M5S e come affrontare la "perfect storm"


di Francesco Erspamer - Controanalisi


C’è un’espressione inglese senza equivalente in italiano che mi pare descriva la situazione in cui si trova il M5S: perfect storm, tempesta perfetta, ossia un evento reso catastrofico da una casuale combinazione di circostanze e decisioni, ciascuna delle quali di per sé trascurabile o addirittura lodevole. Quando si scatena è impossibile controllarlo, ma solo se non si sia capito il ruolo giocato da ogni componente. Se invece si riesce a comprenderne il meccanismo, qualche piccolo intervento mirato può ridurre l’uragano a semplice acquazzone.

Un esempio? La pratica pentastellata di tagliare lo stipendio dei propri parlamentari (e solo dei propri) e in generale di penalizzare il proprio gruppo dirigente, lanciando un chiaro segnale antipolitico e demagogico: la politica corrompe quindi per fare gli interessi del popolo c’è bisogno di persone al di sopra di ogni debolezza e tentazione, quasi dei santi o degli eroi. Una strategia che ha contribuito all’iniziale, sorprendente crescita del Movimento cavalcando il diffuso disgusto per la corruzione e il rampantismo sdoganati da Berlusconi e dal Pd.

Ma le dimensioni del successo alle elezioni del 2018 hanno cambiato la congiuntura, e sarebbe stato peggio se la legge elettorale fosse ancora stata il Porcellum che cinque anni prima aveva regalato la maggioranza assoluta a un partito con il 29% dei consensi. Perché molti dei candidati del M5S erano stati raccattati all’ultimo momento, fra opportunisti che avevano fiutato il vento o anche fra sinceri simpatizzanti ma privi di esperienza e non temprati dalla lotta politica; per non dire del passaggio dall’opposizione al governo, che fa un’enorme differenza. Il Movimento avrebbe dovuto immediatamente cancellare quella norma: quando si ha il potere la priorità assoluta è la concreta attuazione del proprio programma e solo su quello si viene giustamente giudicati dalla gente, non su astratti princìpi e tanto meno su questioni procedurali.

Non lo ha fatto ma le conseguenze dell’errore avrebbero potuto essere tollerabili se almeno la propria virtù fosse stata usata propagandisticamente, con un martellamento mediatico ossessivo e accompagnato dalla richiesta di una riduzione degli stipendi di tutti i parlamentari; invece niente, per via di un altro sbaglio: la mancata occupazione della Rai, come qualsiasi governo precedente aveva fatto (e i prossimi faranno), e l’incapacità di assicurarsi il sostegno di almeno un paio di giornali ad alta diffusione e di qualche canale televisivo, ovviamente dando qualcosa in cambio. Dettagli, ma determinanti.

Così lo stillicidio di parlamentari continua (sono ormai una trentina, ossia il 10%) e accelererà quando si sarà prossimi alla fine della legislatura; e intanto il magnifico lavoro fatto in questi due anni non ottiene il riconoscimento dovuto. C’è ancora troppo da fare per il paese per potersi permettere di cederne il governo agli squali liberisti solo per restare fedeli a fissazioni come il mito di una politica povera e dilettantistica (l’assurdo limite di due mandati) e il rifiuto di servirsi senza scrupoli di adeguati strumenti propagandistici. Questo significa confondere i mezzi con i fini: succede a chi, avendo mancato di darsi un’ideologia (altro errore), quando si istituzionalizza finisce con l’ideologizzare delle mere soluzioni tattiche, elevandole senza neanche accorgersene al rango di dogmi.

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