I banchieri dietro “Occupy central” a Hong Kong. Contro l'occupazione "rossa"


di Diego Angelo Bertozzi

Cosa hanno i comune movimenti come “Occupy Wall Street”, andato in scena a New York nel 2001, e “Occupy Central” di Hong Kong in Cina? Nulla oltre al nome. Se nel primo caso sul banco degli imputati era il capitalismo affamatore rappresentanti dall’1% di privilegiati contro il 99% di sfruttati, nel secondo caso, invece, ci troviamo di fronte ad una mobilitazione “incentrata sulla richiesta di diritti politici ed elettorali, ma che non mette in discussione i principi del capitalismo”.

A scriverlo sul New York Times è il giornalista Chris Buckley che, in aggiunta, racconta come a sostenerlo economicamente sia una élite finanziaria di banchieri insofferenti verso quella che è percepita come una vera e propria occupazione dai parte dei “rossi” di Pechino. Le azioni di “disobbedienza civile” che si vogliono organizzare avranno al centro la richiesta di libere elezioni “assolute” nell’ex colonia britannica senza interventi e interferenze da parte del governo cinese (quindi del Partito comunista). Il sistema politico di Hong Kong, successivo alla riunificazione avvenuta nel 1997 nel segno della politica “Un Paese, due sistemi” è ormai vissuto da una parte dell’etile finanziaria come una “pietra d'inciampo per la crescita sociale, politica ed economica della città, ed è la causa principale, a lungo termine, di divisione sociale e disarmonia”.
Ad essere oggetto di aperta critica è, quindi, il sistema economico-sociale della Cina stessa e, di conseguenza, il ruolo di guida del Partito comunista. E che simili posizioni arrivino da Hong Kong non è certo un caso. Basti pensare alle dichiarazioni di Liu Xiaobo, dissidente cinese premio Nobel per la pace nel 2010, che in una intervista del 1988 rilasciata al "South China Morning Post”, passò sopra la più che secolare sofferenza del proprio popolo dichiarando che "ci vorrebbero 300 anni di colonialismo" perché "in 100 anni di colonialismo, Hong Kong è diventato quello che vediamo oggi". Dunque "Vista la grandezza della Cina, certamente ci vorrebbero 300 anni perché una colonia sia in grado di trasformarsi come la Hong Kong di oggi". Ma siccome non era poi così sicuro, aggiunse: "Dubito che 300 anni siano abbastanza".
La traiettoria da lui indicata era chiara: la “modernizzazione significa in sostanza occidentalizzazione, la scelta di una vita umana coincide con la scelta del modo di vita occidentale. La differenza tra un sistema di governo occidentale e quello cinese è quella tra l'umano e l'inumano, non c'è una via di mezzo […]”. Dovrebbe diffondersi quindi da Hong Kong una nuova “Spedizione al Nord” per sbarazzarsi prima dell’occupazione di Pechino per poi chiudere i conti con il governo comunista?

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