La Corte africana dei diritti dell’uomo e dei Popoli: una giustizia per gli individui o per gli Stati ?
Analizzando la giurisprudenza della Corte africana dei diritti dell’uomo e dei Popoli (Corte d’ora in poi), emerge un dato di fatto assai eloquente: l’incompetenza della Corte a dirimere nel fondo, i casi sottoposti alla sua giurisdizione. Questa incompetenza si motiva dal fatto che la Corte non può pronunziarsi sulle richieste degli individui se lo Stato di appartenenza non abbia precedentemente reso la dichiarazione in cui accetta la competenza della Corte ad accogliere richieste provenienti dagli individui o dalle ONG aventi lo status di osservatori dinanzi alla Commissione africana per i diritti dell’uomo e dei Popoli. Dalla prima sentenza emessa dalla Corte il 15 dicembre 2009 fino all’ultima resa il 26 giugno 2012, facendo astrazione delle varie ordinanze e misure cautelari, tutti i processi celebrati si sono conclusi con un nulla di fatto. Lo Stato convenuto, in vari casi, non ha ratificato il Protocollo di Ouagadougou del 1998 istituendo la Corte o non ha reso la dichiarazione prevista all’articolo 36 per consentire alla Corte di esaminare le richieste provenienti dagli individui. Peraltro bisogna soffermarsi sul fatto che gli individui, nel meccanismo africano di protezione dei diritti umani, non dispongono di un “diritto originario” ad adire la Corte. Essi devono soddisfare a due condizioni: l’accettazione della giurisdizione della Corte a favore degli individui ed ong da parte dello Stato territoriale da una parte e l’autorizzazione da parte della Corte affinché l’individuo possa adirla dall’altra parte. Se la seconda condizione appare più agevole d’arginare, il nodo rimane la dichiarazione degli Stati parte al Protocollo del 1998. Pochissimi Stati hanno reso la suddetta dichiarazione. La maggioranza non l’ha fatta e la mancanza di questa dichiarazione impedisce alla Corte di svolgere pienamente la sua funzione e di consentire agli individui di ottenere giustizia. A nostro avviso i processi celebrati dinanzi alla Corte ci sembrano “inutili quando lo Stato convenuto non ha reso la dichiarazione. Purtroppo la prassi seguita in questo caso è che la richiesta è debitamente registrata e notificata alle parti. La Corte stabilisce un calendario delle repliche o dupliche a volte anche il giorno del dibattimento. Nel frattempo tramite la Cancelleria, la Corte scrive all’Ufficio legale del Presidente della Commissione dell’Unione africana per informarsi circa il deposito della dichiarazione prevista dallo Stato convenuto o circa la “membership” dello Stato convenuto al Protocollo del 1998. Nelle sentenze rese fin d’ora lo Stato convenuto risulta non aver resa la dichiarazione. Alla fine del procedimento la Corte emette una sentenza di “incompetenza” in quanto difetta la base di giurisdizione. Ma bisognava proprio celebrare quei processi quando si è certi che si concluderanno con un nulla di fatto ? Chi ne esce “vittorioso” ? Lo Stato convenuto, finché non rende la dichiarazione può rimanere tranquillo e le sue violazioni dei diritti dell’uomo non verranno sanzionate dalla Corte. Stando a questo meccanismo la bilancia della giustizia pende favorevolmente dal lato dello Stato piuttosto che dall’individuo che deve soddisfare le due condizioni. Il Protocollo del 2008, non ancora in vigore, che opera la fusione tra la Corte di giustizia dell’Unione africana da una parte e la Corte africana dei diritti dell’uomo e dei Popoli dall’altra parte in un’unica Corte denominata Corte africana di giustizia e dei diritti dell’uomo riproduce l’esigenza della previa dichiarazione da parte degli Stati per l’accoglimento delle richieste individuali e quelle provenienti dalle ONG. Se non abbondano le dichiarazioni statali c’è da temere che la Corte sia un apparato di giustizia per gli Stati e non per gli individui.
KAZADI MPIANA Joseph. Dottore di Ricerca in Diritto internazionale e dell’Unione europea presso l’Università “La sapienza” di Roma.