La giustizia secondo l'unica democrazia del Medio Oriente: bruciare vivo un bambino di 18 mesi non è reato

La giustizia secondo l'unica democrazia del Medio Oriente: bruciare vivo un bambino di 18 mesi non è reato

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di Paola di Lullo

Succede nell'unica democrazia del Medio Oriente. Succede che 5 ragazzi, contro i quali non esiste nessuna prova schiacciante, vengano condannati, e due coloni, contro i quali esistono prove lampanti non vengano nemmeno processati.
 
Alla fine la condanna è arrivata. Dura, durissima. In pieno stile israeliano. Dopo due anni ed otto mesi di detenzione, gli Hares Boys sono stati condannati a 15 anni di carcere ed al pagamento di una multa di 150.000 shekels ($ 39.000 o € 35.000 ). Il mancato versamento di questa somma entro il 28 gennaio 2016 inasprirebbe la condanna, anche fino a 25 anni di carcere.

Ed è arrivata, in mattinata, anche la dichiarazione del ministro della Difesa israeliano Yaalon, secondo cui non vi sarebbero prove schiaccianti per incriminare e condannare Elisha Odess e Hanoch Ganiram, due giovani cresciuti in un ambiente ultranazionalista e religioso, contrario a qualsiasi riconoscimento dei diritti dei palestinesi che, il 31 luglio scorso, diedero fuoco ad una casa nel villaggio di Kfar Douma. Nell'incendio perì bruciato vivo il piccolo Ali Dawabsha, 18 mesi, e, nelle settimane successive, il padre Saad e la madre Riham. Resta in vita solo il piccolo Ahmad, curato nel Tel Hashomer Hospital, in Israele, che, qualche giorno fa,  ha richiesto il pagamento delle cure mediche al ministro della Sanità dell'Autorità Palestinese. 
 
Eppure la vicenda intera, nomi dei responsabili inclusi, era stata ricostruita dall’attivista israeliano Richard Silverstein, sul suo sito, “Tikun Olam”. Lo Shin Bet, ha ricostruito Silverstein, era al corrente di tutto sin dall’inizio grazie a un agente infiltrato nel gruppo estremista. Eppure, ancora una volta, vince l'impunità.
 
Non viene applicato lo stesso metro se, ad essere considerati responsabili, presunti, di un qualche crimine, sono i Palestinesi. 

Chi sono gli Hares Boys? 


Il 14 marzo 2013, intorno alle 18,30, la macchina di un colono israeliano si schiantò contro il retro di un camion sulla Route 5, nel Governatorato di Salfit, nei pressi del villaggio di Hares, nella Palestina occupata. Il conducente e le sue 3 figlie rimasero feriti, e uno di loro morì due anni più tardi, per le complicazioni di una polmonite.  Il conducente, Adva Biton, che stava tornando all'insediamento israeliano illegale di Yakir, diversi giorni dopo,  sostenne che l'incidente era stato causato da giovani che avevano lanciato pietre contro la sua auto. Il conducente del camion, dopo aver testimoniato a caldo di essersi fermato, causando egli stesso lo scontro, per una gomma a terra, cambiò poi versione ed affermò di aver visto sassi provenire dal ciglio della strada.

Nessun testimone oculare. Nessuno che avesse visto dei ragazzini lanciare pietre, quel giorno.

Nelle prime ore di Venerdì 15 marzo 2013, soldati israeliani sotto copertura, alcuni con cani da attacco, presero d'assalto il villaggio di Hares, vicino alla Route 5. Più di 50 soldati irruppero nelle case, sfondando le  porte e prelevando i figli adolescenti di ogni famiglia. Dieci ragazzi furono arrestati quella notte, con gli occhi bendati e le manette e furono trasferiti in un luogo sconosciuto. Le famiglie non furono informate di nulla.

Due giorni dopo, una seconda ondata di arresti scosse il villaggio. Verso le 3,00 del mattino, l'esercito israeliano, accompagnato dallo Shabak (il servizio segreto israeliano), entrò nelle case di 3 adolescenti palestinesi. Avevano un pezzo di carta con i loro nomi in ebraico. Dopo aver costretto tutti i membri delle famiglie in una stanza, averli privati dei telefoni, in modo che non potessero chiedere aiuto,  i soldati ammanettarono i loro figli e li portarono via, dicendo loro " Bacia ed abbraccia tua madre. Potresti non rivederla mai più."

Una settimana dopo l'ennesima irruzione vide  l'arresto di altri 3 ragazzi, questa volta scelti a caso. Furono portati via con le mani legate dietro la schiena e gli occhi bendati. Anche in questa occasione, le famiglie non ebbero alcuna  informazione né riguardo le accuse mosse contro i loro figli né riguardo il luogo in cui erano stati portati.
In totale, nelle tre incursioni, furono arrestati 19 ragazzi. Nessuno di loro aveva avuto precedenti accuse inerenti il lancio di sassi. 

Dopo una serie di interrogatori molto violenti, in isolamento per due settimane, in una cella come un buco, di 1 metro di larghezza e 2 metri di lunghezza, senza finestre, senza materasso e coperta, con servizi igienici sporchi,  luci sempre accese per far perdere ai ragazzi la cognizione del tempo, cibo disgustoso e niente avvocati,  la maggior parte dei minori furono rilasciati, tranne cinque, Ali Shamlawi, Mohammed Kleib, Mohammed Suleiman, Ammar Souf, e Tamer Souf, tutti e cinque tra i 16 ed i 17 anni di età, che restarono nel carcere israeliano per adulti di Megiddo. 

Da allora, si parlò di loro come degli Hares Boys.

L'accusa  insiste sul fatto che i ragazzi consapevolmente "intendevano uccidere" e trova conferma nelle "confessioni" estorte ai ragazzi sotto tortura ed in 61 "testimoni", alcuni dei quali hanno sostenuto che anche le loro auto erano state danneggiate da sassi, quello stesso giorno, sulla stessa strada. Questi testimoni sono saltati fuori solo dopo le forti pressioni mediatiche e l'annuncio di Benyamin Natanyahu di aver arrestato i ragazzi responsabili dell' "atto terroristico". Altri "testimoni" sono la polizia e lo Shabak, che non erano presenti in quel luogo in quel momento. Non è chiaro se i 61 "testimoni" 61 sono stati adeguatamente interrogati e le loro affermazioni verificate con i filmati delle videocamere a circuito chiuso, se sono stati controllati eventuali ricoveri ospedalieri o danni ai loro veicoli. Tali informazioni non sono ancora disponibili per gli avvocati dei ragazzi. 

Due anni ed otto mesi di campagne in supporto di ragazzini, adolescenti, prelevati nel cuore di una notte di marzo  dalle loro case e sbattuti in carcere come adulti. 

Due anni ed otto mesi anni di udienze nelle corti militari israeliane, dove i ragazzi erano inizialmente accusati di 'tentato omicidio', fino a quando, il 26 novembre 2015, l'accusa è diventata omicidio colposo.

Il motivo? Aver lanciato pietre. I capi d'imputazione? Venti per ogni ragazzo, uno per ogni sasso che sarebbe stato lanciato.
 
Fonti : Free the Hares Boys
            Samidoun Palestinian Prisoner Solidarity Network
            Richard Silvertstein
            Nena News Agency

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