Fa bene Trump ad armare l'Ucraina "per la sua libertà", Paolo Mieli e l'apologia del regime di Kiev


PICCOLE NOTE


Una intemerata contro un «movimento di opinione teso a minimizzare» la minaccia che la Russia rappresenterebbe per l’Europa, in particolar modo contro quanti non si avvedono della condizione dell’Ucraina, «assediata da russi e filo-russi del Donbass».




Questo uno dei temi dell’editoriale odierno del Corriere della Sera a firma di Paolo Mieli. Uno scritto che elogia la decisione di Trump di vendere «armi a Kiev per trecentocinquanta milioni di dollari», per lo più missili anti-carro.


Per Mieli sarebbero in errore quanti accusano gli Stati Uniti di «armare il partito della guerra»: si tratta invece di una scelta del tutto in linea con le esigenze di preservare la libertà di quel Paese.


Sarà, ma ad oggi non si vede nessun segno che la Russia voglia attaccare Kiev, cosa che le metterebbe contro l’Europa, con la quale invece tenta di ricucire. Mentre al contrario Kiev non cessa di sostenere che la Crimea deve tornare ucraina e il Donbass deve sottomettersi al suo controllo senza ma e senza se.


Al di là della legittimità o meno di tali richieste, va segnalato che esse non hanno ancora innescato una guerra proprio perché la sproporzione di forze impedisce a Kiev di attaccare.


Fornire armi al revanscismo ucraino non aiuta ad attutire le tensioni, che andrebbero invece sciolte nell’ambito di un negoziato, impossibile fino a quando in Occidente continuerà a spirare forte il vento del maccartismo che fa di Mosca il Nemico.


Mieli si spinge più avanti, negando che la nuova Ucraina, nata da Maidan, sia patria di fascismi. Anzi no, che poi invece deve pur ammettere che «è accaduto anche che in Ucraina abbiano preso piede movimenti di impronta fascista»…


«E allora?», si chiede, minimizzando la problematica, che invece non ci pare del tutto irrisoria anche per il ruolo decisivo che tali movimenti, non solo fascisti ma decisamente filo-nazisti, hanno assunto nella riuscita della rivoluzione di Maidan e nella strutturazione degli apparati della nuova repubblica.


Se si considera con quanta preoccupazione il Corriere, sul quale Mieli pure scrive, segue le gesta di movimenti di tal genere in Italia e nel resto dell’Europa, non si può che restare perplessi per tale bizzarra, opposta, minimizzazione.


Ma al di là del particolare, Mieli conclude l’elogio della vendita di armi all’Ucraina accennando come essa abbia trovato il deciso e intelligente «appoggio» del senatore John McCain, pure strenuo avversario di Trump.


Insomma, criticare Trump per questa scelta sarebbe più che erroneo, come dimostra l’appoggio del suo oppositore.


In realtà quello di Mieli è un gioco di specchi: non c’è nulla di strano nel sostegno di McCain a tale vendita. Il senatore americano è un esponente dei neocon e con il suo placet alla decisione del presidente non fa altro che confermare il senso di tale ambito per l’Ucraina.


Fu tale ambito, infatti, a forzare l’America per ottenere il successo della rivoluzione di Maidan, portando al parossismo, in maniera più che pericolosa per la pace globale, lo scontro con la Russia.


Un particolare dimostrato in maniera icastica dall’impegno profuso in tal senso da Victoria Nuland, al tempo vice-segretario di Stato americano in quota neocon. Per inciso, quella che mandò a quel Paese l’Unione europea (come riportò lo stesso Corriere) che invece tentava di attutire le tensioni Est-Ovest.


Uno scritto istruttivo, quello di Mieli, sotto due profili. Il primo riguarda gli interna corporis della presidenza Trump.


La vendita di materiale bellico all’Ucraina segnala che Trump ha ceduto alla pressione dei neocon, in contrasto con quanto aveva dichiarato in campagna elettorale, durante la quale aveva detto più volte di voler stabilire rapporti cordiali con Mosca.


In altra nota, avevamo accennato a come la decisione incendiaria di Trump di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele fosse una concessione ai neocon.


Un passo che il presidente Usa aveva compiuto per allentare la stretta alla quale era sottoposto da parte di tale ambito. Stretta che lo stava strangolando attraverso la vicenda Russiagate (del quale da alcuni giorni infatti non si parla più…).


La vendita di armi a Kiev segnala che Trump ha dovuto fare un’ulteriore concessione. D’altronde i neocon non si accontentano: si ricordi di come sotto la presidenza di George W. Bush abbiano preso saldamente il controllo dell’America.


Resta da capire fino a che punto Trump sia disposto o sarà costretto a cedere. Ad oggi non sembra essersi consegnato nelle loro mani, come dimostrano i pubblici elogi che Putin ha indirizzato al suo omologo americano (vedi Piccolenote).


Né sembra che la decisione di vendere armi all’Ucraina sia indizio certo di una prossima nuova avventura bellica di Kiev contro i ribelli del Donbass. Di ieri la notizia di uno scambio di prigionieri tra le opposte fazioni, piccolo segnale in controtendenza, appunto. Vedremo.


È invece molto interessante la critica di Mieli al ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel, colpevole di aver immaginato una nuova trattativa con la Turchia e l’Ucraina per favorire il loro ingresso nell’Unione Europea.


Prevedere una identica via di accesso alla Ue per i due Paesi per Mieli è un accostamento indebito, stante le distanze tra la giovane e gloriosa democrazia ucraina e la Turchia del satrapo Recep Tayyp Erdogan.


Eppure, e invece, proprio certe distanze rendono l’accostamento prefigurato da Gabriel più che interessante. Si tratta di due Paesi che hanno con i russi rapporti diversi e contrastanti: per Ankara rappresentano degli interlocutori privilegiati, per Kiev degli avversari irriducibili.


Eppure aprire negoziati intrecciati e paralleli potrebbe portare risultati virtuosi dal punto di vista della distensione internazionale: da un lato il negoziato tra Ue e Turchia potrebbe aprire nuovi canali di comunicazione tra Bruxelles e Russia, dall’altro un’Europa meno conflittuale con Mosca potrebbe aiutare una distensione tra Kiev e il suo odiato vicino. Ipotesi interessante.

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