Il libro di Giavazzi da leggere per capire che cos'è il governo Draghi

26 Febbraio 2021 08:00 Francesco Erspamer

Dunque Draghi nel suo discorso programmatico davanti al Parlamento, per esporre la politica fiscale del governo ha scopiazzato un articolo dello scorso giugno scritto dall’ingegnere-economista ultraliberista Francesco Giavazzi, del quale ricordo un libro apparso nel pieno della crisi finanziaria del 2008 per proporre, come rimedio agli abusi e fallimenti delle grandi banche speculative, dosi ancora più massicce di deregulation e libero mercato; un libro scritto in collaborazione con un mio collega di Harvard, Alberto Alesina, morto l’anno scorso dopo una carriera spesa a celebrare le virtù del capitalismo selvaggio. Questo per ricordare ai grillini e piddini chi siano i punti di riferimento ideologici del loro presidente del consiglio: i Bocconi boys Giavazzi e Alesina (così li chiamava Paul Krugman) e dietro di loro la solita Thatcher e il solito Reagan, che oltre tutto a Draghi ricorderanno i suoi trent’anni ruggenti.
L’avete ascoltata o letta la proposta di Giavazzi, pardon, Draghi? Tagliare le tasse ai ricchi e alle multinazionali, il consunto eppure sempre verde mantra thatcheriano e reaganiano. Quei ricchi e quelle multinazionali che mentre la classe media e le piccole e medie imprese soffrivano per la pandemia, hanno fatto un sacco di soldi. Perché dargliene ancora di più? Perché così spendono e fanno PIL. In inglese si chiama “trickle-down”, letteralmente gocciolare giù, un’immagine brutale nella sua trasparenza: il massimo a cui la gente ordinaria può aspirare sono le briciole che cadono dalla tavola a cui i nababbi si ingozzano, e deve anche essere riconoscente in quanto niente le sarebbe dovuto.
Balle: non solo i popoli hanno diritto a tutta la ricchezza, equamente distribuita fra tutti i cittadini, ma chi la produce la produrrebbe lo stesso, anzi di più, anche se dovesse accontentarsi di stare bene e avere abbastanza per sé e per i propri figli invece di accumulare patrimoni osceni. Ma un punto della narrazione propagandistica dei poteri forti della finanza è vero: quando la gran parte del denaro finisce nelle tasche dei benestanti, la borsa sale. Cos’altro potrebbero farci, di tutti quei miliardi? Impossibile spenderli: hanno tutto e di più; l’unica è investire. È una bolla ma finché il sistema non cambia può continuare a gonfiarsi. Soprattutto se la classe media, che col solo lavoro può sopravvivere ma non arricchirsi, appena ha qualcosa da parte prova pure lei a speculare – gli italiani prudenti, sobri e risparmiatori sono un mito d’altri tempi. Certo, i piccoli investitori realizzano profitti molto inferiori a quelli dei milionari; ma chiunque abbia un piccolo capitale può moltiplicarlo senza lavorare (il sogno del leghista tipico, che al tempo stesso e senza avvertire la contraddizione odia il reddito di cittadinanza perché premia i lavativi).
Basta qualche anno di mercati in crescita e la gente si abitua, prende a considerarlo un diritto inalienabile. Per cui se i giornali e telegiornali le fanno capire che per tenere su la borsa occorre autorizzare i licenziamenti, privatizzare la sanità, eliminare regole e controlli (il sogno di Salvini), aprire i porti a milioni di migranti da sfruttare (il sogno dei liberal e uguali), la gente vota a destra o comunque per i partiti delle liberalizzazioni. Giustamente, perché nel brevissimo termine fanno effettivamente i suoi interessi e del doman non solo non v’è certezza ma a pochi gliene importa qualcosa (ormai i valori sono a obsolescenza programmata).
Volete lo stesso vedere quello che state per diventare grazie al governo Giavazzi, pardon Draghi? Guardate agli Stati Uniti. L’intera popolazione è ostaggio di Wall Street: se la borsa crollasse gran parte dei cittadini si troverebbe senza pensione, senza lavoro e dunque senza assistenza sanitaria, nell’impossibilità di pagare il mutuo della casa, dell’automobile, dell’iPhone o i debiti fatti per andare all’università. Altro che Grande Depressione. Il 2008, come ben sanno Giavazzi e Draghi, fu una prova generale, perfettamente riuscita: dimostrò che un popolo drogato di media e consumi e desideroso solo di denaro, nei momenti critici preferisce salvare le grandi banche e i miliardari piuttosto che la propria qualità della vita, il proprio avvenire e i diritti sociali, sindacali e politici faticosamente conquistati in passato. Una borsacrazia.
Un ultimo commento. La maggioranza dei giornali e giornalisti hanno taciuto del plagio di Draghi (quelli bravi non vanno criticati, fosse che non fosse che qualcuno possa notare che non lo sono); però anche quelli che lo hanno denunciato hanno mancato di metterne in evidenza l’aspetto più allarmante: che per annunciare una banalità quale il reaganismo fiscale alla Giavazzi, Draghi non abbia saputo usare parole sue ma le abbia dovute citare da un articolo altrui. Come se ciò che diceva, e che farà, non fosse il frutto del suo pensiero e della sua competenza (chiamiamola così) bensì un discorso di riuso, simile a quello dei testi sacri, che si possono solo ripetere identici perché qualsiasi variazione sarebbe eresia. Succede, nell’epoca del fondamentalismo liberista e del conformismo mediatico.

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