Ehud Barak: "Trump non rompa con l'Iran"

«Ehud Barak, l’ex leader israeliano conosciuto per le sue posizioni dure verso l’Iran, ha dichiarato che sarebbe un “errore” se il presidente Trump decidesse di de-cerificare l’accordo sul nucleare iraniano, sia perché avvantaggerebbe l’Iran, sia perché verrebbe vanificata ogni speranza di negoziare con la Corea del Nord». Inizia così un articolo di Mark Landler, corrispondente della Casa Bianca del New York Times pubblicato l’11 ottobre.


«Il signor Barak, soldato decorato, primo ministro e ministro della Difesa, è l’ultimo e più importante israeliano a sollecitare Trump a non rinunciare all’accordo». Continua Lander, che spiega come il presidente debba annunciare a breve se far decadere o conservare l’intesa (scade il 15 ottobre).


Barak ha spiegato che se l’America compisse tale passo, nessuno gli andrebbe dietro, né russi, né cinesi né europei. «L’Iran, ha sottolineato, è conforme alle condizioni dell’accordo. Vorrà “continuare a raccogliere” i benefici economici dell’operazione». Se invece Trump rompe, avrebbe il pretesto per riprendere la corsa all’atomica.


Allo stesso tempo, tale passo indurrebbe la Corea del Nord a non trattare con gli Stati Uniti: «Diranno che non ha senso negoziare con gli americani se, dopo un tempo relativamente breve, possono recedere unilateralmente da un accordo siglato».


Un incubo per l’Asia: indurrebbe «Giappone e Corea del Sud ad acquisire armi nucleari». Allo stesso tempo un Iran nucleare farebbe lo stesso effetto in Medio Oriente, con particolare riguardo all’Arabia Saudita, all’Egitto e alla Turchia.


In questi giorni «altri israeliani importanti» stanno sollecitando Trump «a non revocare l’accordo», continua il cronista del NYT, tra questi «Uzi Arad, ex ufficiale del Mossad, già consigliere per la sicurezza nazionale del primo ministro Benjamin Netanyahu», giunto a Washington per tentare di persuadere i repubblicani.


L’opinione di Barak sull’accordo con l’Iran, spiega Lander «è particolarmente importante perché, come ministro della Difesa di Israele dal 2007 al 2013, ha condotto i preparativi per un possibile raid militare contro gli impianti nucleari iraniani», avvertendo che se gli israeliani non avessero agito tempestivamente la corsa iraniana alla bomba non avrebbe potuto più essere fermata da un’azione militare.


Barak e Netanyahu, attuale primo ministro israeliano «erano completamente allineati su tale prospettiva, ma hanno affrontato la resistenza dai capi delle agenzie di intelligence di Israele, che sostenevano che un raid militare avrebbe comportato conseguenze catastrofiche e che essi esagerassero l’imminenza della minaccia iraniana».


«Con l’accordo in vigore», ha dichiarato, «L’Iran è tutt’altro che una minaccia esistenziale per Israele».


Stesso ragionamento Barak applica alla Corea del Nord, che non può essere attaccata a causa delle conseguenze che tale iniziativa causerebbe alla Corea del Sud. «Ciò lascia solo la strategia del negoziati, sostenuta da sanzioni, per costringere il Nord a frenare il suo comportamento».


Quindi una dichiarazione più che illuminante: «Kim Jong-un è estremo. Ma è totalmente prevedibile e quasi trasparente, semplice da capire. Semplicemente non vuole sperimentare quello che è successo a Gheddafi e Saddam Hussein», ai quali non portò bene l’ostilità degli Stati Uniti.


Sul tema abbiamo scritto tante note in passato e nell’ultima abbiamo citato vari esponenti politici europei che hanno chiesto a Trump di evitare la rottura.


Se abbiamo riportato ampi stralci di questo articolo del New York Times è per i cenni di rara intelligenza ivi contenuti. E perché dedicato al tema chiave sul quale, a breve, si giocherà il destino del mondo. La pace o la guerra.


Probabile che Barak abbia preso una posizione così netta ed esplicita per motivi personali: ha fatto eleggere il suo pupillo, Avi Gabbai, a capo dei laburisti. E ora vorrebbe farne il nuovo premer israeliano.


Netanyahu ha dalla sua Trump. Barak si presenta al mondo che vuole conservare l’accordo con l’Iran, quasi tutto, come moderato, anti-Trump e soprattutto anti-Netanyahu, il primo motore immobile della (ancora) eventuale rottura tra Usa e Teheran, compimento del suo sogno politico. Detto questo, anche se quella dell’ex primo ministro israeliano fosse solo una mossa politica, l’esito non cambia.


Resta che nessun giornale italiano, si intende quelli mainstream, ha accennato a tale articolo e alle dichiarazioni di Barak, non certo l’ultimo degli sprovveduti.


Indice non ultimo della vacuità del giornalismo italiano. Non è solo solo tragica miopia, anche calcolo: prendere posizione espone a rischi. Limitarsi ad attendere gli eventi aiuta. Anche la carriera. Grazie al cielo esiste ancora del giornalismo. Altrove.

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