati estranei allo Statuto della CPI, nel nome del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale!
 
     Si può ancora discutere dell’iniziativa mossa dal Procuratore della CPI di indagare nella situazione del Kenya il vice-Presidente e il Presidente in carica anche se le indagini risalgono a quando non coprivano ancora i rispettivi ruoli. Tuttavia occorre notare che celebrare il processo a carico di un Presidente in funzione, fuori dal suo paese, lo impedisce di svolgere a pieno regime il mandato costituzionale ricevuto, specialmente se si tratta di uno Stato che esce da un conflitto armato o da violenze ed impegnato nella ricostruzione e la riconciliazione nazionale, obiettivi a cui hanno contribuito i due maggiori imputati del Kenya. La giustizia, intesa come procedimenti penali a carico, non dovrebbe essere fatta a tutti i costi. Bisogna valutare anche il contesto politico in cui la giustizia è chiamata a svolgere il suo compito. Su questo punto appoggerei la proposta dell’Unione africana di rinviare il processo dopo il termine del mandato salvaguardando così l’interesse per le vittime ad avere giustizia da un lato, e dall’altro evitando di indebolire la riconciliazione faticosamente ottenuta e quindi fragile. 
 
     L’offensiva dell’Unione africana nasconde le sue responsabilità nel campo della giustizia penale internazionale. Ha sacrificato questo aspetto privilegiando la stabilità, la riconciliazione, la pace con scarsa considerazione per le vittime dei crimini internazionali. Nonostante i vari proclami, principi ed obiettivi sanciti nell’Atto costitutivo dell’Unione africana come il diritto di intervenire negli Stati membri di fronte ai crimini internazionali e l’impegno costantemente ribadito da parte dell’Unione africana di lottare contro l’impunità, c’è da registrare che né gli Stati membri, né l’Unione africana hanno istituito procedimenti a carico degli alti presunti responsabili dei crimini internazionali commessi in Africa. Il caso Hissène Habré, pur essendo un caso a parte, partecipa dalla logica di scarsa attenzione dell’Unione africana nei confronti dell’emergenza della giustizia penale internazionale in Africa. Il caso Hissène Habré ha dimostrato che senza pressione estera, senza la sentenza della Corte internazionale di giustizia del 20 luglio 2012 nell’affare Belgio c. Senegal, l’Unione africana non aveva nessuna fretta o convinzione di istituire, tramite l’accordo con il Senegal, le Camere estraordinarie africane per incolpare Hissène Habré. 
 
     L’Offensiva dell’Unione africana nasconde un altro punto: la solidarietà dei Capi di Stato africani. Essi tendono a premunirsi contro eventuali indagini a loro carico e quindi devono fare scudo per evitare che la situazione attuale dinanzi alla CPI costituisca un precedente sfavorevole. Gli attacchi di una CPI neo- imperialista svolgendo una caccia “razziale” sono nient’altro che alibi per far accrescere l’ostilità nei confronti della CPI e di indebolirla. Con 34 Stati africani membri della CPI, con la Procura diretta da un’africana, assai diversa per stile dal precedente Moreno O’ OCAMPO, e con giudici di vari paesi,  ivi compresi quelli africani, l’argomento di uno strumento imperialista mi sembra poco sostenibile in quest’ottica. Semmai il problema maggiore deriva dal fatto che crimini commessi in altre parti del mondo e che avrebbero ritenuto l’attenzione della CPI non vengono perseguiti e si trova delle giustificazioni poco convincenti per farli passare “meno gravi”. Si tratta in quest’ottica di una giustizia forte con i deboli e debole con i forti. Bisognerebbe ripensare anche il rapporto tra la CPI e il consiglio di sicurezza evitando, nei fatti, una subalternità della CPI, percepita a volte come strumento giudiziario per fini politiche.

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