Libia, inizia la campagna della Clinton

Libia, inizia la campagna della Clinton

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Di Fulvio Scaglione
 
A che servono, davvero, questi bombardamenti sulla Libia? O forse dovremmo dire: a chi? Per rispondere bisogna prima tirare qualche linea di confine. Intanto, le bombe Usa cadono su Sirte, la città della costa da più di un anno occupata dalle milizie dell’Isis. I terroristi sono asserragliati in alcuni quartieri ben identificati presso il mare. Mantengono però il controllo della città, in cui sono rimasti almeno 30 mila civili. Ovviamente, trattandosi di bombe “nostre”, non si parla di vittime civili o “danni collaterali”, che comunque ci sono. I bombardamenti dureranno almeno un mese, fanno sapere gli alti comandi americani, con l’obiettivo di liberare la città e disperdere le milizie islamiste. Liberare la città? È possibile, nel senso che i miliziani, quando la pressione dal cielo supererà una certa soglia, se ne andranno e proveranno a ricompattarsi altrove. Sbandare le milizie islamiste? Difficile. Perché dovrebbe succedere in Libia ciò che non è successo, dopo oltre due anni di bombe, né in Siria né in Iraq?
 
Altro confine da definire: chi ha voluto queste bombe? Secondo gli americani, l’intervento è stato richiesto dal Fayez al-Sarraj, premier del cosiddetto Governo di unità nazionale libico. In realtà Al Sarraj governa assai poco e richiede quel che gli viene detto di richiedere dai partner occidentali che hanno fatto nascere il suo Governo. Gli si può attribuire, al massimo, l’intenzione di sventare i piani del generale Khalifa Haftar, che cerca un ruolo per sé e per le proprie milizie e da un’eventuale conquista di Sirte trarrebbe autorevolezza e benefici politici.
Gli Usa, a prime bombe lanciate, hanno ottenuto il solito via libera dell’Onu (che ha definito i raid “in linea con le risoluzioni delle Nazioni Unite”). Ma soprattutto si sono mossi sulla scorta della Authorization for Use of Military Force (Aumf) che fu approvata subito dopo gli attentati dell’11 settembre, ovvero quindici anni fa. Concepita per colpire Al Qeda (e l’Isis, in teoria, sarebbe persino nemico di Al Qaeda), l’Aumf è una specie di chiave universale che consente alla Casa Bianca di impiegare le forze armate senza dover chiedere il benestare del Congresso. Siamo insomma nel solito quadro: gli Usa vanno, l’intendenza (Onu, Paesi alleati come l’Italia e Paesi satelliti) segue e approva.
In sintesi, che cosa abbiamo? Un presidente, Obama, che pochi mesi fa ha definito “il mio più grande errore” la conduzione della campagna in Libia contro Muhammar Gheddafi nel 2011 e che ora, nel crepuscolo politico, replica pari pari la strategia di allora. Un comando, quello americano, che da lungo tempo andava considerando l’ipotesi dei bombardamenti, tanto che già in gennaio il generale Joseph Dunford, capo di stato maggiore, ammetteva che “gli Stati Uniti si stanno preparando a un’azione decisiva in Libia contro l’Isis”. Una comunità internazionale a cui viene l’eritema al solo sentir parlare di spedizione via terra, anche se tutti i generali avvertono che di sole bombe non si campa e nemmeno si vince. E un nemico, le famose milizie dell’Isis annidate a Sirte, formato da poche migliaia di uomini (la cifra massima finora fatta è 6 mila, ma in tutta la Libia) che, sia rispetto al problema Isis in generale, sia rispetto ai problemi della Libia in particolare, sono di fatto una variabile secondaria.
Di colpo, però, non si può stare senza bombardare Sirte. In Italia, per preparare l’opinione pubblica al fatto che i caccia e i droni Usa dovranno usare le nostre basi e che forse ci verrà chiesto anche altro, il Governo rivela che l’Isis lucra sui flussi dei migranti. Storia vecchia: diverse settimane, per dire, fa il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti ne aveva parlato all’Est Forum 2016 sulle migrazioni svoltosi a Roma. Però fa sempre effetto, e alla gente qualche bomba in più fa sempre piacere.
Viene allora il dubbio che questi raid debbano fare effetto più in America che in Libia e servano a mettere un po’ di adrenalina nella campagna elettorale di Hillary Clinton, che stenta più del previsto. Fu Hillary la grande artefice dell’intervento del 2011, su questo non c’è dubbio. Quella campagna divenne una sua sfida personale, tanto da coinvolgerla nello scandalo delle mail fatte girare sui server privati della Fondazione Clinton invece che su quelli del Dipartimento di Stato. Tra le tante, anche centinaia di mail in cui la Clinton discuteva del presente (la guerra) e del futuro (il nuovo Governo da costruire) della Libia con il consigliere privato Sidney Blumenthal, l’avvocato che aveva difeso suo marito Bill nello scandalo Levinski e che con la politica estera americana non aveva nulla a che fare.
Che c’è di meglio, per una candidata con questi scheletri nell’armadio, di una nuova campagna militare in Libia? Servirà a dimostrare che quella strada, anche se finita male, era però necessaria, inevitabile. E che la Clinton è la candidata con il resolve, la determinazione giusta per affrontare i problemi e prendere le decisioni sgradevoli ma necessarie. Tanto più che ora si tratta di attaccare l’Isis, il famoso nemico di tutti. E poco importa che da anni si traccheggi nel colpirlo laddove è forte, cioè in Siria e in Iraq: basterà colpirlo dove è debole, cioè in Libia, per sventolare sotto il naso degli elettori un risultato positivo, anzi onorevole.
Tanto più che il rivale Donald Trump non potrà dire nulla. Nel 2011 si era espresso contro l’avventura anti-Gheddafi, finita nel disastro che sappiamo. Ma chi se ne ricorda, ora? Qualche mese fa, invece, Trump aveva detto che non vedeva altra soluzione se non bombardare l’Isis in Libia. Oggi, mentre Obama fa proprio quel che lui chiedeva, Trump non può tirarsi indietro. Sono gli svantaggi dello sfidante e il palazzinaro coi capelli rossi deve pagar pegno. Lo ha capito subito il Cremlino, che non sopporta la Clinton e quindi cerca di ostacolarla. Il ministro degli Esteri Lavrov ha subito definito “illegali” i nuovi bombardamenti e ha chiesto una riunione del Consiglio di Sicurezza
Ma la mossa giusta, questa volta, è quella di Obama e della Clinton. Quando calerà la polvere, Sirte sarà “liberata”, i miliziani dell’Isis si saranno trasferiti altrove e la Libia sarà nel caos come sempre dal 2011, gli Usa avranno già un nuovo Presidente. E nessuno ricorderà questi giorni.
Per gentile concessione dell’autore
 

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