Biden, il nuovo capo della Cia e trappola di Tucidide

14 Gennaio 2021 11:00 Piccole Note

Mentre al Congresso si gioca il futuro di Trump (vedi nota precedente), Biden sta faticosamente creando la sua nuova amministrazione. Sembra notizia scontata, ma non lo è, dato che i media avevano annunciato la “squadra” da tempo. Se ancora si lavora alla scelta dei nomi, vuol dire che nell’ambito democratico ci sono spinte divergenti. E, data la posta in palio, volano coltelli.

Conflitto segreto evidenziato dal procedimento di impeachement contro Trump, che Biden non voleva, ufficialmente per non turbare il suo prossimo lavoro (Time), in realtà perché sa perfettamente che Trump può essergli utile da oppositore politico (inconfessabile convergenza degli opposti, vedi “Biden ha bisogno di Trump” su Piccolenote).

Il suo predecessore può aiutarlo non poco a vincere il contrasto durissimo che dovrà subire dall’ala liberal e dai neocon repubblicani per tentare di chiudere, almeno in parte, la follia delle guerre infinite, che da moderato non condivide.

Ma gli era impossibile alla spinta per rimuovere Trump, data la spinta fortissima dei liberal, guidati dal presidente del Senato, l’irriducibile anti-trumpiano Chuck Schumer, e dalla presidente della Camera, la sciamana Nancy Pelosi.

Burns o del dialogo segreto

Persa la sua prima battaglia interna, però, Biden sembra che abbia qualche possibilità di formare la nuova amministrazione secondo le sue prospettive, limitando cioè l’influenza dei liberal.

Se la sua vittoria coincide con il rigetto dell’America First e il ritorno dell’America nel proscenio del mondo, sembra che stia tentando di evitare che tale ritorno coincida con una nuova stagione di conflitti, o almeno tenta di limitarne la portata.

Da qui la scelta di William Burns come capo della Cia, del quale Haaretz ricorda l’impegno profuso per portare in porto il negoziato sul nucleare iraniano, “nonostante le opposizioni pubbliche di Netanyahu“.

Compito arduo il ripristino di tale accordo, stracciato da Bolton, riguardo il quale Biden dovrà guardarsi anche dalle “provocazioni” israeliane, come da dichiarazioni dell’ex Segretario di Stato Rex Tillerson, riprese da Haaretz non certo a caso.

La scelta di Burns è stata salutata dai media italiani come un felice ritorno alla guerra a tutto campo contro la Russia, spinta frenata sotto la presidenza Trump.

In realtà, secondo Scott Ritter, ex ufficiale dell’intelligence del Corpo dei Marines degli Stati Uniti e tanto altro, che presta la sua penna anche a Russia Today, se è vero che l’ex ambasciatore a Mosca ha rilasciato dichiarazioni dure su Putin e la Russia, è probabile che la scelta sia caduta su di lui non tanto, o non solo, per riaprire vecchi conti in sospeso, ma anche per riportare le conflittualità Usa nel mondo, in particolare quelle con Mosca, in un ambito più controllabile.

Burns, infatti, secondo Ritter, ha ampia esperienza delle trattative sottotraccia, quelle che normalmente si svolgono durante le crisi e che permettono a queste di evitare escalation. E presumibilmente il ripristino di tali di canali di dialogo segreti è il compito che gli è stato affidato dal presidente.

Da qui, secondo Ritter, una politica estera un po’ meno aggressiva, una limitazione delle “rivoluzioni colorate” e uno sviluppo delle politica estera americana più votata alla diplomazia e al soft power che all’hard power. Vista la fonte, è un auspicio da prendere in considerazione. Vedremo.

La Cina. Usa tra pragmatismo ed esistenzialismo


L’altro dossier scottante dell’Agenda Biden è il confronto con la Cina. Il Financial Times ha anticipato che a presiedere alle decisioni su questa area del mondo sarebbe chiamato Kurt Campbell, che servì sotto Barack Obama.

Nel riferire l’anticipazione, Il South China Morning Post spiega che, se confermata, la scelta di Campbell “potrebbe significare meno ideologia e più pragmatismo a Washington nei confronti della Cina”.

Campbell, continua il Scmp, ha sempre sostenuto la necessità di un “riequilibrio” in Asia, il cui obiettivo era “investire e promuovere la collaborazione in Asia, in particolare con la Cina, su varie questioni, dal cambiamento climatico alla sicurezza regionale guidata dagli Stati Uniti”, politica poi mutata con la strategia dell’Indo-pacifico realizzata da Pompeo, volta a costruire un’alleanza militare in funzione anti-cinese.

Forse un po’ irenica la nota del Scmp, dato che anche Obama creò una cintura di contenimento della Cina e che purtroppo da allora troppa acqua è passata sotto i ponti e la Cina è diventata un gigante pericoloso, che mina l’egemonia globale Usa, ancora restia al multilateralismo e attaccata all’idea di una primazia incontrastata e incontrastabile.

Impossibile che l’America non veda Pechino come un antagonista irriducibile, dato che non riesce a ricacciare l’ossessione alla quale la consegna la follia dell’eccezionalismo americano.

Ma se il confronto Usa-Cina tornerà su binari più pragmatici, evitando cioè le derive esistenziali assunte in questi anni con Pompeo e Navarro (assistente di Trump per il commercio), figure peraltro con le quali Trump spesso si è trovato in contrasto, potranno evitarsi tragici incidenti di percorso.

Quelli per intendersi che appaiono inevitabili nella famosa trappola di Tucidide, secondo la quale quando una potenza ascende e ne incalza una precedente, la guerra è destino ineludibile. Vedremo.

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